Israel Joshua Singer
LA NUOVA RUSSIA
Prima edizione mondiale
(New Russia © 2022 koren publishers jerusalem ltd)
Traduzione di Marina Morpurgo
Con una nota di Francesco M. Cataluccio
A cura di Elisabetta Zevi
ISBN 9788845938542
È l’autunno del 1926 quando Israel Joshua Singer, su invito del direttore del «Forverts» − quotidiano yiddish di New York −, si reca in Unione Sovietica per un reportage che lo impegnerà diversi mesi. «Queste immagini e impressioni sono state scritte di getto, sul momento, come accade nei viaggi» dirà, non senza understatement, a commento del suo lavoro, che invece costituisce una testimonianza eccezionale, per molti versi unica. Perché Singer, che aveva osservato a fondo il paese dei soviet già nel pieno della tempesta rivoluzionaria, non solo ci mostra ora uno scenario drasticamente mutato, ma coglie in nuce, con occhio penetrante, quelli che saranno i tratti peculiari del regime staliniano: la burocrazia imperante, la pervasività dell’apparato poliziesco, gli ideali comunisti sempre più di facciata, i rigurgiti antisemiti. Percorrendo le campagne bielorusse e ucraine punteggiate di fattorie collettive e colonie ebraiche, visitando le principali città del paese – Mosca, «grande, straordinaria e bellissima»; Kiev, che «non riesce ad accettare il nuovo ruolo di città di provincia»; Odessa, «cortigiana esuberante» divenuta «profondamente osservante e devotamente socialista» –, immergendoci in una prodigiosa polifonia di testimonianze, Singer ci restituisce un quadro vivido e composito, pieno di chiaroscuri, della nascente società sovietica. E porta così alla luce le feroci contraddizioni che proliferano sotto lo sguardo vigile e ubiquo delle nuove icone laiche del «santo Vladimir».
L'incipit
LA NUOVA RUSSIA
Prima edizione mondiale
(New Russia © 2022 koren publishers jerusalem ltd)
Traduzione di Marina Morpurgo
Con una nota di Francesco M. Cataluccio
A cura di Elisabetta Zevi
ISBN 9788845938542
È l’autunno del 1926 quando Israel Joshua Singer, su invito del direttore del «Forverts» − quotidiano yiddish di New York −, si reca in Unione Sovietica per un reportage che lo impegnerà diversi mesi. «Queste immagini e impressioni sono state scritte di getto, sul momento, come accade nei viaggi» dirà, non senza understatement, a commento del suo lavoro, che invece costituisce una testimonianza eccezionale, per molti versi unica. Perché Singer, che aveva osservato a fondo il paese dei soviet già nel pieno della tempesta rivoluzionaria, non solo ci mostra ora uno scenario drasticamente mutato, ma coglie in nuce, con occhio penetrante, quelli che saranno i tratti peculiari del regime staliniano: la burocrazia imperante, la pervasività dell’apparato poliziesco, gli ideali comunisti sempre più di facciata, i rigurgiti antisemiti. Percorrendo le campagne bielorusse e ucraine punteggiate di fattorie collettive e colonie ebraiche, visitando le principali città del paese – Mosca, «grande, straordinaria e bellissima»; Kiev, che «non riesce ad accettare il nuovo ruolo di città di provincia»; Odessa, «cortigiana esuberante» divenuta «profondamente osservante e devotamente socialista» –, immergendoci in una prodigiosa polifonia di testimonianze, Singer ci restituisce un quadro vivido e composito, pieno di chiaroscuri, della nascente società sovietica. E porta così alla luce le feroci contraddizioni che proliferano sotto lo sguardo vigile e ubiquo delle nuove icone laiche del «santo Vladimir».
L'incipit
ATTRAVERSO LE FRONTIERE
A bordo del
treno che va da Berlino a Mosca passando per Varsavia c’è un
gradevole tepore. La carrozza ristorante è affollata. Si sentono
parlare diverse lingue: francese, tedesco, inglese, russo, cinese e
un po’ di polacco. A un tavolo sono seduti dei tizi biondi grandi e
grossi che conversano a voce alta in inglese. Dai loro modi chiassosi
e disinvolti – si sono presentati nella carrozza ristorante in
maglione, senza giacca, infischiandosene dell’etichetta – si
capisce al volo che non possono che essere americani. Sono
chiaramente diretti in Russia per affari, alla ricerca di
concessioni. A un altro tavolo sono seduti dei francesi: piccoletti,
magri, bruni, parlano a voce bassa e sono tutti in abito scuro e
camicia bianca. Li sento pronunciare spesso la parola «Mosca ». I
tre passeggeri cinesi, due uomini e una donna, portano grandi
occhiali di produzione americana e sono vestiti all’ultima moda. La
donna è robusta e, come se non bastasse, indossa un maglione rosa
che la fa apparire davvero ridicola. Serve entrambi i suoi cavalieri,
versando loro la minestra dalla zuppiera, operazione che non le
riesce particolarmente facile. Forse le sue mani sono più avvezze
all’uso delle bacchette per mangiare il riso. I russi, in
maggioranza impiegati presso consolati e ambasciate sovietiche, hanno
i modi tipici dei diplomatici: eleganti, calmi, un po’ arroganti, a
tratti sarcastici. Le loro figlie sono creature assai delicate, ben
vestite e attraenti, fumano sigarette sottili e leggono giornali di
grande formato in varie lingue, anche se sembrano un po’
impacciate. Nel mio scompartimento c’è un giovane russo, un
ingegnere che i sovietici hanno mandato all’estero perché
familiarizzasse con le tecnologie moderne. È un tipo schietto come
quasi tutti i russi e via via che ci avviciniamo al suo paese si
esprime senza peli sulla lingua e compiacendosene. «È stato ovunque
molto interessante,» dice «però non vedo l’ora di tornare a
casa. Qui piove ancora, ma da noi a Mosca il suolo è già coperto
dalla neve fresca. Oh, tornare a Mosca!» conclude. Accanto a lui
siede un diplomatico polacco, diretto a Mosca per trattare un accordo
ferroviario. Il solo pensiero che presto avrà la possibilità di
mangiare il caviale russo è sufficiente a riempirlo di gioia. «Sono
un grande amante del vostro caviale» dice in russo all’ingegnere.
«Ho vissuto in Russia per venticinque anni». Di fianco a me c’è
una coppia, una donna giovane e simpatica, attrice del teatro russo,
che si chiama Zerkalova, con il marito, anche lui un attore, un
marcantonio di nome Korenev. Sono di ritorno da un viaggio attraverso
l’Europa, desideravano conoscere il teatro estero. L’Europa li ha
delusi.
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