Juan José Saer
IL FIUME SENZA SPONDE
Trattato immaginario
(El río sin orillas: tratado imaginario, 1991)
Traduzione di Gina Maneri
La Nuova Frontiera, collana Il Basilisco
pp. 256, ottobre 2019, Euro 18
ISBN 9788883733673
Juan José Saer
IL FIUME SENZA SPONDE
Trattato immaginario
(El río sin orillas: tratado imaginario, 1991)
Traduzione di Gina Maneri
La Nuova Frontiera, collana Il Basilisco
pp. 256, ottobre 2019, Euro 18
ISBN 9788883733673
Il libro
È
il Río de la Plata il protagonista di questo “Trattato
immaginario”, un gigantesco corso d’acqua formato dalla
confluenza dei fiumi Uruguay e Paraná, la cui superficie è pari a
quella dell’Olanda e sulle cui sponde oggi si affacciano due
metropoli, Buenos Aires e Montevideo.
Eppure, nel 1516, il Río de
la Plata e le terre che lo circondavano erano desolate. Il suo
scopritore, Juan Díaz de Solís, colpito dalla vastità e dalla
dolcezza delle sue acque lo battezzò “Mar Dulce”. Alle sue
spalle si apriva una sterminata pianura che gli indigeni chiamavano
pampa, ma che tutti gli altri designarono con una parola molto meno
prestigiosa: il deserto.
Juan José Saer dedica al fiume più
importante della sua Argentina il racconto – che ricorda Il
Mediterraneo di Braudel e Danubio di Magris – della ricerca quasi
impossibile dell’identità di quelle terre e delle persone che le
abitano.
Ripercorrendo la storia di un fiume, Saer ci narra la
storia di una nazione, dalla fondazione di Buenos Aires alla
dittatura, attraverso quattro capitoli che seguono il succedersi
delle stagioni australi, celebrando così due figure: il Río de la
Plata e la letteratura.
L'incipit
Orrore e volgarità sono il patrimonio principale degli aeroplani. Non contenti di portarci a tutta velocità dalla terraferma su cui ce ne stavamo a diecimila metri d’altezza, mettendo alla prova la pazienza dei motori, i professionisti dell’aria peggiorano la situazione credendosi in obbligo di fornirci un ambiente gradevole, incarnato secondo loro da tutti i luoghi comuni concepiti dalla cultura dello svago: sorriso stereotipato delle hostess, voce melliflua in due o tre lingue dello steward, duty-free in cui si vende il superfluo a un prezzo vantaggioso, visione obbligatoria del film che abbiamo evitato con cura negli ultimi mesi, bombardamento, per fortuna quasi inudibile, nelle cuffiette di plastica con le “mercanzie musicali” i cui meccanismi falsamente artistici aveva già smontato Adorno diversi decenni fa in Quasi una fantasia. In men che non si dica i quattrocento passeggeri, ammassati nella cabina arredata secondo le regole più piccolo-borghesi del gusto moderno e orgogliosi di far parte di un sistema che salvaguarda la libera iniziativa, diventano la materia prima con cui il regno della quantità impasta i suoi eventi insensati. Nei lunghi voli intercontinentali, a queste calamità bisogna aggiungere la differenza di fuso, il cambiamento di clima, lo stress e la noia. Dal 1982, ovvero da dopo la Guerra delle Malvine e il declino del potere militare in Argentina, mi sottopongo una o due volte l’anno a questa ginnastica. È risaputo che il mito genera la ripetizione e la ripetizione l’abitudine, e che l’abitudine genera il rito e il rito il dogma; e il dogma, infine, l’eresia. Il mito di ritrovare gli affetti e i luoghi della mia infanzia e della mia giovinezza mi ha spinto a intraprendere quei viaggi ripetuti, che dopo quasi dieci anni sono diventati un’abitudine, sufficientemente monotona da generare, dal punto di vista del piacere, una chiara ambivalenza. Proprio come le sacerdotesse di Delfi, devo ricorrere a mezzi artificiali, prima della partenza, per incentivare l’entusiasmo. Le consuete azioni, con la loro invariabilità, si sono fatte ogni volta più inesorabili e tipiche, fino ad acquisire la rigidità ossessiva di un rituale, alla cui meticolosa osservanza le compagnie commerciali del trasporto aereo e io collaboriamo in egual misura. Tra il pranzo d’addio a Parigi che si protrae fino a metà pomeriggio e l’asado di benvenuto a Buenos Aires il giorno seguente, dunque, decolli, atterraggi e scali, sempre gli stessi, producono in me le medesime sensazioni, i medesimi stati d’animo, le medesime associazioni e persino i medesimi pensieri, che più di una volta mi sono parsi originali finché non ho constatato che li avevo già appuntati sul mio taccuino in qualche viaggio precedente. All’eccitazione della partenza seguono, con il passar delle ore, l’irritazione dovuta alla clausura e alla proliferazione di banalità, il semplice sonno a cui ci strappa qualche turbolenza, nel nero minaccioso della notte e dell’oceano, finché spunta l’alba a Rio de Janeiro, con l’ultimo decollo, e prima dell’impazienza finale una specie di sonnolenza nervosa, un marasma vagamente formicolante, si impossessa di me.
L'autore
Juan José Saer (1937 – 2005) è stato uno dei grandi scrittori argentini della seconda metà del Novecento. Trasferitosi a Parigi nel 1968, ha lavorato come professore di letteratura all’Università di Rennes. La Nuova Frontiera ha già pubblicato: Cicatrici, L’indagine, L’arcano, Le nuvole e Glossa.
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