valutazione: 1/5
Agiatezza, benessere, financo ricchezza a Villa del Grifo, dei conti Brunori Princi. Lei, la contessa Clotilde, figura eccentrica di ottantaduenne, sparisce con la sua Alfa Aurelia bianca. C'è un segreto, dietro questa fuga, che risale all'infanzia. Poi c'è l'amica del cuore, Virginia, che ogni anno, da tanti anni, le regala per il compleanno una boccettia di Chanel r.5 “Virginia dalle unghie sempre laccate di rosso e i capelli candidi da quando aveva trent’anni. “È così chic non tingersi. Non tutti possono permetterselo. È l’Harry’s Bar invece di McDonald’s. Non è vero, cara?” ). Poi c'è il marito di Clotilde, Giannotto, che fa una vacanza con la figlia a Cap d'Antibes (“Scesero in uno splendido albergo con vetrate sul mare, soffitti altissimi, stucchi dorati, lampadari a gocce di cristallo e camerieri in livrea.”) Poi c'è Olivia, la figlia. La sensazione di non essere mai stata amata dalla madre (è stata cresciuta dalle domestiche), madre che Scesero in uno splendido albergo con vetrate sul mare, soffitti altissimi, stucchi dorati, lampadari a gocce di cristallo e camerieri in livrea. pure ha sempre venerata. Poi c'è Giacomo Lorusso, meridionale, marito di Olivia, l'uomo dell'assenza e dell'indifferenza (e di qualche strabica deviazione). Olivia, madre di due figli (Giada vive a Londra, Lupo a Milano), un matrimonio oramai finito, dopo una sensazione di libertà da adolescente (era stata mandata a studiare a 16 anni in Gran Bretagna), sente adesso solo l'oppressione che la soffoca. In fondo, è il crollo delle certezze, è la (solita) presenza di demoni, di dolori taciuti, di verità non dette (chi sarà quell'uomo sulla sedia a rotelle cui Clotilde tagliò una ciocca di capelli ?). Un eccesso di snobismo che personalmente rende poco empatici i personaggi (“Lei, la perfettissima contessa, aveva fatto del benessere il suo scudo. La villa era stata la sua fortezza e la sua gabbia.”). La narrazione procede con flashback che, come in un puzzle, pian piano disvelano l'antefatto (“Più si sentiva marcia dentro, più si rendeva impeccabile fuori. Più era ferita, più si mostrava impassibile. Impeccabile e impassibile. Si era creata quell’immagine e stava attenta a non scoprirsi. La copertura non può avere crepe, pensava. Basta uno spiraglio, perché il castello crolli. Sotto le sete, gli chiffon e i veli c’era un’armatura che nessuno poteva scalfire.”). Di ferite nascoste è piena la narrativa, ed anche la vita. La Soffici prova a narrarne, l'intrigo potrà piacere (forse soprattutto a lettrici donne). Trovo tuttavia la scrittura secca, algida, dal respiro corto, a volte affannato, con figure per certi versi stereotipate. Come il finale (“Olivia gira la chiave d’accensione e l’Aurelia parte al primo colpo. Ingrana la marcia ed esce piano, imbocca il viale e nello specchietto vede la torre del Grifo. Lì è iniziato tutto. Sua madre è stata prigioniera della villa, della sua troppa bellezza e di tutti quegli antenati, delle sue paure. A Olivia non importa più. Lei, la piccola e insignificante Olivia, la bambina che si nascondeva nei cavi degli alberi, guida e pensa. Sai che c’è? Io faccio quello che voglio. Mollo tutto. Giacomo, Villa del Grifo. Firenze. Guida tutto il giorno e quando il sole si abbassa all’orizzonte e il cielo vira al rosa e all’arancio, Civitavecchia è già alle sue spalle.”)
Sergio Albertini
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