con tre inediti e un'intervista
a cura di Andrea Cavalletti
Nottetempo
collana Figure
aprile 20255
pp. 300, euro
ISBN 9788874524280
“Che cosa vuol dire cultura di destra?”, chiede un intervistatore a Furio Jesi nel 1979. È “la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”.
Originale mitologo della
modernità, Jesi dedica gli studi qui raccolti a individuare le
matrici sotterranee, il linguaggio e le manifestazioni delle “idee
senza parole” della cultura di destra otto-novecentesca; e lo fa
smascherandone i luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che
alludono a un nucleo mitico profondo e inconoscibile, ma fondante e
modellante, cui fanno riferimento i principi ricorrenti di
Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro.
Un “vuoto” da
riempire di materiali mitologici, manipolati dalla propaganda
politica di destra per legittimare il suo potere e gli ordinamenti
sociali dominanti. Da questa prospettiva, Jesi indaga gli apparati
linguistici e iconici sottesi al fascismo e al neofascismo, al
nazismo e al razzismo, penetra nelle pieghe dell’esoterismo di
Julius Evola e del lusso retorico dannunziano, attraversa le pagine
di Liala e Pirandello.
Introduzione
Non si può dedicare un certo numero di anni allo studio dei miti o dei materiali mitologici senza imbattersi piú volte nella cultura di destra e provare la necessità di fare i conti con essa. Qui tuttavia non ci proponiamo l’impresa di amplissime dimensioni in cui dovrebbe consistere un incontro globale e approfondito con tutta la cultura di destra. Questo studio deve semplicemente chiarire alcuni aspetti di quella cultura e integrare quanto già abbiamo scritto altrove1 intorno al concetto di mito e alle manipolazioni sia di tale concetto sia dei materiali mitologici nell’ambito della cosiddetta destra tradizionale. Qui non avremo spesso occasione di usare la parola mito, sebbene anche questo nostro discorso tratti sostanzialmente di manipolazioni di materiali mitologici. Quanto ci interessa è ora soprattutto la qualità ideologica di queste manipolazioni, e del carattere tradizionale e in genere del rapporto con il passato che dominano nella cultura in cui esse si compiono. Evidentemente, poiché si tratta di manipolazioni e tecnicizzazioni, dunque di operazioni con precisi fini (e con fini politici, nonostante tutte le dichiarazioni di apolitía di alcuni dei loro esecutori), questo rapporto con il passato non solo è ben fondato nel presente – come ogni rapporto con il passato che non si voglia configurare in termini visionari o metafisici o in particolare religiosi –, ma prevede un preciso assetto del presente e del futuro. Uno dei primi spunti delle considerazioni raccolte in questo libro è stata una contraddizione che abbiamo notato sia nel comportamento dei sedicenti maestri della Tradizione (con la maiuscola: cioè del presunto retaggio di verità esoteriche), sia in quello di alcuni teo rici meno esoterici della filosofia della storia e dell’antropologia che fiancheggiano i regimi di estrema destra. La maggior parte dei saggi dell’esoterismo moderno (escludendo evidentemente gli eventuali Superiori sconosciuti di cui non vediamo né potremmo vedere le tracce!) hanno passato la vita a dichiarare che il loro sapere era inaccessibile e incomunicabile a parole, e nello stesso tempo sono stati fecondissimi poligrafi. A che scopo? E se leggiamo il non esoterico (almeno in senso stretto) Oswald Spengler impariamo che “la grande missione dello studioso di storia è quella di comprendere i fatti del suo tempo e da essi presentire, additare, designare i futuri eventi che, vogliamo o no, stanno per giungere”2. Ma anche che “l’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole”3. Anche qui c’è da chiedersi a che scopo lo studioso di storia ritenga necessario, per adempiere la sua “grande missione”, scrivere opere di migliaia di pagine, quando è convinto che l’essenziale siano “idee senza parole”. A questo punto, una volta “presentiti” i “futuri eventi”, sembra che gli converrebbe “additarli” e “designarli” non con una pagina scritta, ma con un gesto, e possibilmente con un gesto rituale. Di fatto gesti del genere sono anche stati compiuti, e non si può escludere che un certo ritualismo di gesti miranti ad “additare”, “designare” il futuro (adeguarsi ai “futuri eventi che, vogliamo o no, stanno per giungere”) si ritrovi sia nel comportamento dei gruppi di sterminio nazisti, sia in quello non di soldati ma di professionisti della cultura: i roghi di uomini, ma anche quelli di libri che lodava Alfred Baeumler4, l’iscrizione di Pirandello al Partito Fascista all’indomani dell’uccisione di Matteotti, le ultime scelte (del resto già precedute da altre meno drammatiche) di Giovanni Gentile, e cose del genere. Ciò nonostante non si può negare che, se magari gli ufficiali delle SS ricorrevano poco alle parole, gli uomini di cultura parlarono, eccome, oltre che compiere gesti. Essi disponevano di un vero e proprio linguaggio letterario adatto a “idee senza parole”, cioè fatto di parole tanto spiritualizzate, tanto lontane dal “materialismo”, la loro bestia nera, che evidentemente potevano fungere da veicolo appropriato per le “idee senza parole”. Questo linguaggio non l’avevano inventato loro. Era un linguaggio creatosi all’interno della cultura borghese, maturato durante la vicenda dei rapporti con il passato configurati da quella cultura, e pronto all’uso. Si aggiunga che, se fino adesso abbiamo adoperato i verbi al passato, questo non significa affatto che tutto il fenomeno di cui parliamo sia storia passata. In questo libro ci preoccuperemo anzi in modo particolare delle sue fasi di oggi e delle radici di esse nelle fasi di ieri. Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole, si ritrovano anche nella cultura di chi non vuol essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole cosí “materiali” da poter essere veicolo di idee che esigono parole. Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era piú potente e piú ricco, o piú esattamente non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era piú debole e piú povero. È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano. Una cultura non consiste certamente solo delle incrostazioni del linguaggio che in essa ricorre; ma la sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni è per lo meno sospetta, dal momento che una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali. Per cui vi sono buone ragioni di allarmarsi – ed è perfino ovvio dirlo – quando in numerosi discorsi celebrativi proprio della Resistenza ricompare il linguaggio delle idee senza parole. Delle “idee senza parole” è spesso anche il sinistrese, compreso quello piú dinamitardo – affine in ciò al parlare dei suoi avversari istituzionali. Qualcuno potrebbe avere l’impressione che, per esempio, il linguaggio della Benemerita sia, in opposizione simmetrica, il linguaggio delle parole senza idee: “In ottemperanza alla consegna ricevuta…” Errore: di là da queste parvenze morfologiche e sintattiche, non vi sono parole, ma idee. Si tratta di uno scheletro morfologico e sintattico di idee, che con le parole hanno relazioni precarie, temporanee e approssimative. Un linguaggio delle idee è innanzitutto un linguaggio esoterico, ed esoterismo non significa solo misteri eleusini o – all’opposto – riunioni della Società Teosofica: “Ognuno ha i propri misteri: i propri pensieri segreti – diceva Hölderlin. I misteri del singolo individuo sono miti e riti esattamente come erano quelli dei popoli”5. Non solo “del singolo individuo”: anche del singolo gruppo. Musei d’Arma e Musei del Risorgimento abbondano di bandiere, stendardi, drappelle, possibilmente laceri e forati dalle palle nemiche; gagliardetti d’ogni specie furono raccolti nella Mostra della Rivoluzione fascista; nel “covo” milanese delle Brigate Rosse i carabinieri hanno ritrovato, nell’ottobre 1978, una bandiera di seta rossa che porta impresse in giallo la stella a cinque punte e le iniziali BR. Questa continuità non è di parole, ma di scelta di un linguaggio delle idee senza parole, che presume di poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d’ordine. Di qui la disinvoltura nell’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti; non si tratta soltanto di povertà culturale, di vocabolario oggettivamente limitato per ragioni di ignoranza: il linguaggio usato è, innanzitutto, di idee senza parole e può accontentarsi di pochi vocaboli o sintagmi: ciò che conta è la circolazione chiusa del “segreto” – miti e riti – che il parlante ha in comune con gli ascoltatori, che tutti i partecipanti all’assemblea o al collettivo hanno in comune: L’Italia è il nostro paese, tu lo sai. Un grande paese abitato da gente come noi, semplice, sobria, laboriosa. Sono milioni e milioni di persone che si capiscono fra loro, perché parlano la stessa lingua, e dai tempi antichissimi ad oggi hanno avuto tutto in comune, specialmente le sventure6. Ci proponiamo qui di studiare fino a qual punto, nelle trasformazioni della società e della cultura, la parola “ideologia” coincida con il meccanismo linguistico delle idee senza parole, dunque si riferisca a meccanismi enigmatici ed elusivi come quelli della “macchina mitologica”7. Lo faremo però in modo molto frammentario, eclettico ed empirico. Non vogliamo essere panlinguisti o semiomani, e neppure adepti della dottrina di castità e profetismo, elaborata da Karl Kraus (o dal Kraus di Georg Trakl) intorno alla parola che “arde”, come il logos, e appicca fuoco al rogo delle parole rese impure per tecnicizzazione.(...)
Furio Jesi (1941-1980) è stato studioso di miti, storico delle religioni e critico letterario. Nelle sue ricerche eclettiche e originali ha elaborato modelli interpretativi innovativi sul mito e sulle sue manifestazioni moderne. Di Furio Jesi nottetempo ha pubblicato, sempre a cura di Andrea Cavalletti, anche Il tempo della festa (2013, 2023) e Germania segreta (2018).