lunedì 21 aprile 2025

Furio Jesi - CULTURA DI DESTRA - Nottetempo

 
Furio Jesi
CULTURA DI DESTRA
nuova edizione
con tre inediti e un'intervista
a cura di Andrea Cavalletti
Nottetempo
collana Figure
aprile 20255
pp. 300, euro
ISBN 9788874524280
 
“Che cosa vuol dire cultura di destra?”, chiede un intervistatore a Furio Jesi nel 1979. È “la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”.

Originale mitologo della modernità, Jesi dedica gli studi qui raccolti a individuare le matrici sotterranee, il linguaggio e le manifestazioni delle “idee senza parole” della cultura di destra otto-novecentesca; e lo fa smascherandone i luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che alludono a un nucleo mitico profondo e inconoscibile, ma fondante e modellante, cui fanno riferimento i principi ricorrenti di Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro.
Un “vuoto” da riempire di materiali mitologici, manipolati dalla propaganda politica di destra per legittimare il suo potere e gli ordinamenti sociali dominanti. Da questa prospettiva, Jesi indaga gli apparati linguistici e iconici sottesi al fascismo e al neofascismo, al nazismo e al razzismo, penetra nelle pieghe dell’esoterismo di Julius Evola e del lusso retorico dannunziano, attraversa le pagine di Liala e Pirandello.

Introduzione 

Non si può dedicare un certo numero di anni allo studio dei miti o dei materiali mitologici senza imbattersi piú volte nella cultura di destra e provare la necessità di fare i conti con essa. Qui tuttavia non ci proponiamo l’impresa di amplissime dimensioni in cui dovrebbe consistere un incontro globale e approfondito con tutta la cultura di destra. Questo studio deve semplicemente chiarire alcuni aspetti di quella cultura e integrare quanto già abbiamo scritto altrove1 intorno al concetto di mito e alle manipolazioni sia di tale concetto sia dei materiali mitologici nell’ambito della cosiddetta destra tradizionale. Qui non avremo spesso occasione di usare la parola mito, sebbene anche questo nostro discorso tratti sostanzialmente di manipolazioni di materiali mitologici. Quanto ci interessa è ora soprattutto la qualità ideologica di queste manipolazioni, e del carattere tradizionale e in genere del rapporto con il passato che dominano nella cultura in cui esse si compiono. Evidentemente, poiché si tratta di manipolazioni e tecnicizzazioni, dunque di operazioni con precisi fini (e con fini politici, nonostante tutte le dichiarazioni di apolitía di alcuni dei loro esecutori), questo rapporto con il passato non solo è ben fondato nel presente – come ogni rapporto con il passato che non si voglia configurare in termini visionari o metafisici o in particolare religiosi –, ma prevede un preciso assetto del presente e del futuro. Uno dei primi spunti delle considerazioni raccolte in questo libro è stata una contraddizione che abbiamo notato sia nel comportamento dei sedicenti maestri della Tradizione (con la maiuscola: cioè del presunto retaggio di verità esoteriche), sia in quello di alcuni teo rici meno esoterici della filosofia della storia e dell’antropologia che fiancheggiano i regimi di estrema destra. La maggior parte dei saggi dell’esoterismo moderno (escludendo evidentemente gli eventuali Superiori sconosciuti di cui non vediamo né potremmo vedere le tracce!) hanno passato la vita a dichiarare che il loro sapere era inaccessibile e incomunicabile a parole, e nello stesso tempo sono stati fecondissimi poligrafi. A che scopo? E se leggiamo il non esoterico (almeno in senso stretto) Oswald Spengler impariamo che “la grande missione dello studioso di storia è quella di comprendere i fatti del suo tempo e da essi presentire, additare, designare i futuri eventi che, vogliamo o no, stanno per giungere”2. Ma anche che “l’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole”3. Anche qui c’è da chiedersi a che scopo lo studioso di storia ritenga necessario, per adempiere la sua “grande missione”, scrivere opere di migliaia di pagine, quando è convinto che l’essenziale siano “idee senza parole”. A questo punto, una volta “presentiti” i “futuri eventi”, sembra che gli converrebbe “additarli” e “designarli” non con una pagina scritta, ma con un gesto, e possibilmente con un gesto rituale. Di fatto gesti del genere sono anche stati compiuti, e non si può escludere che un certo ritualismo di gesti miranti ad “additare”, “designare” il futuro (adeguarsi ai “futuri eventi che, vogliamo o no, stanno per giungere”) si ritrovi sia nel comportamento dei gruppi di sterminio nazisti, sia in quello non di soldati ma di professionisti della cultura: i roghi di uomini, ma anche quelli di libri che lodava Alfred Baeumler4, l’iscrizione di Pirandello al Partito Fascista all’indomani dell’uccisione di Matteotti, le ultime scelte (del resto già precedute da altre meno drammatiche) di Giovanni Gentile, e cose del genere. Ciò nonostante non si può negare che, se magari gli ufficiali delle SS ricorrevano poco alle parole, gli uomini di cultura parlarono, eccome, oltre che compiere gesti. Essi disponevano di un vero e proprio linguaggio letterario adatto a “idee senza parole”, cioè fatto di parole tanto spiritualizzate, tanto lontane dal “materialismo”, la loro bestia nera, che evidentemente potevano fungere da veicolo appropriato per le “idee senza parole”. Questo linguaggio non l’avevano inventato loro. Era un linguaggio creatosi all’interno della cultura borghese, maturato durante la vicenda dei rapporti con il passato configurati da quella cultura, e pronto all’uso. Si aggiunga che, se fino adesso abbiamo adoperato i verbi al passato, questo non significa affatto che tutto il fenomeno di cui parliamo sia storia passata. In questo libro ci preoccuperemo anzi in modo particolare delle sue fasi di oggi e delle radici di esse nelle fasi di ieri. Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole, si ritrovano anche nella cultura di chi non vuol essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole cosí “materiali” da poter essere veicolo di idee che esigono parole. Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era piú potente e piú ricco, o piú esattamente non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era piú debole e piú povero. È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano. Una cultura non consiste certamente solo delle incrostazioni del linguaggio che in essa ricorre; ma la sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni è per lo meno sospetta, dal momento che una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali. Per cui vi sono buone ragioni di allarmarsi – ed è perfino ovvio dirlo – quando in numerosi discorsi celebrativi proprio della Resistenza ricompare il linguaggio delle idee senza parole. Delle “idee senza parole” è spesso anche il sinistrese, compreso quello piú dinamitardo – affine in ciò al parlare dei suoi avversari istituzionali. Qualcuno potrebbe avere l’impressione che, per esempio, il linguaggio della Benemerita sia, in opposizione simmetrica, il linguaggio delle parole senza idee: “In ottemperanza alla consegna ricevuta…” Errore: di là da queste parvenze morfologiche e sintattiche, non vi sono parole, ma idee. Si tratta di uno scheletro morfologico e sintattico di idee, che con le parole hanno relazioni precarie, temporanee e approssimative. Un linguaggio delle idee è innanzitutto un linguaggio esoterico, ed esoterismo non significa solo misteri eleusini o – all’opposto – riunioni della Società Teosofica: “Ognuno ha i propri misteri: i propri pensieri segreti – diceva Hölderlin. I misteri del singolo individuo sono miti e riti esattamente come erano quelli dei popoli”5. Non solo “del singolo individuo”: anche del singolo gruppo. Musei d’Arma e Musei del Risorgimento abbondano di bandiere, stendardi, drappelle, possibilmente laceri e forati dalle palle nemiche; gagliardetti d’ogni specie furono raccolti nella Mostra della Rivoluzione fascista; nel “covo” milanese delle Brigate Rosse i carabinieri hanno ritrovato, nell’ottobre 1978, una bandiera di seta rossa che porta impresse in giallo la stella a cinque punte e le iniziali BR. Questa continuità non è di parole, ma di scelta di un linguaggio delle idee senza parole, che presume di poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d’ordine. Di qui la disinvoltura nell’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti; non si tratta soltanto di povertà culturale, di vocabolario oggettivamente limitato per ragioni di ignoranza: il linguaggio usato è, innanzitutto, di idee senza parole e può accontentarsi di pochi vocaboli o sintagmi: ciò che conta è la circolazione chiusa del “segreto” – miti e riti – che il parlante ha in comune con gli ascoltatori, che tutti i partecipanti all’assemblea o al collettivo hanno in comune: L’Italia è il nostro paese, tu lo sai. Un grande paese abitato da gente come noi, semplice, sobria, laboriosa. Sono milioni e milioni di persone che si capiscono fra loro, perché parlano la stessa lingua, e dai tempi antichissimi ad oggi hanno avuto tutto in comune, specialmente le sventure6. Ci proponiamo qui di studiare fino a qual punto, nelle trasformazioni della società e della cultura, la parola “ideologia” coincida con il meccanismo linguistico delle idee senza parole, dunque si riferisca a meccanismi enigmatici ed elusivi come quelli della “macchina mitologica”7. Lo faremo però in modo molto frammentario, eclettico ed empirico. Non vogliamo essere panlinguisti o semiomani, e neppure adepti della dottrina di castità e profetismo, elaborata da Karl Kraus (o dal Kraus di Georg Trakl) intorno alla parola che “arde”, come il logos, e appicca fuoco al rogo delle parole rese impure per tecnicizzazione.(...)

Furio Jesi (1941-1980) è stato studioso di miti, storico delle religioni e critico letterario. Nelle sue ricerche eclettiche e originali ha elaborato modelli interpretativi innovativi sul mito e sulle sue manifestazioni moderne. Di Furio Jesi nottetempo ha pubblicato, sempre a cura di Andrea Cavalletti, anche Il tempo della festa (2013, 2023) e Germania segreta (2018).

Thom van Dooren - IN VOLO - Nottetempo

 
Thom van Dooren
IN VOLO
Vita e morte sulla soglia dell’estinzione

(titolo originale Flight Ways: Life and Loss at the Edge of Extinction, Columbia University Press 2016)
traduzione di Lorenzo Vetta
Nottetempo
collana Terra
aprile 2025
pp. 264, euro 18,90
ISBN 97912548018642

 
In questo libro commovente e illuminato Thom van Dooren mette la filosofia ambientale in dialogo con le scienze naturali e l’antropologia per far emergere tutto il significato culturale ed etico delle estinzioni contemporanee. A differenza di altre riflessioni su questo tema, In volo racconta alcune “storie vive” di specie animali in pericolo nella loro complessità di forme e nessi: perché, nelle reti di relazioni condivise che si intrecciano sul pianeta, l’estinzione di una specie non è mai un fenomeno isolato, con conseguenze ristrette. Nell’attuale “sesta estinzione di massa”, di origine perlopiù antropogenica, i fili spezzati smagliano porzioni allargate di esistenza terrestre, compromettendo ecosistemi a catena. Ogni capitolo, illustrato da fotografie, si concentra su un gruppo di uccelli a rischio: gli albatros del Pacifico settentrionale, gli avvoltoi indiani, una colonia di pinguini in Australia, le gru del Nord America e i corvi hawaiani. Non più solo entità astratte dai nomi latini, queste specie in pericolo ci pongono interrogativi inaggirabili: sui filtri antropocentrici che ancora reggono la distinzione umano-animale, sulle responsabilità etiche verso le “traiettorie” e i “modi di vita” recisi, sugli approcci alla cura e alla conservazione. In un pianeta coabitato e coevoluto con gli altri viventi, riconoscere la dignità del lutto di e per queste esistenze senzienti è il primo passo per non rassegnarsi a un’era di perdite.

Introduzione.
Raccontare storie piene di vita sulla soglia dell’estinzione
Come potrebbe cominciare un libro sul rapporto tra uccelli ed estinzione se non con la tragica storia del dodo? Nella morte, questo uccello originario di una piccola isola situata nella parte occidentale dell’Oceano Indiano ha conosciuto una curiosa fama, diventando una sorta di testimonial dell’estinzione. Eppure, le idee sul dodo presenti nell’immaginario collettivo sono perlopiù frutto di speculazioni. Di fatto, sul suo conto diverse cose rimangono ancora poco chiare: che tipo di uccello fosse, come vivesse e quando scomparve. Sebbene esistano racconti, disegni e dipinti risalenti al xvii secolo, è difficile determinare quanto siano accurati e fondati su esperienze di prima mano. Come nel gioco del telefono senza fili, sembra che una buona parte di questi resoconti e di queste immagini si fondasse su altri resoconti e su altre immagini, con vari gradi di licenze poetiche (Hume 2006). Tuttavia, sappiamo che i dodo (Raphus cucullatus) erano grandi uccelli incapaci di volare che vivevano esclusivamente sull’isola di Mauritius. È probabile che mangiassero frutti caduti dagli alberi, oltre a semi, bulbi, crostacei e insetti. E di frutti dovevano essercene in abbondanza prima dell’arrivo degli esseri umani, quando non erano presenti altri mammiferi terrestri (Livezey 1993: 271). I dodo avevano quindi presumibilmente meno concorrenti per il cibo rispetto a quanto accadeva altrove ad altri uccelli, ma soprattutto non convivevano con nessun importante predatore – una situazione che non li preparò affatto alle conseguenze dovute alla comparsa dell’essere umano.
Non si sa quali furono i primi uomini a posare gli occhi sul dodo e sulla sua forma peculiare. Forse alcuni commercianti arabi che probabilmente scoprirono l’isola nel xiii secolo. O forse i navigatori portoghesi che cominciarono a visitarla qualche centinaio di anni dopo (dal 1507 in poi). Tuttavia, da quel che si sa, nessuno di loro si stabilì nell’isola di Mauritius e non esiste una prova documentale di un loro incontro con un dodo. I primi racconti affidabili sul dodo vennero scritti dagli olandesi dopo il loro arrivo in loco nel 1558 (Hume 2006: 67). Da lì in poi, per circa un secolo la Compagnia olandese delle Indie Orientali usò l’isola di Mauritius come “terreno da pastura e da allevamento di bestiame e come fonte di carne indigena selvaggia” (Quammen 1996: 265). Fu l’inizio della fine per il dodo. Che oltre a finire esso stesso sul menù – insieme a tartarughe e a svariati altri uccelli del posto – pagò a caro prezzo l’introduzione intenzionale o involontaria di numerosi mammiferi per mano degli olandesi. Parte del problema fu indubbiamente la vulnerabilità di questo uccello al cospetto di marinai e coloni affamati. Essendo incapace di volare, e non avendo alcuna esperienza di contatto con predatori, veniva catturato facilmente con le mani o preso a bastonate (ivi: 266-268). Anche se nel corso dei secoli si è spesso insinuato che la sua carne fosse sgradevole e quindi raramente consumata, oggi sembra che non fosse così. Il paleontologo ed esperto di dodo Julian Hume (2006: 80) ha fornito infatti molte testimonianze di prima mano sull’“apprezzamento” da parte degli olandesi per la carne di quest’uccello – in particolare per il petto e per lo stomaco – e sul fatto che ogni giorno ne venissero catturati e mangiati molti esemplari. Tuttavia, dopo l’arrivo dell’uomo, è probabile che a causargli i maggiori problemi fu la comparsa di altre specie animali. La prima delle quali, quantomeno da un punto di vista cronologico, fu verosimilmente quella del ratto comune (Rattus rattus). Sull’isola di Mauritius, così come in diversi altri posti dove attraccavano all’epoca le navi europee, i ratti si trasformarono in una forza devastatrice. Le uova di dodo e i pulcini, che fino ad allora non avevano avuto bisogno di particolari protezioni, rappresentavano una fonte facile di cibo. Poco tempo dopo, nei primi decenni del xvii secolo, ai ratti si aggiunsero altre specie – in particolare macachi granchivori, capre, bovini, maiali e cervi. Tutti questi animali recitarono un ruolo nel declino del dodo: come predatori, concorrenti per il cibo, o entrambe le cose (Hume 2006: 83). Non esistono testimonianze di visitatori che riferiscano di incontri con un dodo dopo gli anni ’80 del 1600, e tutto porta a credere che la specie alla fine del xvii secolo si fosse ormai estinta (Hume, Martill e Dewdney 2004). Dopo migliaia di anni passati a rimpinzarsi di frutti, improvvisamente il dodo fu costretto a convivere con la cultura europea e, altrettanto improvvisamente, sparì dal mondo. Sebbene non si tratti di certo della prima specie sulla cui scomparsa gli umani hanno recitato un ruolo centrale, il dodo occupa un posto peculiare e iconico in numerosi racconti contemporanei sull’estinzione. Questo uccello e questo processo biologico sono diventati stranamente sinonimi. Se provate a chiedere al primo passante che incontrate per strada che cosa sa del dodo, può essere che vi risponda che viveva sull’isola di Mauritius; e forse potrebbe persino aggiungere che era un uccello che non volava; di sicuro vi dirà che è estinto. (…)

Thom van Dooren è un antropologo e filosofo ambientale “sul campo” che si occupa di estinzione e conservazione delle specie animali. È professore di Environmental Humanities e vicedirettore del Sydney Environment Institute presso l’Università di Sydney. In volo (Flight Ways) è stato tradotto in diverse lingue ed è ormai considerato un classico.

Maggie Nelson - PATHEMATA - Nottetempo

 
Maggie Nelson
PATHEMATA
O, la storia della mia bocca
(titolo originale Pathemata, Or, The Story of My Mouth)
traduzione di Alessandra Castellazzi
Nottetempo
collana Narrativa
aprile 2025
pp. 96, euro 14
ISBN  9791254801840

 
Secondo pannello di un dittico avviato nel 2009 con Bluets (pubblicato in Italia da nottetempo nel 2023), Pathemata, O, la storia della mia bocca tocca con grazia le corde più intime dell’esperienza umana, fondendo insieme il “diario di una paziente” – ovvero il racconto di un decennio di dolore alla mascella – e l’esplorazione personale del punto di unione tra onirico e ordinario. Nelle parole di Maggie Nelson l’inconscio si insinua nella quotidianità e svela timori taciuti, ferite represse. Passando dalle proprie vicissitudini cliniche al territorio inesplorato della maternità, dagli inciampi di un rapporto amoroso agli squarci lasciati dal lutto, l’autrice si mette a nudo con una scrittura evocativa, musicale ed essenziale. Nelson ci fa sentire con forza inedita l’emozione più profonda e vera: tutti noi abitiamo un corpo capace di provare amore e dolore, patimenti e passioni, tutti noi siamo presi dallo sforzo costante di connetterci con gli altri.
 
Un estratto

Mi alzo per prima per stare da sola, ma anche perché la mandibola mi fa così male che non riesco a rimanere a letto. Al mattino è come se la mia bocca fosse sopravvissuta a una guerra – ha protestato, si è nascosta, ha sofferto. È fluttuata, i suoi minuscoli punti di contatto hanno sferrato attacchi e li hanno respinti, il dolore è saettato e poi si è addensato attorno all’articolazione. Anziché trovarsi l’un l’altro i miei denti incontrano la guancia, e la masticano, lasciando dietro di sé due catene montuose. Mi ficco il lenzuolo in bocca per avere la certezza che sono ancora qui, ancora radicata alla crosta. 

Quando h è a casa, cioè circa la metà del tempo in questo periodo, mi scuso per le macchie bianche sul bordo del piumone. Dice che non sono un problema, però lo rattristano.

Mentre entro in punta di piedi in cucina, “controllo il morso”, un gesto che mi hanno raccomandato di evitare ma che io faccio comunque, per assicurarmi che i miei denti superiori e inferiori siano ancora nella stessa bocca, cugini perduti della stessa stella. 

Ha accostato sul ciglio di una stradina di campagna per aiutare una tartaruga ad attraversare. Siamo su un pendio ad angolo cieco, perciò c’è il rischio concreto che entrambi finiscano travolti da una macchina in arrivo. È tenero e sollecito nei confronti della tartaruga, più tenero e sollecito di quanto non sia mai stato con me. Aspetto sul sedile del passeggero, guardando il calore levarsi dall’asfalto. Non mi importa se la tartaruga vive, ma fingo di sì. Sto cercando di farmi amare. 

C’è un intervallo di tempo, appena svegli, in cui si dice che la mente sia più fresca e incline alla creatività.
Un articolo di giornale lo definisce “fervore mattutino”. Per circa due anni lo stronco sul nascere leggendo le notizie su Twitter. Prima mi dispongo a scoprire le personalità e i cani e le abitudini di cucito di ex procuratori e procuratrici. Dimostrano una confidenza con il lessico della moralità che mi meraviglia – dopo anni passati a mettere al gabbio la gente. Poi passo del tempo in compagnia di vari epidemiologi, disponendomi a scoprire il loro senso dell’umorismo, le loro ossessioni (“Mi trattengo solo per Omicron!”), l’uso della punteggiatura, la “tolleranza del rischio”, le reazioni ferite all’aggressività altrui. Mi diverte in particolare l’ottimismo osteggiato di Monica Gandhi, i suoi “grazie” passivo-aggressivi, il suo apprezzamento quasi erotico per i vaccini. (...)

Maggie Nelson è una scrittrice e poetessa statunitense. Nata a San Francisco il 12 marzo 1973 dall'avvocato Bruce Arthur e dalla scrittrice Barbara Jo, nel 1994 ha conseguito un B.A. alla Wesleyan University e nel 2004 un dottorato di ricerca in letteratura inglese al Graduate Center dell'Università della Città di New York. Nel corso della sua carriera, ha pubblicato 4 raccolte di liriche e 6 opere di saggistica, spaziando tra diversi generi e affrontando svariati temi: femminismo, critica letteraria, estetica e violenza sessuale. Vincitrice delle borse di studio Guggenheim, NEA e MacArthur, nel 2015 è stata insignita del National Book Critics Circle Award nella categoria "Critica" grazie al saggio Gli Argonauti. Insegnante presso l'Istituto delle arti della California, vive con il marito, l'artista Harry Dodge, a Los Angeles.

Marta Federica Ottaviani - ISTANBUL - Paesi edizioni

 
Marta Federica Ottaviani
ISTANBUL
Cronache graffianti dalla città degli Imperatori

Paesi edizioni
collana Città Geopolitiche
aprile 2025
pp. 176, euro 16
ISBN 9791255411062

Dopo l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, principale avversario del presidente Erdogan, la città ponte tra Europa e Asia è più che mai sotto la lente degli osservatori internazionali. Questo libro di Marta Federica Ottaviani non potrebbe essere più attuale e utile per comprendere la realtà meno scontata della metropoli turca, di cui l’autrice coglie le inquietudini e la sua bellezza in costante metamorfosi.
Marta Ottaviani a Istanbul ha vissuto a lungo e qui ha incontrato l’amore della sua vita, un gattone autoctono d’inenarrabile magnificenza, subito ironicamente battezzato Erdogat. Ed è proprio Erdogat l’io narrante di questo saggio, che accompagna noi lettori per le strade della «sua» città. Non si potrebbe immaginare guida migliore: i gatti non si limitano a guardare, ma «vedono». Bisanzio, Costantinopoli, la Istanbul degli Ottomani, di Atatürk e adesso di Erdogan, «tremila anni di storia passano nelle iridi verdi di queste sfingi che osservano l’esistenza con il disincanto di chi è superiore alla vana agitazione degli umani e alle loro scomposte passioni».

Un estratto

Dovete sapere che sulla rete fissa la parte europea di Istanbul ha lo stesso prefisso di New York, 212. La parte asiatica, invece, ha 216. Una volta – non è passato tantissimo, ma sembrano comunque secoli fa – nella mia città anche solo il prefisso diceva molto di una persona e chi veniva dalla parte asiatica, nella migliore delle ipotesi, veniva guardato con sufficienza. È chiaro che, come in tutte le cose, c’erano delle eccezioni. Un paio di famiglie d’imprenditori fra le più note del Paese ha la sua proprietà in Asia. Ma, a parte ciò, diciamo che per lungo tempo questa è stata considerata in qualche modo come la parte meno chic di Istanbul, oltre che la meno bella anche per il minor numero di monumenti. Si tratta di un giudizio davvero ingeneroso, oggi in larga parte superato. La grande crescita economica che ha caratterizzato la Turchia soprattutto nei primi anni dopo che il mio quasi omonimo ha preso il potere, ha cambiato il volto di interi quartieri (posto che alcune zone erano già belle prima). La mia città sa essere molto generosa; quindi, se si vuole un po’ di bellezza al prezzo di una corsa su un mezzo pubblico, si può prendere il traghetto da Eminönü, Karaköy e Kabataş e raggiungere Kadiköy. In realtà, per attraversare il Mar di Marmara dal 2013 c’è anche il Marmaray, un collegamento ferroviario sotterraneo cui è stata poi affiancata anche una superstrada. Si tratta di un’opera davvero colossale, anche se prendere la metro e pensare che stai passando sotto il mare fa oggettivamente impressione. Va detto però che i turchi, da quando c’è il mio ex omonimo, sono abbastanza abituati a queste imprese. Se confrontate la mappa dei trasporti di vent’anni fa con quella di oggi, la differenza è impressionante. Fra metropolitane, metrotramvie, il terzo ponte sul Bosforo e tunnel sotterranei, la viabilità cittadina è decisamente cambiata. La qual cosa credo sia una delle migliori testimonianze della laboriosità dei turchi e di quanto abbiano sfruttato al massimo gli ultimi decenni per migliorarsi e competere con le altre città a livello globale. Per quanto il traffico locale sia notoriamente uno dei più congestionati al mondo, il sistema di trasporto pubblico è mediamente molto efficiente e dovrebbe essere preso come esempio anche dalle metropoli del nord Italia: più ricche, molto meno abitate, ma dove muoversi sta diventando sempre più difficile. Quello che in place to be come Milano è chiamato biglietto ricaricabile, a Istanbul c’è da oltre vent’anni. Prima si chiamava akbil: era una specie di chiavetta che si poteva ricaricare a piacere, il credito andava a scalare e così ognuno era sempre certo di possedere il titolo di viaggio che vale per tutto, dai traghetti alle funicolari, passando per autobus e metropolitane. Poi è arrivata la Istanbul Kart: supporto diverso, stesso concetto. Approdiamo quindi nella nostra Kadiköy. Anche noi gatti possiamo prendere il traghetto o la metropolitana. Io scelgo sempre il primo, anche se ho fretta. Non mi perderei lo spettacolo della traversata in superficie per nulla al mondo. Si tratta di una zona di Istanbul molto particolare e, a mio personale parere di felino locale, molto gradevole. È frenetica, caotica, ma molto più autentica di tante zone nella parte europea. Forse è perché ci sono molti meno turisti e perché manca quella componente massiccia di expat fatta da personale diplomatico, uomini d’affari, studenti e compagnia cantante. Nell’ampia zona pedonale vicina alla stazione dei traghetti è tutto un susseguirsi di taverne, alimentari, venditori ambulanti, negozi dove si vendono abiti e oggetti di seconda mano (ma anche terza, quarta).  

Marta Ottaviani è nata a Milano nel 1976. Laureata in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, si è specializzata all’Istituto per la Formazione al Giornalismo Carlo De Martino. Nel 2005 si è trasferita a Istanbul, dove ha iniziato a scrivere per le principali testate italiane. Il suo libro Il Reis, come Erdoğan ha cambiato la Turchia ha vinto il Premio Fiuggi Storia. Nel 2022 ha pubblicato La guerra occulta del Cremlino contro l’Occidente per Bompiani. È considerata tra i maggiori esperti italiani di Turchia.

a cura di Paolo Cornaglia e Marco Ferrari - CASTELLO DI AGLIE' (1624-1940) - Olschki

 
a cura di Paolo Cornaglia e Marco Ferrari
I giardini, il parco e la tenuta del
CASTELLO DI AGLIE' (1624-1940)
dall'impianto formale al disegno paesaggistico

Casa Editrice Olschki
collana Giardini e paesaggio, 59
marzo 2025
pp. xx-300 con 131 figg. n.t. e 48 tavv. f.t. a colori
€ 39,00
ISBN: 9788822269706


Il complesso di Agliè costituisce forse il tassello più prezioso delle Residenze Reali Sabaude. Il giardino vede, nei secoli, il passaggio dall’impianto formale seicentesco alla trasformazione settecentesca su modelli francesi, fino alle modifiche paesaggistiche ottocentesche. Ogni intervento si lega ai precedenti, lasciandoci in eredità relazioni raffinate tra palazzo, terrazze, giardini, parco e tenuta, gestite da scaloni, scalinate, rampe, fontane, punti di vista e prospettive. Un patrimonio ricco e perfettamente conservato, illuminato dal fascino intatto delle epoche che ha attraversato.

Ci sono luoghi che sembrano contenere in sé il respiro del tempo. Il Castello di Agliè è uno di questi: non solo per la sua eleganza architettonica, ma per la stratificazione di pensieri, desideri e gesti che si sono depositati tra le sue stanze, i suoi viali alberati, le sue pertinenze silenziose.
Il volume nasce da un lungo lavoro di studio e ascolto. Non si limita a raccontare la trasformazione degli spazi — i giardini, le architetture, le funzioni pratiche e simboliche che il Castello ha assunto nei secoli — ma cerca di restituire la complessità di una visione in continua evoluzione, dove ogni intervento architettonico, ogni scelta paesaggistica, porta con sé un'intenzione, una poetica, un modo di immaginare il mondo. Corredato da un importante apparato fotografico, questo libro non è solo un'opera di ricerca. È una mappa sensibile, uno strumento vivo. Per chi ama la storia dei luoghi e del paesaggio, sarà una lettura che lascia traccia.

«Tra le Residenze Sabaude, il Castello di Agliè con i giardini e il parco costituisce sicuramente una delle più preziose eredità». Direttore delle Residenze Reali Sabaude e dei Musei Nazionali del Piemonte


a cura di Chen Qiufan - IL TAO DELLE MACCHINE - Luiss


a cura di Chen Qiufan
IL TAO DELLE MACCHINE
Dieci racconti cinesi
di androidi, IA e altri futuri possibili

Con racconti di Han Song, Gu Shi e Mu Ming
traduzione e adattamento di Désirée Marianini e Patrizia Liberati
Luiss University Press
febbraio 2025
pp. 184. euro 18
ISBN 979-1255961581


Una raccolta di racconti di fantascienza che arriva direttamente dalla Cina e che esplora le implicazioni etiche e sociali delle nuove tecnologie: cosa accade quando la mente non riesce più a discernere tra un volto umano e uno creato artificialmente? E quale destino ci attende in un’epoca in cui la tecnologia replica pensieri, ricordi e sensazioni? Quali sono le conseguenze di un mondo ipersorvegliato e algoritmicamente organizzato? In questo volume, curato da uno dei maggiori autori di fantascienza contemporanea e scritto dai migliori scrittori emergenti della scena fantascientifica cinese, si nasconde una profonda riflessione filosofica che ci invita a considerare sia i pericoli sia le opportunità del progresso, in un mondo sempre più plasmato da intelligenza artificiale e robotica. Dai robot-idol venerati da fan solitari alle silenziose ribellioni contro superintelligenze elettroniche, ogni storia diventa un’occasione per esaminare ipotesi e possibilità che non sono più solo il frutto della fantasia, ma scenari altamente plausibili. 

Chen Qiufan, noto anche con lo pseudonimo di Stanley Chan, è uno scrittore di fantascienza cinese, vincitore di diversi premi del settore. Nato a Shantou, nella regione del Guangdong, il 30 novembre 1981, si è laureato in arte e in letteratura all'Università di Pechino. Ha studiato successivamente ha marketing anche alla Hong Kong University and Tsinghua University iniziando a lavorare per Baidu e la succursale cinese di Google. Debutta come scrittore nei primi anni 2000 pubblicando racconti di fantascienza sulle principali riviste cinesi del settore tra cui Kehuan shijie, i suoi lavori hanno vinto diversi premi, tra cui il Galaxy Award cinese e il Nebula cinese permettendogli di essere pubblicato anche sulle principali riviste in lingua inglese, tra cui The Magazine of Fantasy and Science Fiction, MIT Technology Review, Clarkesworld, Year's Best SF, Interzone.

Julia Deck - PROPRIETA' PRIVATA - Prehistorica

 
Julia Deck
PROPRIETA' PRIVATA
(titolo originale Propriété privée, Paris, Les Éditions de minuit, 2019)
traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala
Prehistorica Editore
collana Ombre lunghe
pp. 200, euro 17
ISBN  9788831234382

 
Eva è un’urbanista parigina che lavora attorno alla “nozione di spazio incerto” che coltiva sul balcone del suo appartamento. Col marito Charles, professore universitario afflitto da depressione e che vive rinchiuso sedato nella sua camera, decide di lasciare Parigi per rendere casa in un ecoquartiere di periferia. 
“Era tempo di comprare. La nostra scelta cadde su un piccolo comune in pieno slancio, sicuri di fare un buon investimento. Già svariati mesi prima di traslocare avevamo preso le misure dei mobili. Non vedevamo l’ora di vivere finalmente a casa nostra. E forse avremmo potuto realizzare quel sogno se, una settimana dopo esserci insediati, i Lecoq non si fossero trasferiti dall’altra parte del muro.” 
Annabelle, del resto, è la vicina indesiderabile, quella che non conosce pudore, che prende in prestito lo zerbino, che ascolta e spia, e che provoca un po’ tutti, soprattutto gli uomini. Con questa presenza invadente, unitamente a quella del gatto rosso dei Lecoq – che entra nella casa degli altri quando vuole – la vita che si preannunciava idilliaca diventa un vero incubo. Tanto che Charles Caradec, marito di Eva, la narratrice di questo romanzo crudele, non regge. Quando progetta di uccidere Pel di carota, la sua vita e quella di tutta la comunità degenera. 
Al di là del cinismo che attraversa queste pagine, del sorriso che suscita, si prova una sorta di terrore davanti a questo quadro iperrealista della nostra epoca. La penna appuntita di Julia Deck non fa sconti.

L'incipit
Uccidere il gatto sarebbe stato un errore, in generale e in particolare. L’ho pensato quando mi hai spiegato cosa intendevi farne del cadavere. Era aprile, ci eravamo trasferiti già da sei mesi. Le case appena costruite risplendevano sotto il sole umido di rugiada, i pannelli solari scintillavano sui tetti e il prato cresceva f itto ai due lati della nostra strada chiusa. Stavo travasando le calendule sotto la finestra della cucina e tu mi avevi accompagnato fuori. Le foglie svolazzavano tra le mie dita inguantate e tra le foglie i boccioli, gonfissimi, pronti a schiudersi sotto la pressione dei fiori. Avevi studiato nei minimi dettagli il piano per ammazzare pel di carota. Mentre appoggiato alla porta d’ingresso me lo illustravi, ho continuato a scavare nella terra senza rispondere. Molto probabilmente eri spinto dall’ira e le tue parole erano destinate a restare senza conseguenze, proprio come quando ti arrabbi per come è cotta la carne o per il calcare che si forma lungo i bordi della doccia. Ho schiacciato ben bene la terra e sistemato le radici in fondo al buco. Mi sono detta che la tua non era altro che una provocazione. Che se avessi avuto la minima intenzione di mettere in atto quel piano, avresti insistito per rientrare in casa, al riparo da orecchie indiscrete. Sapevi benissimo che lì non era possibile tenere nascosto niente. Proprio così, erano parole senza fondamento dette solo per insinuare il dubbio, per fare colpo. Ma poi, quando siamo andati a letto, ho ripensato alla tua idea di uccidere il gatto. Mi sono chiesta se sarei stata capace di tirare fuori la macchina dal garage dell’Intermarché, di guidare fino alla zona artigianale per andare a comprare degli antiparassitari. Di parcheggiare nel seminterrato di Leroy-Merlin sapendo di avere in mente un delitto, anzi no, peggio, un assassinio. Di prendere le scale mobili per salire al primo piano e chiedere astutamente consiglio al commesso per trovare il prodotto più adatto allo scopo, come se si trattasse di scegliere un paio di calzini al Monoprix. Mi sono chiesta in che momento il potenziale omicida diventa a tutti gli effetti un assassino e se avrei mai avuto il coraggio di varcare quel confine. La cosa più semplice sarebbe stata lasciare che ci andassi tu. Che prendessi la macchina e te la sbrogliassi da solo con quello stupido piano di uccidere il gatto. Ma erano anni che non guidavi. Non avresti certamente ripreso per l’occasione. Al buio mi sono vista versare il veleno e mescolarlo alle polpette di manzo. Posare la ciotola davanti al cancello del giardino. Aspettare l’arrivo di pel di carota. Ho sentito il contatto dei suoi peli con la mia pelle nuda, mentre immaginavo l’istante in cui, dopo aver lasciato che finisse di mangiare, l’avrei preso in braccio. Mi sono vista scendere in cantina per farlo agonizzare lì senza che desse nell’occhio e poi disporre del cadavere come avevi pianificato. Perché non si trattava semplicemente di uccidere il gatto. Ma di decretare il nostro trionfo, il nostro accesso alla proprietà privata.

Julia Deck (nella foto di Héléne Bamberger), voce elegante e contemporanea nel panorama francese, nasce a Parigi nel 1974 da padre francese, artista plastico, e madre britannica, traduttrice. Julia Deck ha studiato Lettere alla Sorbona, e la sua tesi verteva su La Principessa di Cléves. Lavora per un anno nell’editoria a New York. Dopo essere stata responsabile della comunicazione in diversi gruppi editoriali, nel 2005 si dedica completamente alla scrittura. 
In Francia è pubblicata dalle leggendarie edizioni di Minuit e da Le Seuil; in Italia il suo primo romanzo Elisabeth de Fauville è stato pubblicato nel 2014 da Adelphi, che lo ripubblica nel 2024 in edizione tascabile.  Vincitrice a novembre 2024 del prestigioso Prix Médicis. Questo è il suo secondo romanzo, dopo Sigma (2023), pubblicato da Prehistorica Editore. 



domenica 20 aprile 2025

Antonio Pavone - ADESSO - NeP edizioni

 
Antonio Pavone
ADESSO
con le fotografie di Fabio Colangiuli
NeP edizioni
aprile 2025
pp. 90, euro 16
ISBN 9788855004046


Come precisa lo stesso autore, si tratta di componimenti che raccontano di anime, luoghi ed esperienze. Di istanti che viviamo ogni giorno, in chi incontriamo e in chi siamo. Di bivi che si traducono in scelte e ogni scelta porta a un’esperienza, giusta o sbagliata che sia.
Lo spazio bianco della pagina diviene il mezzo per viaggiare attraverso le parole, liberare le idee e lasciare la mente leggera. Uno spazio che si riempie di colori, dove spiccano il blu del cielo e del mare o la luce ora del sole, ora della luna.
I frammenti poetici che si traducono in immagini, rese ancora più potenti dai suggestivi attimi rubati e immortalati dal fotografo Fabio Colangiuli che, con straordinaria capacità espressiva, guidano il lettore tra le parole.
Le poesie non hanno titolo perché sarà il lettore a collocarle in uno spazio, in una strada tra i suoi pensieri. Le foto si prenderanno a loro volta cura dei suoi ricordi e dei suoi sogni.
“Adesso” è molto più di una semplice raccolta poetica, è un viaggio che sin dai primi versi trasmette un senso di pace, dove la semplicità si accosta alla purezza di un sentimento incontaminato che si dissemina in attimi di vita. Perché bisogna avere il coraggio di lanciarsi nella semplicità delle cose, per non perdere l’attimo e riuscire ad entrare nell’Adesso.
L’autore fa percepire la sua anima e le sue fonti di ispirazione, donando allo stesso tempo al lettore, attraverso un cambiamento di prospettiva, la possibilità di affacciarsi con occhi nuovi alla vita.

Introduzione, di Giuseppe Tagarelli
Se ti affacci, vedi il fondale. E non fa paura, ti sorprende. Il coraggio di affacciarsi con occhi nuovi è solamente proprio, se si sceglie di farlo. E farlo “adesso”. Planare sulle cose con leggerezza non è cosa da tutti, soprattutto se si deve sfiorare una superficie instabile come quella del mare o affrontare i pensieri del cielo. Ed è proprio questa una delle sensazioni che ti lascia questa lettura, un cambiamento di prospettiva, dove l’emozione provata non ti porta giù nel flusso incontrollato di mille pensieri ma ti porta in su a prendere una boccata d’aria e a dire “è bello scegliere di essere così”, perché quando si sceglie, il pensiero diventa uno. In questa raccolta di poesie di Antonio Pavone troverete in voi stessi i colori per poter dipingere una tela bianca. Colore che si sente forte in questo “viaggio” (così come il poeta stesso vi augura in principio), che racchiude tutti i colori, dove spiccano il blu del cielo e del mare, e la luce ora del sole, ora della luna. Bianco come lo spazio lasciato all’inizio e alla fine di ogni poesia, da riempire con una scelta. Bianco come la verginità della purezza del sentimento incontaminato che si dissemina in attimi che, instancabili, con “la semplicità di essere/ e vivere/ la prossima emozione” formano la vita. Antonio, invitando l’avventore-lettore a fare una scelta, quasi lo obbliga a fermarsi, a perdere treni, a restare un po’ di più per provare per davvero quello che gli sta succedendo: la vita è un insieme di attimi molecolari stupendi, fatti di cose semplici. Siamo noi a complicarla nella rapidità dell’essere e, forse, del voler apparire. Questi viaggi in stasi, sogni ad occhi aperti, senza pagare un prezzo al biglietto, ci portano in mezzo alla natura, molte volte è il mare (viatico per un ulteriore viaggio), e noi siamo parte di questa natura. Noi ci siamo. Basta soltanto aprire gli occhi, respirare e riappacificarci. È, questo, un viaggio che parte a testa bassa e ad occhi chiusi e f inisce a testa alta e occhi puntati alla luna e alle stelle. Il senso di pace che ti si appiccia addosso sin dai primi versi, è il modo in cui Antonio ci fa sentire la sua anima non rinunciando mai ad una precisa prerogativa che si espande parola dopo parola: il sorriso. La semplicità regna sempre sovrana, e lo dimostrano i calici di vino (what else?). Antonio ci sta gridando che solo così tutto può essere più chiaro, così come sono chiare le sue immagini, rese ancora più potenti dai suggestivi attimi rubati e immortalati dal fotografo Fabio Colangiuli, lo sfondo dalla pennellata perfetta. Bisogna avere il coraggio di lanciarsi nella semplicità delle cose, nell’andare, nel restare, nell’abbracciare e nel dire “grazie”, “ti voglio bene”, “ti amo”. E bisogna farlo subito, per non restare solo ricordi. Bisogna farlo ora, altrimenti perderemo per sempre quest’attimo e non entreremo mai nell’”Adesso”. 
Grazie Antonio. 
Giuseppe Tagarelli

Antonio Pavone è un docente di Scienze Motorie e Sportive, nato in provincia di Bari nel 1991.
I suoi studi in ambito scientfico (Infermieristica, Scienze e Tecniche dello Sport e Scienze della Nutrizione) gli permettono di lavorare a stretto contatto con le persone e di scoprire ogni giorno storie nuove e mondi sempre diversi. Ogni persona incontrata sul suo percorso formativo, lavorativo e di vita è un grande libro da leggere con una storia da raccontare.
Sportivo da sempre e allenatore, sulla sua scrivania tra i programmi d’allenamento si ritrovano pensieri, parole e poesie.


William Atkins - TRE ISOLE - Iperborea

 
William Atkins
TRE ISOLE
Storie di mare, esilio e dissidenza

(titolo originale Exiles: Three Islands, Faber & Faber, 2022)
traduzione di Luca Fusari
Iperborea
collana I Corvi / 10
pp. 336, euro 19,50
ISBN 9788870917406
 
«William Atkins è uno dei migliori scrittori in circolazione.» Olivia Laing

Era il 2016 e William Atkins veniva scosso da due immagini gemelle, distanti migliaia di chilometri: i cumuli di salvagenti lasciati dai rifugiati sulle spiagge greche, visti in televisione, e gli ammassi di zaini abbandonati dai migranti sudamericani nel deserto dell’Arizona, visti di persona. Da qui nasce il viaggio di Tre isole: l’esigenza di trovare un altrove in cui stare meglio, che è alla base di tutte le migrazioni della storia, sembra ancora oggi animare il mondo. Ma cosa succede quando la migrazione è forzata, quando un Impero ha la facoltà di rimuovere personaggi scomodi e confinarli oltremare? Atkins racconta la nostalgia di tre esuli, tre ribelli sconfitti dalla storia del XIX secolo: Louise Michel, amica di Hugo, anarchica a capo della Comune di Parigi; Dinuzulu, figlio dell’ultimo re zulu riconosciuto dai coloni britannici; l’ebreo ucraino Lev Šternberg, dissidente antizarista, padre dell’etnografia russa. Atkins li segue nella terra del confino: in Nuova Caledonia, isola divisa tra identità tribale e dipendenza dalla Francia. Poi a Sant’Elena, esilio di Dinuzulu, scoglio disperso nell’Atlantico che oggi sembra un «ospizio a tema impero» in cui andare a caccia di farfalle e riscoprire un passato di schiavitù. Infine, come Šternberg, viaggia in nave nell’Estremo Oriente russo fino a Sachalin, arricchita oggi dal petrolio, ma come un tempo brutale e inospitale, soprattutto con gli indigeni nivchi. Un viaggio tra presente e passato per capire lo sradicamento di tre condannati alla nostalgia e la verità che sta al centro dell’esperienza dell’esilio e delle sue contraddizioni – libertà e prigionia, lontananza e vicinanza, imperialismo e ribellione.

Un estratto
È difficile risalire alle origini di un libro. Seguendone le radici nel terreno in cui è nato, si scopre che si ramificano quasi all’infinito. Due immagini nitide, però, mi rimangono. Nell’estate del 2016 su internet circolavano foto di migliaia di giubbotti di salvataggio abbandonati sulle spiagge greche dai migranti che avevano attraversato l’Egeo dalla Turchia: grandi morene arancioni, gialle, blu e nere. Mesi prima, camminando nel deserto dell’Arizona, avevo visto mucchi di zaini sul ciglio delle strade e nel letto dei torrenti in secca, lasciati dai migranti che avevano attraversato clandestinamente la frontiera con il Messico arrivando dall’America Centrale e non solo. Separati da oltre undicimila chilometri, quei due mucchi così simili erano un segno dei nostri tempi, ma raccontavano anche una storia più grande di migrazioni umane. Cominciai a ricredermi: forse la prima causa della nostra infelicità non era la solitudine, come avevo sempre pensato, ma il desiderio di essere altrove. Mi venne in mente che le vite di un altro tipo di emigrati, più antichi, i deportati politici, mi avrebbero mostrato quello che da soli non potevano mostrarmi i racconti di migrazione, esilio e prigionia: il senso della parola «casa», il funzionamento degli imperi e il conflitto tra rimanere e andarsene che sembra animare il mondo.
Il confino, una forma di esilio le cui origini risalgono all’antica Roma, tornò in auge nel tardo XIX secolo. Potremmo chiamarlo «esilio imperiale», dato che presuppone una potenza esiliatrice che controlla territori lontani dalla madrepatria. Per questo non è un caso che le persone di cui ho scelto di parlare siano vissute in un’epoca in cui l’imperialismo europeo era più rapace che mai, né che la destinazione del loro esilio fossero isole remote. Un’anarchica francese, Louise Michel; un re zulu, Dinuzulu kaCetshwayo; un rivoluzionario ucraino, Lev !ternberg: ciascuno sacrificò la propria libertà e la propria «casa» in nome di un’idea più grande di libertà e di casa: Michel in quanto figura di spicco del breve governo socialista della Comune di Parigi, Dinuzulu in quanto nemico del colonialismo britannico, !ternberg in quanto sostenitore militante dell’antizarismo in Russia. Mi hanno attratto perché la loro vita fu condizionata da venti che soffiano forte anche oggi – il nazionalismo, il dispotismo, l’imperialismo – e per il modo in cui ciascuno di loro reagì alla condanna; per come riuscirono ad assorbire la batosta dell’esilio, e a far sì che l’espulsione dalla madrepatria rafforzasse il loro senso del dovere, anziché smorzarlo. Li ammiravo, e in particolare ne ammiravo la capacità di tenere d’occhio l’orizzonte – cioè il futuro – dalle isole dove furono confinati: Michel in Nuova Caledonia, nel Pacifico meridionale; Dinuzulu a Sant’Elena, nell’Atlantico meridionale; !ternberg a Sachalin, al largo delle coste orientali della Siberia.

William Atkins è uno scrittore britannico. Nei suoi libri indaga la connessione tra i luoghi, chi li ha abitati, la natura e la storia. Con Un mondo senza confini (Adelphi 2023) ha esplorato i deserti di tutto il mondo e ha vinto lo Stanford Dolman Travel Writing Award. I suoi scritti sono apparsi su Harper’s, The Guardian e The New York Times.

Lin Hsin-Hui - INTIMITÀ SENZA CONTATTO - add

 
Lin Hsin-Hui
INTIMITÀ SENZA CONTATTO
(titolo originale Contactless Intimacy, 零觸碰親密 © 林新惠, 2023)
traduzione di Lorenzo Andolfatto
ollustrazione di Lucrezia Viperina
add editore
aprile 2025
pp. 192, euro 20
ISBN 9788867835225
 
In un mondo in cui il contatto fisico è vietato e le relazioni sono ottimizzate dalle macchine, quale destino attende l’essere umano?
Lin Hsin-hui segue la vita di una donna la cui generazione è la prima a sperimentare una «società senza contatto», governata da un’intelligenza artificiale centralizzata. Educata a evitare qualsiasi tipo di relazione fisica, considerata una pericolosa fonte di contaminazione emotiva, la protagonista decide di partecipare a un programma di ibridazione bio-sintetica. Trasferita in un nuovo corpo perfetto e sincronizzata a una metà artificiale altamente specializzata, alla fine dovrà confrontarsi con la propria identità e battersi per preservare l’umanità in un sistema che genera solitudine e isolamento.
Esplorando i confini sempre più labili tra ciò che è autenticamente umano e ciò che è frutto di un algoritmo, Intimità senza contatto è una riflessione sul presente: la disconnessione emotiva avanza con la stessa rapidità della tecnologia, e il nostro modo di costruire relazioni viene ricalcolato dalle macchine, rivelando un’alienazione radicata anche nei contesti più familiari. E se l’intelligenza artificiale, nel tentativo di salvaguardare l’umanità, ne ridefinisse l’intimità?

Un’opera luminosa che dipana delicatamente i fili delle narrazioni eteronormative e patriarcali, tessendo un futuro in cui sbocciano diverse possibilità. La prosa intima di Lin traccia nuovi territori sia nella forma sia nella visione, e la consacra come una delle scrittrici di fantascienza più innovative della sua generazione.
Chi Ta-wei, autore di Membrana

L'inizio
Si svegliò in un corpo a lei non familiare. Non familiare, ma non del tutto sconosciuto, poiché era in grado di percorrerlo con la mente fino alle sue estremità. Mosse con cautela le dita delle mani e dei piedi, e si accorse che tra gesto e intenzione sembrava interporsi una specie di barriera. Forse la risposta si trovava nel rovescio della domanda: se quello fosse stato davvero il suo corpo, il corpo a cui era abituata, allora flettere un dito non avrebbe dovuto essere poi troppo diverso dal sedersi, dallo sdraiarsi o dal camminare, azioni che era in grado di eseguire senza alcuna increspatura del pensiero. La condizione in cui si trovava era simile a quella di chi si risveglia da un grave infortunio, oppure di chi fa esperienza della realtà virtuale per la prima volta e cerca di stabilire se il proprio avatar digitale sia connesso o meno ai propri pensieri, guardandosi il corpo e agitando le mani. Ma forse non si trattava né di un caso né dell’altro. Man mano che la sua coscienza si schiariva seguendo i movimenti, si ricordò del messaggio di notifica che l’aveva destata prima del sole e prima della sveglia che aveva illuminato lo schermo del telefono.

Lin Hsin-Hui 林新惠 (1990) è una scrittrice taiwanese. Ha vinto, tra i numerosi riconoscimenti, il prestigioso Premio per la letteratura di Taiwan. Allieva di Chi Ta-wei, autore di Membrana, alla National Chengchi University di Taipei, Lin si concentra sui confini ambigui tra umano e non umano, e sulle intersezioni tra letteratura, tecnologia ed ecologia. Intimità senza contatto è il suo primo romanzo.



Il tour dell'autrice in Italia
Giovedì 19 giugno | Roma
@ Estate al Torrione, Pigneto, ore 19.00
 
20-22 giugno | Cagliari 
@ Marina Cafè Noir
 
Martedì 24 giugno | Milano
@ Tempio del Futuro Perduto
in dialogo con Viola Stefanello, Il Post

Ornella Tajani - SCRIVERE LA DISTANZA - Marsilio

 
Ornella Tajani
SCRIVERE LA DISTANZA
Forme autobiografiche nell'opera di Annie Ernaux

Marsilio
collana Elementi
2025
pp. 112, euro 12
ISBN 9788829792320


«Distanza» è una parola chiave nell’universo letterario di Annie Ernaux: la sua vocazione autosociobiografica nasce dal desiderio di misurare il solco che la separa dal milieu proletario della provincia normanna in cui è cresciuta; l’attenzione alla lingua parlata, quella lingua sulla quale in famiglia si litigava più che per i soldi, si riscontra a più riprese nei suoi testi; il metadiscorso che punteggia la narrazione porta chi scrive a osservare ciò che ha vissuto o sta vivendo da una diversa prospettiva, per riuscire a coglierne l’essenza, la verità. Questo saggio si propone come un’introduzione ragionata alla lettura dell’opera di Ernaux, della quale percorre i tre versanti appena descritti: l’autosociobiografia, l’autobiografia linguistica e l’autobiografia «del compimento», ossia quella che più direttamente ha a che vedere con l’intento, più volte ribadito dall’autrice, di scrivere la vita.
 
dall'Introduzione
Ceci n’est pas une autobiographie è il titolo del seminario tenuto da Annie Ernaux nel 2009 al Collège de France nell’ambito del cor-so Écrire la vie: Montaigne, Stendhal, Proust pensato da Antoine Compagnon. Nella parte finale del suo intervento l’autrice motiva tale scelta, all’apparenza provocatoria, spiegando che la sua opera ha senz’altro a che vedere con il genere autobiografico, ma ne costi-tuisce un decentramento, realizzandosi mediante una pratica volta a spostare il valore dell’io all’interno del racconto personale, così da scuotere la tradizionale antinomia che oppone il singolo alla società o alla Storia. Sono i frutti dell’insegnamento di Pierre Bourdieu, figura faro nella formazione della scrittrice: l’io profondo di ogni indivi-duo è indissolubilmente legato all’io sociale. Questa verità struttura l’intera produzione ernausiana: dopo il «dé- tour» iniziale rappresentato dai primi tre libri – Les Armoires vides, Ce qu’ils disent ou rien, La Femme gelée –, Ernaux si confronta con il genere autobiografico integrandovi però il lavoro sociologico: nasce così l’autosociobiografia, a cui è dedicato il primo capitolo di questo libro. A partire da quel momento, e cioè dalla pubblicazione di La Place nel 1983, ogni nuovo testo diventa il tassello di una medesima opera più grande, unitaria, che racconta il suo percorso di donna, di intellettuale, e nel farlo dipinge sullo sfondo l’affresco di un’epoca e di uno spazio attraversati dalla lotta di classe. Le storie di Ernaux non sono mai soltanto ciò che sembrano: ogni episodio travalica i confini del vissuto e produce pensiero, discorso. Così, ad esempio, l’indagine sull’ambiente in cui è cresciuta, la misurazione e il disvelamento della distanza percepita rispetto al nucleo familiare e al mondo dei propri genitori passano anche, in modo sentito e rilevante, attraverso l’analisi della lingua parlata da ragazzina, ossia la lingua dei genitori, in età adulta rinnegata, poi recuperata e trasformata: lo si vedrà nel secondo capitolo, incentra-to sull’autobiografia linguistica. Il terzo e ultimo capitolo affronta la maniera peculiare e mirabile con cui Ernaux riesce a «écrire la vie», un’espressione ormai emblematica di ciò che costituisce forse il suo principale talento: cosa vuol dire che la scrittura porta a compimento la vita, come lei stessa ha dichiarato? Un’indagine sulla pratica del metadiscorso, molto presente nei testi dell’autrice, proverà a rispondere a questa domanda. Il desiderio di percorrere le tre piste delineate è alle origini di questo saggio, perché al loro crocevia sta a mio avviso la chiave di comprensione dell’opera di Ernaux. Guardare con attenzione ai testi, come mi propongo di fare, consentirà di sgomberare il campo sia dalle critiche sulla presunta «mancanza di stile» dell’autrice – critiche vivaci già da anni, che la vittoria del Nobel nel 2022 ha solo inasprito –, sia dall’accusa di una troppo marcata autoreferenzialità, forse motivata anche dal fatto che Ernaux si esprime spessissimo su ciò che scrive (il termine «autosociobiografia», ad esempio, è suo): lo fa con grande acutezza e non è facile confrontarsi con una scrittrice che fornisce di continuo descrizioni e interpretazioni critiche del proprio lavoro. Tre piste, dunque, inquadrate all’interno di una cornice in cui la relazione prossemica è essenziale; ognuna delle forme autobiografiche appena accennate si struttura infatti sulla base di una riflessione dell’autrice sulla distanza: dal milieu proletario in cui è cresciuta, dalla lingua familiare da cui si è emancipata, da ciò che sta vivendo mentre scrive. La distanza diventa un paradigma, variamente modulato, dell’esperienza mediata dalla scrittura. L’opera ernausiana non è una autobiografia, ma molte autobiogra- fie, al plurale: perché contiene almeno tre diverse forme autobiografiche, che saranno esplorate nelle prossime pagine; e perché riesce a includere nel racconto, attraverso un io transpersonale, le vite di molti.
 
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese presso l’Università per Stranieri di Siena. Traduce dal francese e si occupa di critica della traduzione letteraria. Per L’aquila a due teste di Jean Cocteau (Napoli, 2011) ha vinto il premio Monselice “Leone Traverso” 2012.

Jane Eastoe - TULIPANI - Guido Tommasi

 
Jane Eastoe
TULIPANI
le più belle varietà per casa e giardino

fotografie di Rachel Warne
Guido Tommasi editore
collana Germogli
aprile 2025
pp. 240 , euro 29
ISBN 9788867534388

Tutti sanno come sono fatti i tulipani, o forse no? La storia di questo fiore inizia molti secoli fa – non si sa esattamente – quando i nativi delle regioni montuose della Russia, del Kazakistan, dell’Uzbekistan, della Mongolia e della Cina, dove queste meraviglie botaniche crescevano e crescono in maniera del tutto spontanea, si resero conto del valore dei loro bulbi e iniziarono a commercializzarli con l’Occidente, passando per la Via della Seta.
Gradualmente si diffusero e la loro popolarità crebbe talmente tanto che, già nel XVI secolo, i tulipani avevano raggiunto il cuore dell’Impero Ottomano in Turchia e venivano apprezzati dalla cultura locale, che non li tenne per sé ma li inviò nel Continente. Ciò permise a questo fiore di diventare uno dei più conosciuti al mondo e di raggiungere i nostri giorni.
Dotati di una rara e silenziosa bellezza, ma anche di colorazioni sgargianti, questi scrigni botanici racchiudono un segreto: la maggior parte di loro è accomunata dalla modalità di variazione e dalla regolare produzione di mutazioni nella progenie. Ciò li ha resi un mistero e ha generato per secoli una notevole confusione fra i botanici: saranno tulipani originali o semplici varianti di un’altra specie? Nonostante ciò, ancora oggi, che siano in un immenso campo fiorito nei Paesi Bassi o raccolti in un mazzo acquistato da un fiorista come regalo per una persona cara, questi fiori attraggono sempre lo sguardo e con le giuste accortezze ognuno può coltivarli e ammirarli nel giardino di casa propria.
Dotato di uno splendido apparato iconografico, che mette in risalto tutta la bellezza dei tulipani, e di sezioni specifiche riguardanti la storia, questo libro si concentra sulle più belle varietà recise e da coltivazione, presentandone nel dettaglio oltre 50 e dando preziosi consigli sulla messa a dimora, la coltivazione e la cura di questa vera e propria meraviglia della natura.

Jane Eastoe ha iniziato la sua carriera nel settore del giornalismo, in particolare come editor nelle testate di moda. Ha però deciso di cambiare vita, trasferendosi dalla caotica Londra alla tranquilla e verde campagna del Kent, dove ha sviluppato il suo amore e interesse per le piante, le erbe, gli alberi da frutto e i fiori.
È diventata una grande appassionata di giardinaggio e ha deciso di diffondere le sue conoscenze su carta, oggi è autrice di molti libri di botanica, che trattano in particolare le numerose varietà di fiori che potrete utilizzare per adornare i vostri giardini.


Rachel Warne cresce praticamente nell'orto londinese del nonno e poi nella fattoria di famiglia, e questo ha instillato in Rachel l'amore per la botanica e un apprezzamento per il mondo naturale che continua a influenzare il suo lavoro ancora oggi. Oggi si è dedicata al mondo degli interni.
Negli ultimi 18 anni ha lavorato come fotografa. Vincitrice di numerosi premi, Rachel è specializzata in botanica e vita all'aria aperta. Collabora a livello commerciale e internazionale con tutte le principali riviste di giardinaggio e lifestyle. Rachel ha collaborato con garden designer, interior designer, artisti, professionisti del settore artigianale e scrittori, tra cui Sam McKnight, Dan Pearson, James Alexander Sinclair, Ann-Marie Powell, Andy Sturgeon, Neisha Crosland, Miria Harris, Jo Thompson, Abigail Ahern e Beth Chatto. Ha pubblicato diversi libri con diverse case editrici, tra cui Pavilion, Frances Lincoln, Phiadon e Kyle Books. Rachel si è dedicata al mondo delle installazioni floreali e collabora con aziende del calibro di McQueens Flowers, Worm London e molte altre.

Daniele Cellamare - RUDOLF DIESEL - Il Piroscafo


Daniele Cellamare
RUDOLF DIESEL
L'uomo che ha rivoluzionato la storia del motore e la sua misteriosa morte
Il Piroscafo edizioni
aprile 2025
pp. 264, euro 18
ISBN 9791298503854


Dominique Besson, ispettore capo della Direction Centrale de la Police Judiciaire di Parigi, viene a conoscenza della morte prematura di Rudolf Diesel, l’uomo che ha rivoluzionato la storia del motore. Le circostanze del decesso appaiono da subito misteriose e lo spingono a indagare sulla vita dello scienziato, portando alla luce ambiguità, rovesci finanziari e ripetuti esaurimenti nervosi. Besson, inoltre, aveva già conosciuto il padre di Diesel durante la sua prima indagine, legata all’attentato a Napoleone III. Sul finire della Belle Époque, tra dame eleganti, locali di lusso e nuove invenzioni, si allungano le ombre della Prima guerra mondiale, relegando la fine di Rudolf Diesel a un semplice fatto di cronaca.

Un estratto
Il signore distinto entrò nella bottega con una vaga smorfia di repulsione già impressa sul volto. Dopo aver fatto i primi due passi si fermò e si guardò intorno con aria perplessa alzando gli occhi verso il soffitto. Poi girò la testa sugli angoli più remoti del pavimento e sembrò soffermarsi sui cumuli di cartone e lacci che allineavano lungo le pareti laterali. T heodor si aggiustò gli occhiali e si alzò in piedi dietro il bancone pieno di vasetti di colla e pennelli. «Buongiorno signore» disse con il suo timbro di voce solitamente basso «in cosa posso esservi utile?». L’uomo non si sfilò i guanti e rimase in piedi appoggiandosi con aria elegante al bastone. Indossava una tuba corta alla moda e sotto il colletto inamidato una cravatta con il nodo sottile e un gilet dello stesso colore scuro della giacca. I pantaloni, grigi ma a righe scure, finivano stretti sopra scarpe nere e lucide. «Vedete, avrei bisogno delle vostre prestazioni, ma prima sono voluto passare di persona per verificare» disse continuando a guardarsi intorno «… per valutare la vostra bottega».
Poi si schiarì la voce «il vostro nome mi è stato fatto da un conoscente, mi ha detto che siete… discretamente bravo». T heodor si inchinò leggermente «sono soltanto un artigiano che cerca di fare bene il proprio lavoro». «E sia» rispose l’uomo «vi manderò una persona di mia f iducia, ma ci tengo che il lavoro sia ben fatto, a regola d’arte». «Non dubitate, rimarrete soddisfatto. Posso chiedevi di cosa si tratta?». L’uomo aspettò qualche secondo prima di rispondere, come se volesse valutare la reazione dell’artigiano «È un’antica Torah di famiglia, per noi molto preziosa». «Certo» rispose Theodor abbassando il capo. Si passò le mani sul camice scuro e rassicurò ancora una volta il suo cliente. L’uomo gli lanciò un’occhiata penetrante e quando si ritenne soddisfatto uscì dalla bottega senza salutare. Rimasto solo, Theodor si sedette sul suo sgabello e riprese in mano il pennello. Un ebreo, commentò sottovoce, dovevo immaginarlo. Si presentava come un lavoro complicato, ma era sicuro di riuscirci. In genere, queste edizioni del libro sacro ebraico erano prodotte con fogli di pergamena arrotolati e per leggerli era necessario srotolarli con cura. A lui sarebbe spettato il compito di avvolgere la pergamena tra due anime in modo che il testo potesse essere letto sia dall’inizio che dalla fine. Le porzioni di pergamena che non venivano lette potevano rimanere avvolte, assicurando così una maggiore protezione al libro. In fondo, non poteva definirsi un incarico difficile, ne aveva svolti di più complicati.
Q uesto lavoro gli era sempre piaciuto, amava l’odore dei collanti e dei mastici e non riusciva a immaginare la sua vita senza la bottega che aveva aperto appena arrivato a Parigi. In Germania aveva cominciato da apprendista all’età di quindici anni e lavorava al torchio, ma doveva anche preparare gli inchiostri e controllare la pressa. Dopo il periodo di apprendistato era diventato operaio, ma il suo mastro tipografo non gli aveva mai permesso di avere più autonomia e questo lo aveva reso ben presto insoddisfatto, se non quando infelice. A Parigi era tutt’altra cosa, i libri e le pubblicazioni erano molto più apprezzati. La Bibliothéque des Chemins de Fer sfornava libri a centinaia e alcuni giornali pubblicavano anche il feuilleton, una specie di romanzo a puntate che attirava curiosità e clienti. Ma a lui l’editoria non lo aveva mai entusiasmato. Servivano molti soldi per creare i caratteri e le matrici. Una cinquantina tra lettere, numeri e segni di punteggiatura, che dovevano essere moltiplicati per tre, il maiuscolo, il maiuscoletto e il minuscolo. E poi il tondo e il corsivo, e il tutto in diverse dimensioni, dai titoli in grande alle note in piccolo. No, era un lavoro che non gli piaceva, così come gli risultava difficile la composizione: mettere in fila i caratteri per comporre le parole lo trovava un mestiere noioso. A lui piaceva la legatoria, l’antica arte di assemblare i fogli e creare le copertine. Aveva imparato a lavorare quello che chiamavano il marocchino, una pelle di capra pregevole e a grana lunga, con i colori rosso, giallo e blu, ma sapeva trattare anche la pelle allumata di maiale, quella che usavano in Germania.
Non gli piacevano le legature di scarsa qualità, quelle che servivano solo per proteggere il libro, ma amava la legatura impero, con le decorazioni a fioroni e i motivi classici, quelle che si usavano per i libri importanti, come per i codici e i documenti antichi. Si chiese se il suo cliente avesse già provveduto a creare un supporto adeguato per leggere la Torah, in genere mobiletti pregiati di legno, ma si rese conto che questi non erano affari suoi e tornò al suo lavoro. Scelse una fascetta adeguata, esaminò la sovraccoperta e iniziò a spargere la colla sul dorso del volume.

Daniele Cellamare (1952) è stato docente presso la facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma e presso il Centro Alti Studi per la Difesa. È stato direttore dell’Istituto Studi Ricerche e Informazioni della Difesa. Ha collaborato con emittenti televisive nazionali e con diverse testate nazionali e straniere. È responsabile del gruppo di analisti “Doctis Ardua” per la stesura di saggi di carattere geopolitico. Appassionato di studi sulla Storia Militare, ha pubblicato diversi romanzi storici: La Fortezza di Dio, La Carica di Balaklava, Gli Ussari Alati, Il drago di Sua Maestà, Gli artigli della Corona, Delitto a Dogali e Takeko.

Fabrizio Congiu - IL CAMMINO FRANCESCANO IN SARDEGNA - Terre di Mezzo

 
Fabrizio Congiu
IL CAMMINO FRANCESCANO IN SARDEGNA
Terre di Mezzo
aprile 2025
pp. 96, euro 14
ISBN 9791259963215

125 chilomentri a piedi da Cagliari a Laconi
Un nuovo Cammino attraversa il cuore selvaggio della Sardegna, seguendo le tracce secolari di frati e pellegrini. Tra spiritualità e natura, l’itinerario accompagna i camminatori ad ammirare i fenicotteri rosa che popolano gli stagni di Santa Gilla o a visitare la Giara di Gesturi e le colline vulcaniche della Marmilla; tocca eremi, conventi e antichi nuraghi, si sofferma in borghi dimenticati dove la vita scorre lenta e l’accoglienza ha un sapore antico. Con tutte le informazioni utili per organizzare il proprio itinerario, i luoghi dove dormire e le tracce Gps. Da Cagliari a Laconi, un itinerario di 8 giorni e 100 chilometri per scoprire il lato più nascosto e spirituale della Sardegna.

Una ricchezza culturale e spirituale da scoprire

Camminando s’apre il cammino dell’uomo verso nuovi orizzonti.
Molti conoscono la Sardegna soltanto per il suo mare, che negli ultimi cinquant’anni ha attirato persone da tutto il mondo. Ma la mia isola non è solo mare. Da millenni nell’entroterra vive un popolo che custodisce una ricchezza culturale e spirituale da scoprire.
Il percorso da Cagliari a Laconi immerge il camminatore nel cuore della Sardegna, permettendogli di incontrare volti, percepire profumi e apprezzare paesaggi che normalmente sfuggono a chi non si muove a piedi o a chi è attratto solamente dalle onde e dalle spiagge; unisce quelle terre in un cammino spirituale che segue le orme lasciate dai frati francescani, presenti sull’isola fin dai primi decenni del XIII secolo e capaci di segnare tanti aspetti della vita sociale, culturale e artistica dei sardi.
Sembra sia stato san Francesco d’Assisi in persona, negli anni Venti del 1200, a chiedere ai suoi fratelli di raggiungere l’isola per portare il Vangelo di Cristo. Lo spirito con cui i francescani lo hanno seguito è da sempre caratterizzato dalla vicinanza a ogni individuo: non solo a chi segue un percorso religioso, ma anche a chi cerca semplicemente pace e verità nella propria vita.
L’itinerario offre la possibilità di conoscere molti dei luoghi e delle vie calpestati nei secoli dai frati, e che conservano ancora il segno del loro spirito.
Fabrizio Congiu,
frate francescano cappuccino

Fabrizio Congiu, nato a Cagliari nel 1978, appartiene all’Ordine dei frati minori cappuccini dal 2000 ed è presbitero della Chiesa cattolica dal 2007. È l’ideatore del Cammino francescano in Sardegna su cui accompagna pellegrini e camminatori.