Remo Rapino
LA SCORTANZA
minimumfax
novembre 2025
pp. 152, euro 17
ISBN 9788833896557
Seduto alla Fontanella, Rosinello Capobianco conta le mattonelle e mette in fila i ricordi, belli e brutti – che, proprio come le mattonelle, si contano sempre a tre a tre. Storie mezze vere e mezze false, racconti di seconda e terza mano, frammenti di vite sfiorate, echi di favole, di sogni, di preghiere: l’illustre mastro Nicola Trabaccone, che gli ha insegnato il mestiere della rilegatura, Giacomino Tiracchia, che leggeva Verga in mezzo al suo campo di girasoli, Cenzino che è tornato dall’America mentre Rosinello ha potuto solo sognarla, Libbò che parlava solo per proverbi e Ginetta Petrosemolo con la sua gonna a fiori, a cui Rosinello ha strappato qualche bacio di straforo e che forse, se avesse avuto un po’ più di coraggio, avrebbe potuto essere il suo grande amore.
Si inanellano i ricordi e i racconti, brandelli di vite leggere come pezzi di stoffa portati dal vento, con tutte le loro piccole e grandi disperazioni, il loro carico di desiderio, gioia e dolore, le cose volute e mai avute, le cose sopportate, le cose assaporate fino alla fine, come l’ultima goccia nel bicchiere prima che la taverna chiuda.
Dopo Liborio, dopo Mengo, la voce inconfondibile e poetica di Rosinello aggiunge un nuovo capitolo all’epopea degli sfasulati, un altro tassello a quel paesaggio in cui ogni frammento può contenere stelle, lune, pianeti, galassie, e dove l’atto dolcissimo e doloroso del ricordare è una mano tesa, un dono fraterno, un canto che scoraggia la morte e strappa la promessa di un racconto eterno.
Un estratto
Mica sempre vero che i genitori vogliono un bene da morire ai f igli. Ha voglia quel Mario Merola là a cantare che ’E figlie so’ piezze ’e core, che almeno lui un nome normale ce l’ha sulla carta d’identità e, se lo chiamano per strada, nessuno si mette a ridere e lui si gira tutto contento per il nome che si porta appresso. Invece io, altro che ’E figlie so’ piezze ’e core. Se così fosse, i miei genitori, se m’avessero voluto bene davvero, a me, mai e poi mai m’avrebbero attaccato ’sto nome farlocco: Rosinello, che potrebbe andar bene, sì e no, per lo scemo di testa e di camminata storta del paese. Che se dopo ci accompagni pure il cognome Capobianco, allora l’opera buffa è completa, si spengono le luci, tacciono le voci, e nel buio comincia il varietà, certe volte pure con le ballerine a gambe di fuori e con la cellulite che si vede bene anche a occhio nudo. Per non dire che a portarmelo dietro, ’sto cazzo di nome, tutta la vita ho dovuto battagliare e farmi largo a calci e sputi con gli Andrea, i Pietro e Paolo, perfino con i Franco, i Bruno e gli Alberto, certe volte anche con i nomi dei cani, che quelli, pure quelli, già solo col nome mi lasciavano indietro di una buona cinquantina di metri, e hai voglia dopo a far rincorse, che i miei giorni tutti in salita si capicollavano, tra un’incazzatura e l’altra, e mi ci veniva un fiatone d’asma per le scalinate di basalto dove s’arrampicavano gli anni miei. Mille volte avrei voluto cambiare il mio nome, ero andato pure da un mezzo avvocatuccio, uno di seconda mano, ché quel tormento da fine pena mai Bambole non c’è una lira, ’na miseria scura assai, mi veniva appresso, passo passo, come quei rompicoglioni che girano per la piazza, e mo’ ti cercano ’na sigaretta e mo’ ’na birretta o qualche soldarello per il parcheggio anche se non hanno né la macchina né la patente, e intanto girano in tondo come tafani, da mattina a sera, come anime perse del Purgatorio. Ecco, volevo fare ’na cosa così, uno scavalcamento burocratico per vedere come striccicare la faccenda del nome mio. Poi però al portone del Municipio non ci sono mai entrato, un po’ perché mi vergognavo, un po’ perché gli impiegati comunali mi stavano tutti bastantemente sulle palle con quell’aria da so tutto io, timbracarte, firme false e marche da bollo, che pure oggi mi si appendono ai gioielli di famiglia come un Tarzan in volo sulle liane della giungla. Che poi gioielli si fa per dire. E giacché mi ci trovo un altro sfogo mi brucia sulla punta della lingua, che pure i vigili, tutti azzimatucci come il loro capoguardia Cocò sparami in petto, mi stavano sullo stomaco e m’abbuffavano le palle come farebbe un’ernia strozzata. Poi, alla fine, non sapevo manco che nome mi potevo capare, ma a piacere mio, mica del Comune. Così m’è rimasto ’sto marchio di Rosinello sulle spalle e con questo nome me ne sto seduto, mufo mufo, da mattina a sera alla Fontanella di Colle di Piazza. Un postarello discreto per fare due chiacchiere con qualche malanima o starsene per i cazzi propri come se, per qualche miracolo, un povero cristo normale si ritrova, appena schiodato dalla croce, senza colpo ferire, in paradiso, un’isola di gradimento insomma, penso una delizia almeno a sentire preti, monaci e suore, che poi sono pure loro ’na mezza camorra, tutti bugiardi come le frasi millantate sulle lapidi dei morti. E poi ci dovrà essere qualche fontanella che sputa acqua buona pure nei giardini del paradiso. Quel ritaglio di piazza è chiamato Cerchitelli, che sarebbe come dire piccole querce, ma querce non sono proprio per niente e io non capisco perché lo chiamano così. A me sembrano alberi di Giuda ma ben cresciuti, che, a pensarci bene, quel nome traditore ci sta più a fagiolo, con tutti i falsoni e i fregamidolce che ci girano in tondo, con facce volpine e mani pelose, sbraitando pettilarie, malestorie, segreti di famiglia, insomma coltellate alla schiena a chi capita capita. Bisogna saper smirciare bene per riconoscerli sotto le mascherature, se no ti puoi abbuscare una fregatura tra capo e collo, e ti ritrovi faccia a terra e culo per aria, manco il tempo di uno svolazzo di male parole, un oddio oddio, oh mamma mia. Io, invece, sono di un’altra pasta, non faccio raggiri a coccia di morto, non racconto bugie né cago fregnarie, anche se gli altri soggetti ammuinano il contrario, ma io, per sicurezza, ci sto poco a contatto con certa gente. Io non m’invento niente, non sono un fanfarone e manco uno spacconetto di quartiere. Mi nascono dentro solo storie, mezze vere e mezze false, che poi, alla fine, bugie, storie e favole ribollono tutte nello stesso calderone a fare pizza e minestra. Tra i miei parenti di prima, e qualcuno di mo’, qualche truffaparole non è mai mancato e maestri nel giochetto delle tre carte, per la verità, hanno fatto teatro, e pure ’sta cosa è voce di popolo, voce di Dio, tanto che ci conoscono più col soprannome che con il cognome scritto con l’inchiostro nero all’anagrafe comunale. (...)
Remo Rapino (1951) è stato insegnante di storia e filosofia. Vive a Lanciano. Minimum fax ha pubblicato Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (2019), vincitore del Premio Campiello, Cronache dalle terre di Scarciafratta (2021) e Fubbàll (2023), vincitore del Premio Gianni Mura. Tra le altre sue opere ricordiamo i romanzi Un cortile di parole (Carabba 2006) e Di nome faceva Arturo (Città Nuova 2025) e le raccolte di poesie Cominciamo dai salici (Crocetti 2002), La profezia di Kavafis (Mobydick 2003) e Le biciclette alle case di ringhiera (Tabula Fati 2017).


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