Sara Mesa
IL CONCORSO(titolo originale
Oposición, Editorial
Anagrama S.A. 2025)
traduzione di Elisa Tramontin
La Nuova Frontiera
collana Liberamente
settembre 2025
pp. 224, euro 17,50
ISBN 9788883734946
“Compresi che una parte di me stava
già accettando la mia situazione lì dentro. In un certo senso mi
stavo appropriando di un pezzetto di terra, quell’angolo in mezzo
al nulla che all’inizio mi era risultato tanto ostile e che ora era
mio. Fu una rivelazione scomoda e sconcertante.”
Sara ha un impiego temporaneo in un
ufficio pubblico e studia per un concorso che dovrebbe assicurarle
stabilità e sicurezza. Dal primo istante, però, si trova immersa in
un ambiente vagamente minaccioso, fatto di mansioni fumose, regole
contraddittorie e direttive insensate.
Cerca di adattarsi, ma la
macchina burocratica inizia lentamente a soffocarla. Il disagio
cresce in silenzio, tra momenti di sconforto e piccoli atti di
resistenza: la scrittura, il disegno, la poesia, l’osservazione
minuziosa diventano gli unici strumenti per non smarrirsi, finché un
suo gesto inaspettato metterà in crisi l’intero sistema.
Con
una prosa incisiva e implacabile, Sara Mesa coglie magistralmente le
ridicole e grottesche storture dell’apparato amministrativo,
consegnandoci un romanzo ipnotico e irriverente tra le cui pagine
serpeggia un dilemma: adattarsi o ribellarsi? Scegliere la
tranquillità o la libertà? Sottomettersi o fuggire?
Come inizia
La scrivania la piazzarono in mezzo al
nulla, in un punto di passaggio, senza finestre. Si sentiva un ronzio
costante, chissà di quale apparecchio o cos’altro. Posai la borsa
e la cartellina sopra la scrivania, il giaccone sullo schienale della
sedia e mi sedetti ad aspettare proprio come mi aveva indicato
l’usciere. Lì, nella penombra, si sentiva soltanto il ronzio,
nulla più, e le sue minime variazioni ogni due o tre secondi, come
un corpo asfissiato che riusciva a fatica a prendere una boccata
d’aria. Davanti a me, la parete color crema; a sinistra, la curva
dietro la quale c’era il corridoio che portava agli uffici; a
destra, la porta a due ante con gli oblò da cui ero appena entrata.
Era una fredda mattinata d’inverno, aveva da poco fatto giorno, la
luce mi fece pensare alla consistenza porosa della cera. Ebbi la
sensazione di essermi introdotta di soppiatto in un edificio
disabitato. Di occupare quel posto per errore. C’era un computer
sopra la scrivania, con la sua tastiera e il suo mouse. Un computer
non molto nuovo, ingiallito dal tempo, con adesivi aziendali e
un’etichetta con un codice a barre. Dopo qualche minuto di
indecisione, premetti il pulsante di accensione. Lo schermo si tinse
di blu, poi di bianco e alla fine di un brillante verde mela. Sul
desktop, una dopo l’altra, cominciarono ad apparire diverse icone.
Spostai il mouse con cautela, ci cliccai sopra. Non portavano da
nessuna parte oppure mi chiedevano password che non conoscevo. Spensi
il computer, tirai fuori i fogli che mi ero portata e me li misi
davanti, prima in una pila, tutti insieme, poi sparsi perché
occupassero più spazio. Il ronzio si era interrotto. Aspettai. Erano
le otto passate quando sentii i primi impiegati. Arrivavano alla
spicciolata, come a scaglioni: alle otto e dieci, alle otto e venti,
alle otto e mezza, alle nove, alle nove e venti. Saluti, schiarimenti
di gola, colpetti di tosse, qualche risata, passi lenti e altri più
svelti, mischiati. Tutti svoltavano dalla parte opposta. Io intuivo
le loro sagome attraverso gli oblò, macchie indistinte che
apparivano e poi si rimpicciolivano e scomparivano. Rimasi al mio
posto in ascolto di tutte quelle persone che andavano a infilarsi
chissà dove, chiedendomi perché nessuno si dirigesse verso gli
uffici. Mi alzai e percorsi il corridoio laterale con circospezione,
come se stessi contravvenendo a una regola. Tre cubicoli a vetri,
ciascuno dotato di una sola postazione, erano ancora al buio. In
fondo c’era un bagno, o quello che sembrava essere un bagno, forse
un piccolo ripostiglio, o forse niente, solo una porta cieca o
d’emergenza. Sulle targhette accanto a ogni ufficio non erano
indicati nomi, solo incarichi. caposezione. caposezione. caposezione.
Tre capisezione. Ancora non se ne era presentato neanche uno. Senza
aver concluso nulla, tornai alla mia scrivania. Alle dieci e mezza la
porta con gli oblò si aprì. Un uomo alto, piuttosto esile, con una
valigetta, un cappotto lungo e l’aria di essere sommamente preso
dai fatti suoi, passò davanti alla mia scrivania. Buongiorno, disse.
Buongiorno, risposi. Quella creatura spettrale svoltò nel corridoio
e andò verso gli uffici. Una luce si accese. Caposezione uno?
Caposezione due? Caposezione tre? Il silenzio si ispessì al suo
passaggio. Impossibile saperlo.
Sara Mesa, nata a Madrid nel 1976, è
una pluripremiata autrice di racconti e romanzi.
Ha
pubblicato Cuatro por cuatro, finalista del premio
Herralde, Cicatrice (Bompiani, 2017), Un incendio
invisible, Cara de pan, la raccolta di racconti Mala
letra e la novella Silencio administrativo.
Con La Nuova
Frontiera ha pubblicato i romanzi Un amore, libro dell’anno
per i maggiori supplementi letterari spagnoli e finalista al Premio
Strega Europeo, e La famiglia.