mercoledì 2 luglio 2025

Wolf Bukowski - LA MERCE CHE CI MANGIA - Ortica

 
Wolf Bukowski
LA MERCE CHE CI MANGIA
Il cibo, il corpo e il capitalismo

Ortica editrice
collana Le Erbacce / 95
giugno 2025
pp. 162, € 13,00
ISBN 9791281228405

La fretta, quella fretta che abbiamo di scappare dal supermercato, è il motivo stesso per cui il supermercato è nato: comprare il cibo in un unico processo spersonalizzato invece di andare di bottega in bottega, seguendo il bisogno. La fretta impone di entrarvi, la fretta fa desiderare di uscirne: eppure fare la spesa è il modo, certo molto alienato, con cui ci assicuriamo il nutrimento. Ma allora perché quel nostro tempo, che il capitalismo ci ha convinto essere tanto scarso da doverlo dedicare solo frettolosamente a procurarci il cibo, corriamo a restituirlo al capitalismo stesso, alle mille sue seduzioni, appena abbiamo oltrepassato la barriera delle casse?

Un estratto

È il cibo che mangio a diventare corpo, cioè a diventare me, ed è questo stesso corpo che è me ad attendere alle fatiche del cibo: la raccolta, la semina, il procurarselo nei più diversi modi, il cucinarlo e così via. Questi due momenti sono legati tra loro come lo sono la piccola e la grande circolazione del sangue. Il primo si realizza individualmente nell’estrarre nutrimento dal cibo che si è ingerito; il secondo si esprime al massimo grado e collettivamente nell’attività agricola, che quel cibo trae dalle risorse della terra. A sua volta, l’attività agricola è un lavoro nel senso che dà Marx a questa parola, ovvero un processo di mediazione, regolazione e controllo che la persona umana esercita per mezzo del proprio corpo («braccia e gambe, mani e testa») nei confronti della natura. È tale processo a rendere possibile il «ricambio organico [Stoffwechsel] tra sé e la natura»; a mettere cioè in moto il metabolismo con cui la nostra specie fa «suoi i materiali della natura» e dà loro «forma utile» alla propria esistenza. Hannah Arendt ha un approccio diverso al concetto di lavoro, e non manca di sottolineare che nelle lingue europee le parole «impiegate per designare il concetto di labor (latino e inglese labor, greco ponos, francese travail, tedesco Arbeit) significano sforzo e pena e sono usate anche per le doglie del parto.» Il maestro Mangiatutto, appena poche pagine fa, rimproverava Candido di invitare la compagnia al lavoro, «travail e cioè tortura»; e ci è ben noto il significato del verbo napoletano faticà. Ciò detto, per Arendt il lavoro è, tra le attività umane, quella che non lascia traccia di sé, quindi, potremmo dire, la più metabolica e la più sottoposta al regime della necessità. Di nuovo, come già nella definizione marxiana, il lavoro agricolo ben si presta a essere modello del lavoro in generale. Il nesso tra agricoltura, lavoro e metabolismo è messo in chiaro da Jean Giono nella sua Lettera ai contadini sulla povertà e la pace del 1938: «noi [...] non facciamo un mestiere, facciamo la nostra vita, non possiamo fare altro; noi non abbiamo diviso la nostra vita tra lavoro e riposo: il nostro lavoro è la terra, il nostro riposo è la terra, la nostra vita è la terra». E ancora: «lavorare la terra è la nostra vita, come il sangue che, fino alla morte, qualunque cosa accada, deve fare il giro del corpo, dappertutto, anche se soffre». Persino nel nostro tempo, sconvolto dalla {sussunzione di tutto al capitalismo}, i contadini e le contadine «appartengono ai loro gesti come i loro gesti appartengono a loro», proprio come si appartiene a un metabolismo e a una necessità; e a ogni stagione quei gesti fanno rivivere, «come se il mondo non fosse impazzito, come se il loro mondo non stesse franando con loro verso la fine» – così Bianca Bonavita. Se però pensiamo a cosa sia concretamente il lavoro nella modernità e ancor più nella nostra modernità postuma, non possiamo più riconoscervi alcun tratto autenticamente agricolo. Se dunque l’agricoltura è lavoro, si realizza allo stesso tempo il paradosso per cui il lavoro agricolo non è più agricoltura. I luoghi di produzione e consumo del cibo vengono allontanati a dismisura, smarrendo ogni rapporto di prossimità, quasi ogni rapporto tout court, tra il coltivare e il nutrire, cioè tra l’azione di coltivare e il suo scopo metabolico; i gesti agricoli sono frazionati, privati di senso proprio, e finiscono per assomigliare a quelli di un automa; di conseguenza, man mano che lo sviluppo tecnico lo consente, le «braccia e gambe, mani e testa» già costrette a gesti e pensieri macchinici, vengono sostituite in toto da macchinari. A questo modo l’agricoltura diviene pienamente lavoro: nel senso, però, non del lavoro agricolo, ma di quello industriale e postindustriale. Il discorso incessante del capitale ricicla così, con piacere, la ciancicata metafora della fabbrica a cielo aperto. E poiché le fabbriche sono nel frattempo divenute digitali, l’agricoltura, in quanto fabbrica a cielo aperto, deve altrettanto digitalizzarsi, diventando così, se possibile, ancor meno agricola. (...)

Wolf Bukowski scrive su Giap (blog dei Wu Ming), collabora con Internazionale. Fra le sue pubblicazioni: La buona educazione degli oppressi, La danza delle mozzarelle, Perché non si vedono piú le stelle, Il grano e la malerba. Vive nell’Appennino bolognese.

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