domenica 29 settembre 2024

Domenico Massaro - ELOGIO DELLA TIMIDEZZA - Fefè

Domenico Massaro
ELOGIO DELLA TIMIDEZZA
la buona educazione al tempo dell'Intelligenza Artificiale

Fefè Editore, collana Gli Elogi, 8
2024
pp. 132, € 15
ISBN 9788894947878



Domenico Massaro è filosofo. La Timidezza che in questo libro descrive e ci consiglia è una “postura filosofica” che dovremmo assumere nei confronti delle vicende della vita. è un atteggiamento verso il mondo che avrebbe conseguenze – tutte auspicabili – anche nelle cose concrete e non solo nei moti dell’anima. Citando Pino Daniele (Questa vita ha bisogno di un’anima) – dopo Heidegger, Bill Gates, Byung-Chul Han, Elon Musk, Blaise Pascal e molti altri – Massaro invoca l’avvento di una “Etica della Timidezza” fatta di ascolto, silenzio, pensosità, rispetto, sobrietà, umanità: un’etica controcorrente con tanta parte della nostra tradizione che ci rappresenta come “possessori” anziché “ospiti” della Terra. Un esprit de finesse, tanto più essenziale oggi al tempo della tecnica avanzata e dell’Intelligenza Artificiale, di cui nel testo si discutono, senza alcuna demonizzazione, vantaggi e dilemmi.

Domenico Massaro, Docente di logica filosofica, è stato membro del direttivo nazionale della Società filosofica italiana. Dirige il Corso di filosofia dell’Università età libera di Arezzo-Bibbiena. Per Fefè Editore ha già pubblicato Palpebre/confine mobile tra visibile e invisibile (2020). Tra i suoi libri si ricordano: Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di Internet (Bollati Boringhieri); Questioni di verità (Liguori); Dialoghi con la regina (Guida); La filosofia, una cura per la vita (Marinotti Edizioni); Leggere Nietzsche (Helicon Edizioni); La comunicazione filosofica, in tre volumi per i licei (Pearson); Il pensiero che conta, in tre volumi per i licei (Pearson); La meraviglia delle idee, in tre volumi per i licei (Pearson); A spasso con Socrate; L’uomo della luna, Giordano Bruno e l’infinito (narrativa per ragazzi); la pièce sulla vita di Giordano Bruno intitolata La notte prima.

Andri Snær Magnason - LA PIETRA DEL GIGANTE - Iperborea

 
Andri Snær Magnason
LA PIETRA DEL GIGANTE
(titolo originale Ofðu ást mín, 2016)
traduzione di Silvia Cosimini
Iperborea, collana Gli Iperborei, 386
settembre 2024
pp.160, € 17,00
ISBN 97888709168

Nere distese di lava, bianchi ghiacciai, casette in legno e edifici brutalisti: l’Islanda dei racconti della Pietra del gigante è una terra di contraddizioni, in bilico tra un passato di ristrettezze, un presente ricco e un futuro incerto. L’Islanda del recente boom economico, che lentamente si riprende dopo aver capito che il mondo non è finito nella catastrofe nucleare tanto temuta durante la Guerra fredda, ma che anzi tutto è finalmente a portata di mano. Così, se nel racconto «2093» il bisnonno ha visto per la prima volta un albero a nove anni, perché nel Nord dell’isola non crescono, in «Wild Boys» rampanti imprenditori organizzano feste grandiose a Londra, tra droga ed eccessi, per liberarsi dal provincialismo della loro giovinezza. Una liberazione che spesso nasconde rimpianti e nostalgia: quella per un mondo raccolto e tranquillo, immune alle sirene del consumismo compulsivo. È la stessa scissione avvertita dal protagonista di «Dormi, amore mio», che vive una relazione in crisi con la donna che ama da quando è adolescente, o dall’architetto deluso della «Pietra del gigante», che si sente la marionetta di uomini ricchissimi e ancora più avidi: può esistere davvero un sentimento profondo e sincero in una società così satura di cose superflue? Con slancio civile e politico e la prosa lucida del grande narratore, Magnason sembra cercare la soluzione in una forma di amore che si nasconde nei gesti più semplici e non richiede spiegazioni: le mani di un bambino che frugano tra i Lego per trovare quelli più colorati, un vecchio che mostra al nipote una sterna artica, una ragazzina che salva un bombo dalla morte tra i ghiacciai. 


L'incipit
Avevo trovato un bombo in un mucchio di neve sporca e lo avevo messo in una scatola di fiammiferi. Nessuno l’aveva notato, del resto non te lo aspetti, un bombo, su montagne dove non cresce quasi nemmeno un filo d’erba. Era l’unico essere vivente che vedevo da giorni e avevo sentito di doverlo salvare. L’insetto cominciò a sbattere le ali e la scatola di fiammiferi che tenevo sul palmo vibrava come un piccolo rasoio. Era un buon segno, in effetti, perché poche ore prima sembrava moribondo, ma adesso ero preoccupata, il bombo sarebbe potuto morire dentro la scatola prima che riuscissimo a trovare un posto sicuro in cui liberarlo. Asciugai la condensa all’interno del finestrino e guardai fuori. Non c’era niente da vedere, soltanto distese di sabbia nera, campi di lava e crateri, il cielo era coperto e di sicuro non c’erano più di cinque gradi. Papà disse qualcosa ma io non riuscii a sentirlo, eravamo a bordo della nuova Volvo Laplander, detta Lappi, che praticamente era una specie di trattore, un avanzo dell’esercito norvegese importato in Islanda nel 1981. Era a forma di scatola, con il motore sotto l’abitacolo e coperto da una lastra di ferro rivestita che divideva i sedili anteriori, e faceva un gran baccano. Era spaziosa e aveva due file 8 di sedili posteriori. Mio fratello si era sdraiato sulla prima e io stavo dietro e venivamo sbatacchiati a destra e a sinistra quando la macchina sobbalzava sulle strade più dissestate. Avevo trovato un modo per ammorbidire il viaggio, mi ero creata una specie di crisalide impilando bagagli e sacchi a pelo tutt’intorno a me e tirandomi un plaid sopra la testa. Così potevo rannicchiarmi al buio e ascoltare la radio, perché l’altoparlante posteriore della macchina era dentro il bozzolo. Papà teneva sempre la radio accesa anche se raramente riuscivamo a sentirla, tra il rumore del riscaldamento, quello del motore e i disturbi di ricezione lassù negli altipiani. Sentivo stralci di previsioni meteorologiche, di lettura della Bibbia, di radiodrammi, qualche notizia sugli scioperi, qualcosa su un sottomarino nell’arcipelago svedese, sulle trattative sul disarmo e sui progetti per lo scudo spaziale, ma soprattutto sentivo un gran fruscio ronzante. Però anche i fruscii sembravano seguire uno schema, come se ogni tanto le oscillazioni avessero un ritmo. Sapevo che le onde radio erano invisibili e le immaginavo come quelle del mare, immaginavo che il fruscio s’infrangesse contro l’auto allo stesso ritmo della risacca. Me ne stavo nel mio bozzolo al buio e sentivo l’auto avanzare fendendo il rumore che colpiva il parabrezza, si ritirava e tornava a infrangersi. A volte il fruscio era seguito da una parola o una musichetta, e allora immaginavo che le canzoni e le parole fossero come i pesci che nuotavano in quel mare.
 
L'autore

Andri Snær Magnason, narratore, poeta e drammaturgo, nato nel 1973, da molto tempo è impegnato anche nella divulgazione scientifica e nell’attivismo ambientale. Per commemorare pubblicamente il primo ghiacciaio islandese scomparso, nel 2019 ha lasciato al suo posto questa lapide, una «Lettera al futuro»: «L’Okjökull è stato il primo ghiacciaio islandese a perdere il titolo di ghiacciaio. Nei prossimi duecento anni tutti i nostri ghiacciai potrebbero seguire la stessa sorte. Questo monumento è la testimonianza che sappiamo cosa sta avvenendo e cosa bisogna fare. Solo voi sapete se lo abbiamo fatto.» Iperborea ha pubblicato Il tempo e l’acqua, che ha ricevuto il Premio Terzani 2021, e La storia del pianeta blu, vincitore del Premio Letterario Islandese (assegnato per la prima volta a un libro per bambini), il Premio Janusz Korczak 2000 e il West Nordic Council’s Children and Youth Literature Prize 2002.


sabato 28 settembre 2024

Raphaël Meltz - 24 VOLTE LA VERITÀ - Prehistorica


Raphaël Meltz 
24 VOLTE LA VERITÀ
(titolo originale 24 fois la vérité, 2021)
Traduzione di Alice Laverda
Prehistorica Editore, collana Ombre lunghe
settembre 2024
pp. 260, euro 18
ISBN 9788831234269

 
C’è Gabriel, un cineoperatore che ha percorso tutto il Novecento con l’occhio incollato dietro la sua macchina da presa: dal funerale di Sarah Bernhardt all’11 settembre 2001 passando per la Pace di Parigi, nel 1919, sarà stato il testimone muto di un mondo caotico e vertiginoso. C’è Adrien, suo nipote, un giornalista specializzato in quelle cose digitali che ormai invadono le nostre vite. E c’è il romanzo che Adien ha deciso di scrivere attorno alla figura del nonno. 
In ventiquattro capitoli, raccontare una vita. Ventiquattro capitoli come le ventiquattro immagini che costituiscono ogni secondo di un film. Ventiquattro capitoli per tentare di cogliere la verità.
Cosa resta di chi non è più tra noi? Cosa si può dire di conoscere di ciò che si è visto ma non vissuto? Cosa fare, al giorno d’oggi, di tutte queste immagini?

L'incipit
– Si ricordi però che è da un pezzo ormai che siamo nel ventunesimo secolo. 
Scrivo si ricordi, ma mi parlava in inglese, e non so dire se in realtà mi dava del tu per essere informale o se mi dava del lei per mantenere quella freddezza professionale tipica degli incontri che si fanno in congressi come questo. Io non lo so, ma lui nemmeno: un anglofono non si chiede se sta dando del tu o del lei a qualcuno, si rivolge a tutti con lo stesso you, un po’ come noi francofoni non pensiamo che in lingua maya si usino verbi diversi per dire toccare con un dito, toccare con due dita, toccare con tre dita, toccare con tutta la mano. Noi diciamo semplicemente toccare, e ci accontentiamo. Ci accontentiamo di tante cose in verità. Las Vegas. Nell’articolo che è davvero ora che mi metta a scrivere sul Consumer Electronics Show (CES), come ogni anno da ormai undici anni vengo qui per scrivere l’articolo specialistico che poi venderò al miglior offerente tra i giornali che ne vogliono parlare (e ne vogliono parlare tutti), andrò a recuperare i soliti vecchi cliché sulla città folle, le luci al neon esagerate, la Strip, il grande boulevard «centrale», gli hotel e i casinò, venderò un po’ di glamour di scenografia, un po’ di eccitazione di contesto prima di parlare dei nuovi telefoni che saranno nelle mani degli americani tra qualche settimana, dei francesi tra qualche mese – ma per adesso, prima dell’irsuto racconto, la glabra realtà: all’Hotel Luxor (anch’esso, ovviamente, un casinò), il bar è un’immensa terrazza con una vista smisurata sull’orrenda e aberrante città delle Praterie, tutta luci, certo, ma luci aggressive, luci spiacevoli, rosse che trasudano la vacuità del gioco e gialle che celebrano il nulla consumistico, neon che brillano solo agli occhi di chi crede che il successo si misuri in chilowatt, in chilometri, in chilodollari. Prendo un whisky doppio che farò passare in conto spese, mi conviene, 8 costa 29 dollari, e cammino verso le finestre, c’è gente, tantissima, a Las Vegas durante il CES c’è gente perennemente e dappertutto, al bar del Luxor ci sono dei tavolini alti con alcuni sgabelli liberi ma c’è sempre almeno una persona seduta, a volte un gruppetto, più spesso gente sola, in maggioranza uomini, uomini soli o a coppie ma allora è una solitudine condivisa, non si parlano, sono connessi ad altri mondi, ad altri affari, ad altre sfide, sfide ridicole in confronto al reale procedere del mondo, ma che a loro sembrano cruciali. Mi sistemo a un tavolino di fronte a un tizio solitario alto e magro immerso nel suo smartphone. Qui gli esseri umani hanno la pelle azzurra. Potrei chiamarli blueskin, sempre con un telefono in mano (spesso due, a volte tre, ma con due sole mani la cosa è ancora un po’ complessa), hanno il viso incorniciato da un alone azzurrognolo la cui assenza pare quasi sospetta (succede, in generale si tratta di nerd patentati che hanno installato un filtro anti luce blu), ma questo tizio alto e magro ha il viso di mille colori, tinte che cambiano in continuazione con effetto stroboscopico che si direbbe volontariamente ricercato, bevo un sorso di whisky e lo guardo con aria interessata ma non troppo, se ne sta chino sullo schermo in maniera particolare, non come tutti gli altri, intorno a noi, non come qualcuno che guarda una foto su I. o una storia su S. o un video su Y., lui guarda il suo telefono come se lì stesse succedendo altro.

L'autore
Raphaël Meltz (1975) è uno scrittore raro, estremamente eclettico. È autore di svariati racconti, saggi e romanzi; per un fumetto, è stato recentemente premiato al Festival ’Angoulême. Ha cofondato e codiretto la rivista “R deréel” e il magazine “Le Tigre”. Dal 2013 al 2017 ha prestato servizio come addetto culturale presso l’Ambasciata di Francia in Messico. Significative le parole di Frédéric Martin, il suo editore francese (Le Tripode): “Meltz è un Don Chisciotte, una persona dal bagaglio intellettuale molto vasto, che ora potrebbe trovarsi negli uffici ministeriali o seduto a una cattedra universitaria, ma che ha scelto una forma di resistenza.”

La traduttrice

Alice Laverda è nata a Bassano del Grappa nel 1989. Si è laureata in Traduzione Letteraria all'Universitè Aix-Marseille, in Linguistica e Traduzione all'Università di Pisa.

venerdì 27 settembre 2024

Wang Xiaobo - L’ETÀ DELL’ORO - Carbonio

 
Wang Xiaobo
L’ETÀ DELL’ORO
(titolo originale Huangjin Shidai, 黄金时代, 1994) 
Traduzione di Alessandra Pezza
A cura di Patrizia Liberati 
Carbonio Editore
Collana Cielo Stellato
settembre 2024
pp. 264, € 21
ISBN 9791280794413


Nel 1971, in piena Rivoluzione Culturale, il ventunenne Wang Er viene mandato dalla natia Pechino nella remota regione dello Yunnan per un periodo di rieducazione, lavorando a fianco dei contadini e depurandosi di qualunque scoria borghese.
Assegnato alla squadra di produzione numero quattordici, a valle, il giovane è preso di mira dal caposquadra che sospetta gli abbia accecato la cagna, e per questo lo obbliga a svolgere le mansioni più faticose, come tra­piantare germogli di riso stando chino gran parte della giornata. Troppo per chi è alto un metro e novanta come Wang Er, che infatti si infortuna alla schiena. Viene chiamata a provvedere alle necessarie cure mediche la dottoressa Chen Qingyang, impiegata nella squadra numero quindici su in montagna, nota per sberle poderose, e con un marito in prigione.
Wang Er e Chen Qingyang stringono una profonda amicizia – simile, per spirito, a quella dei cavalieri erranti delle leggende di epoca Tang, che ben presto implica anche la comunione dei corpi. La rieducazione si trasforma per i due in un’iniziazione sessuale travolgente, vissuta in clandestinità sulle montagne. Quando la polizia del popolo scopre la relazione illecita, la coppia è accusata di corruzione morale e comportamenti lascivi, nonché di essersi nascosta oltreconfine; Wang Er e Chen Qingyang vengono costretti a scrivere delle lunghe confessioni, infarcite di dettagli scabrosi a uso e consumo delle autorità. 
Intanto Chen Qingyang vorrebbe qualcosa di più serio da Wang Er, persino un figlio, ma il giovane si ritrae.
Concluso il periodo di rieducazione, i due si perdono di vista. Di nuovo a Pechino, Wang Er termina gli studi e lavora in università come insegnante di microbiologia e responsabile di laboratorio.
Gli anni Ottanta scorrono in un’atmosfera di mediocrità e rassegnazione – «la società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque». Tra servilismo, insubordinazioni, promiscuità, Wang Er ripensa al suo passato e a quello delle persone a lui vicine, un passato fatto di pestaggi e suicidi, sorveglianza, delazioni, ma anche di amore, amicizia, spontaneo eroismo e audaci fughe dalla realtà.
La storia si sviluppa lungo tre archi temporali – l’età dell’oro, quella dei vent’anni, l’età delle ambizioni, i trent’anni, l’età delle certezze, i quarant’anni – contraddistinti dall’incontenibile sessualità del personaggio Wang Er.
L’uso che Wang Xiaobo fa del sesso travalica però la mera trasgressione per diventare anche strumento di sovversione contro l’insopportabile ingerenza del potere politico. L’erotismo si rivela l’arma più efficace per ribellarsi a un sistema che ha fatto del controllo sociale il suo cardine, e liberarsi dalla pesantezza di rituali burocratici grotteschi.
A dispetto di un’atmosfera oppressiva ritmata dall’imperativo della purificazione ideologica – le giornate dell’igiene patriottica, le campagne per la rettifica di classe, le sessioni di lotta per scuotere il pensiero, animate dai comitati (comitati centrali di partito, di quartiere, di propaganda operaia, sportivi) – e di una quotidianità vissuta sempre sull’orlo della catastrofe, la figura di Wang Er non cede alla disperazione, tantomeno vi cede Wang Xiaobo, suo creatore e alter ego.
Attorno a Wang Er si muovono altri personaggi iconici e sopra le righe – la moglie insoddisfatta, l’amante svampita, la donna inarrivabile, il rettore cortigiano, l’assistente scapestrato, la madre impicciona, il padre arcigno, l’accademico esemplare, l’accademico tormentato. Un humus esasperato, che la scrittura dell'autore esalta per mezzo di espressioni e similitudini crudamente triviali, scintille poetiche sorprendenti e un umorismo nero costante con impennate di schietto giubilo.
Alieno da ogni patetismo, Wang Xiaobo marca la sua netta distanza dalla corrente letteraria predominante durante il grande caos post-Mao della fine degli anni Settanta, quella “letteratura cicatriziale” che affrontava il trauma della Rivoluzione Culturale – la “cicatrice” – ricorrendo a una cifra angosciosa, e che produsse un’abbondanza di dolorosi resoconti autobiografici, pubblicati però solo con l’approvazione dei funzionari statali e solo su riviste governative ufficiali. Viceversa, Wang Xiaobo mostra tutta la sua possente individualità letteraria, sia immaginifica che stilistica, attraverso una vis dissacrante e una propensione satirica senza precedenti.
È il romanzo L’età dell’oro a sancire la consacrazione letteraria di Wang Xiaobo. L’autore impiega vent’anni per finirlo, al prezzo di numerose riscritture. La versione originale cinese viene pubblicata prima a Taiwan, nel 1991, e poi in Cina, nel 1994. 

Wang Xiaobo non è stato soltanto uno scrittore, né soltanto un autore di culto che ha spopolato nei dipartimenti universitari. È stato un “fenomeno” nella Storia della letteratura del Novecento, non circoscritta a quella est-asiatica, e con L’età dell’oro ha raggiunto l’apice della sua creatività. Il romanzo trabocca di un’energia farsesca sfolgorante, dove ogni cosa – eros e thanatos, luce e ombra, esultanza e malinconia, umiliazione e dignità, ironia e gravità – è destinata a disperdersi e a ricomporsi di continuo.
E se oscenità c’è nell’Età dell’oro, questa non è data dallo stato di incessante eccitazione del protagonista, ma dalla presenza di un’autorità priva di qualsiasi autorevolezza.

Tradotto in inglese, francese, tedesco, danese, spagnolo, persino in arabo, L’età dell’oro è rimasto inaccessibile ai lettori italiani per gli oltre trent’anni successivi alla pubblicazione taiwanese. Questa prolungata e inspiegabile trascuratezza viene finalmente meno grazie all’edizione italiana per i tipi di Carbonio Editore, che ha affidato il compito a due sinologhe di vaglia. Alessandra Pezza (per la traduzione) e Patrizia Liberati (per la cura) hanno raccolto la sfida con entusiasmo licenziando un testo di vivida accuratezza. 


L'incipit
Avevo ventun anni quando mi mandarono in una squadra di produzione nella provincia dello Yunnan come giovane istruito1 . Chen Qingyang ne aveva ventisei e faceva il medico nella stessa zona. Io appartenevo alla squadra numero quattordici, a valle, lei alla quindicesima, su in montagna. Un giorno venne da me per spiegarmi perché non era una ‘scarpa sfondata’, cioè una sgualdrina. All’epoca la conoscevo appena. La sua argomentazione era la seguente: nonostante tutti la ritenessero tale, lei non lo era. Quel genere di donne ruba i mariti alle altre, lei non l’aveva mai fatto. Anche se suo marito era in prigione già da un anno, lei non aveva cercato nessun altro, né se l’era trovato prima. Mai. Quindi non riusciva a capire come fossero nate quelle dicerie. Rassicurarla non sarebbe stato difficile. Avrei potuto affidarmi alla logica: se davvero Chen Qingyang fosse stata una sgualdrina, sarebbe dovuta esistere almeno una persona con cui l’aveva fatto. Ma visto che tale persona non era identificabile, l’accusa non stava in piedi. Tuttavia mi ostinai a dire che sì, senza ombra di dubbio: lei era decisamente una scarpa sfondata. L’idea di chiedermi di testimoniare in suo favore le era venuta quando ero andato a farmi fare le iniezioni. La cosa era andata in questo modo: durante il picco del lavoro agricolo, anziché mandarmi ad arare i campi, il caposquadra mi aveva messo a trapiantare i germogli di riso, ed ero costretto a passare le giornate piegato in due. Chi mi conosce sa che ho avuto un infortunio alla schiena e, oltretutto, sono alto più di un metro e novanta.
Dopo un mese di quell’andazzo, soffrivo talmente che senza una puntura di procaina non sarei riuscito a chiudere occhio. Nella nostra infermeria usavano una siringa dall’ago curvo e spuntato, che mi uncinava la pelle. Dopo un po’, la mia schiena era talmente coperta di piccole cicatrici indelebili che sembrava crivellata da un fucile a piombini. A quel punto mi ero ricordato che alla squadra numero quindici lavorava una dottoressa laureata all’Università Medica di Pechino, che probabilmente era in grado di distinguere un ago da un amo. Così ero andato a cercarla. Meno di mezz’ora dopo, me l’ero ritrovata in casa a chiedermi di testimoniare per lei. Chen Qingyang non aveva nulla contro le sgualdrine. Dal suo punto di vista, erano persone buone e generose che non amavano deludere le aspettative altrui. In un certo senso le ammirava anche. Il problema non stava in cosa pensasse delle ‘scarpe sfondate’ ma nel fatto che lei non lo era, nella maniera più assoluta. Un po’ come un gatto di sicuro non è un cane. Quale gatto non si dispiacerebbe, a sentirsi dare del ‘cane’? Essere definita ‘scarpa sfondata’ la mandava fuori di testa perché le sembrava di non riconoscersi più. Si presentò nella mia capanna di paglia nella sua divisa da infermiera, che lasciava le braccia e le gambe nude: la stessa tenuta che portava in ambulatorio, con l’unica differenza che adesso aveva raccolto i lunghi capelli con un fazzoletto, e ai piedi aveva un paio di ciabatte. Quando la vidi così, mi venne spontaneo domandarmi se indossasse qualcosa sotto il camice, oppure niente del tutto. Come potrete intuire dal fatto che non le importasse granché dell’abbigliamento, Chen Qingyang era molto bella. Aveva una sicurezza in se stessa che si portava dietro fin da ragazzina. Le dissi che, a mio parere, era definitivamente una ‘scarpa sfondata’ e per una serie di ragioni. “Per prima cosa, quella di ‘scarpa sfondata’ è una semplice etichetta. Se tutti ne sono convinti, vuol dire che lo sei e non c’è altro da spiegare. La gente dice che vai in giro a rubare gli uomini, e questo significa che lo fai, punto e basta. Quanto al perché, ti dico la mia: la gente pensa che una donna sposata non abbia un amante soltanto quando ha la pelle scura o il seno cadente. Tu hai una pelle bianchissima e un seno turgido e sodo. Di conseguenza, non puoi che essere una scarpa sfondata. Se vuoi che smettano di dirlo, scurisciti la faccia e fatti venire le tette mosce, così smetteranno di chiacchierare. Però sarebbe una bella perdita, lo ammetto. C’è un’unica soluzione: fatti un amante. Così sarai una sgualdrina, ma per scelta. Non è compito degli altri accertare se hai un intrallazzo prima di decidere come chiamarti. Casomai sta a te impedire che alle persone venga l’idea di affibbiarti quell’appellativo”. A quelle parole, Chen Qingyang arrossì e sgranò gli occhi per la rabbia, come se fosse sul punto di mollarmi un ceffone. Era famosa per le sue sberle poderose, le aveva fatte assaggiare a parecchia gente. Invece si afflosciò e disse: “D’accordo, vorrà dire che sono una scarpa sfondata. Ma seno cadente o sodo, pelle scura oppure chiara, non sono affari tuoi”. Poi aggiunse che se avessi continuato a pensarci, prima o poi uno schiaffone me lo sarei beccato di sicuro.
 
L'autore

Nato nel 1952 a Pechino da una famiglia di intellettuali – il padre è uno stimato professore universitario di Logica –, Wang Xiaobo è il grande outsider della letteratura cinese contemporanea, un autore seminale e una voce imprescindibile per capire la Cina degli ultimi cinque decenni.  Mosso da un cieco idealismo, a sedici anni trascorre un periodo di rustificazione nello Yunnan, esperienza comune a milioni di giovani istruiti della sua generazione, sufficiente però a fargli abbandonare ogni illusione. Tornato a Pechino, lavora come operaio fino all’ammissione, nel 1978, all’Università del Popolo, dove studia Economia. Si è intanto sposato con Li Yinhe, prima sociologa cinese impegnata nello studio della sessuologia. La coppia vive alcuni anni negli Stati Uniti dove Wang Xiaobo consegue una laurea specialistica all’Università di Pittsburgh e intanto assorbe la lezione del Foucault di Storia della sessualità – il sesso è la causa di tutte le circostanze della vita individuale così come governa l’esistenza sociale nel suo insieme.
Con la moglie collabora alla stesura de Il loro mondo, il primo studio di argomento omosessuale in Cina. Rientrato in patria nel 1988, insegna all’Università fino alle dimissioni, nel 1992, per dedicarsi a tempo pieno alla letteratura come scrittore indipendente, vivendo dei soli proventi dei suoi libri.
Wang Xiaobo lavora alla sceneggiatura di quello che diventerà il primo film della Cina continentale a tematica queer, East Palace, West Palace (1996), successo internazionale diretto dal regista Zhang Yuan.
Due volte vincitore del prestigioso United Daily News Award for Novel, tra le opere di Wang Xiaobo ricordiamo la “Trilogia delle età” – di cui fa parte L’età dell’oro – e le raccolte di saggi A Maverick Pig e The Silent Majority. Oltre a L’età dell’oro, in Italia è uscito il saggio Il significato dell’arte (Oedipus, 2017).
Wang Xiaobo è morto a Pechino, nel 1997.
Li Yinhe è ancora attivissima per i diritti LGBTQIA+.

mercoledì 25 settembre 2024

Andrés Montero - L'ANNO IN CUI PARLAMMO CON IL MARE - Edicola Ediciones

 
Andrés Montero
L'ANNO IN CUI PARLAMMO 
CON IL MARE
(titolo originale El año en que hablamos con el mar,  La Pollera 2024)
traduzione di Giulia Zavagna
Edicola Ediciones, collana ñ
settembre 2024
pp. 264, euro 18
ISBN 978-88-99538-16-3

"Ci sono parole che non rivelano il loro profondo significato nel momento in cui vengono pronunciate. Parole che si gonfiano come le nuvole, pof, pof, pof, in lontananza, lontano da chi le ha ascoltate e a volte anche da chi le ha pronunciate; lontano continuano a ingrossarsi mentre la vita continua e le persone passano e altre parole pure passano, parole che magari si completano e scoppiano non appena escono di bocca perché non celavano altro mistero che la somma delle loro lettere, puffff, si dissolvono nell’orecchio, spariscono come la schiuma del mare, mentre le altre, quelle invisibili, quelle gigantesche, quelle che credevamo non celassero altro mistero che la somma delle loro lettere, hanno continuato a crescere, finché non ce la fanno più e allora cadono come un diluvio sulla memoria, facendo scoppiare il tempo."
 
Un’isola che non appare sulla mappa, un patto col diavolo, una campana d’oro che suona dal fondo del mare, un cimitero senza corpi, una taverna che un tempo è stata nave e ora ospita le serate di una tranquilla comunità, fino al giorno in cui l’isola annuncia il ritorno di Jerónimo Garcés, che dopo cinquant’anni in giro per il mondo torna a far visita al fratello gemello Julián. Dopo qualche giorno, i due capiscono che è impossibile ritrovare la complicità che li aveva accompagnati da ragazzi, ma una pandemia impedisce a Jerónimo di ripartire. Sarà l’isola, attraverso la voce dei suoi abitanti, a farsi carico della loro storia, raccontandone il passato, spiandone i segreti e tessendo la trama di una possibile riconciliazione.
Con la sua scrittura intima e commovente, L’anno in cui parlammo con il mare è uno straordinario racconto corale sulla fugacità del tempo, sulla vita che abbiamo vissuto e su quelle a cui abbiamo dovuto rinunciare, su chi siamo e su chi avremmo potuto essere, su quali storie vale la pena ascoltare, raccontare o tacere in questo breve viaggio che chiamiamo vita.

Andrés Montero (Santiago del Cile, 1990) è scrittore e narratore orale, co-fondatore della compagnia teatrale La Matrioska. È autore di libri per ragazzi e adulti. Ha vinto il X Premio Iberoamericano de Novela Elena Poniatowska, il Premio Marta Brunet, il Premio Municipal de Literatura, il Premio Pedro de Oña e il Premio Círculo de Críticos de Arte. I suoi libri sono pubblicati in Cile, Argentina, Spagna, Grecia e Danimarca. In Italia, Edicola Edizioni ha tradotto il suo primo romanzo Tony Nessuno (2018) e la raccolta di racconti La morte goccia a goccia (2022). È direttore della Scuola di letteratura e tradizione orale Casa Contada.

lunedì 23 settembre 2024

Ad Alghero il V Forum nazionale sull’editoria regionale: il 26 e 27 settembre il settore si interroga sulle strategie future. E da mercoledì 25 i nuovi eventi del Festival “Mediterranea”

 

“Politiche editoriali in campo nazionale e regionale” è il tema della quinta edizione di “Tutti i libri del mondo”, il Forum nazionale sull’editoria regionale che torna ad Alghero il 26 e 27 settembre. L’evento, in programma tra l’Hotel Catalunya e la Fondazione Alghero, riunisce i rappresentanti di ADEI, l’Associazione italiana degli editori indipendenti, e delle associazioni territoriali di settore. L’appuntamento sarà l’occasione per un confronto e uno scambio diretto tra gli organismi regionali presenti in tutta Italia che da ormai da tempo hanno deciso di avviare un percorso comune. In particolare, si discuterà delle direttive nazionali e regionali adottate in sostegno alle attività delle case editrici, alla partecipazione alle fiere e manifestazioni editoriali di rilevanza nazionale e internazionale. Lo scopo della riflessione è quello di favorire una maggiore coesione territoriale tra gli editori e sviluppare un quadro normativo interregionale che possa perfezionare i futuri auspicabili interventi del Governo e delle Regioni sulle politiche editoriali.
L’incontro – organizzato da ADEI e AES, Associazione degli editori sardi nell’ambito del Festival “Mediterranea. Culture. Scambi. Passaggi” – sarà diviso in due parti. Giovedì 26 settembre dalle 17,30 all’Hotel Catalunya è prevista la tavola rotonda “Politiche editoriali in Italia in campo nazionale e regionale: norme di settore, linee di intervento e azioni”. Parteciperanno il presidente di ADEI Andrea Palombi, la presidente AES Simonetta Castia, il consigliere ADEI sulle politiche regionali e territoriali Alberto D’Angelo, la presidente Editori veneti Chiara Finesso, il consigliere dell’Associazione editori Friuli Venezia Giulia Martina Kafol, il presidente di Edi.Marca-Associazione editori marchigiani Mauro Garbuglia, il presidente dell’Associazione editori pugliesi Livio Muci e il presidente dell’Associazione siciliana editori Salvatore Granata. La mattina di venerdì 27 settembre, dalle 9,30, la sala conferenze della Fondazione Alghero ospiterà il workshop operativo in cui i rappresentanti trarranno le conclusioni della tavola rotonda, formulando le proposte degli editori nei confronti delle istituzioni per programmare le azioni da intraprendere per il futuro del comparto.

Il Festival “Mediterranea. Culture. Scambi. Passaggi”, al cui interno è inserito il Forum, prosegue inoltre con le sue attività di promozione della lettura. Mercoledì 25 settembre alle 18,30 la libreria Cyrano in via Vittorio Emanuele II 11 ad Alghero ospita la presentazione del libro Verso Caprera. Sulle tracce di Garibaldi di Gordon Pincott (Paolo Sorba editore). All’incontro con l’autore parteciperanno Gian Luca Moro, coordinatore dei Musei Garibaldini e Massimiliano Fois, direttore del MASE. L’evento è in collaborazione con i Musei Garibaldini e l’Istituto internazionale di studi “Giuseppe Garibaldi”.
La settimana successiva il Festival ospiterà l’autore Sante Bandirali che il 1° ottobre alla libreria Koiné di Sassari in via Roma 137, partner dell’iniziativa, e il 2 ottobre alla libreria partner Cyrano di Alghero presenterà il suo primo romanzo, Papiro, edito da Marcos y Marcos nel maggio scorso. A Sassari l’autore dialogherà con Lorena Piras, ad Alghero con Raffaele Sari. La mattina del 2 ottobre alle 11, inoltre, al Teatro Astra di Sassari Bandirali replicherà il reading-spettacolo Un talento splendente - Omaggio a Siobhan Dowd(uovonero edizioni), in collaborazione con la Compagnia teatrale La botte e il cilindro. L’evento è rivolto agli studenti dai 12 anni in su. Sante Bandirali, traduttore e autore, ha vinto, tra gli altri, il Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2020 per la traduzione del romanzo Una per i Murphy di Lynda Mullaly Hunt.

mercoledì 18 settembre 2024

L'editore Il ramo e la foglia intervista l'autore: Michele Di Tonno

 

Ciao Michele, sta per uscire con noi, Il ramo e la foglia edizioni, il tuo libro d'esordio in versi "Una tregua sottile", potresti presentarti brevemente a quelli che ancora non ti conoscono?Buongiorno, sono un amante dell'arte, sono nato e vivo a Roma, navigo nella seconda età adulta, ho un lavoro come altri.
Ho sempre amato l'arte, fin da giovane. Quando avevo ventiquattro anni, andai in vacanza a Parigi con la mia ragazza e notammo un cartello su cui era scritto: entrata gratuita "Museo Rodin". Non ci sfuggì l'aggettivo. Entrammo e rimasi folgorato.
Ho studiato scultura del legno, fotografia, pittura.
Ho dipinto per molti anni, poi nel 2018 ho avvertito l'esigenza di scrivere.
Per me è così: le cose maturano internamente, poi un giorno bussano alla porta.

Tu sei un pittore, perché questo sconfinamento espressivo nella poesia? C'è un denominatore comune tra le due dimensioni artistiche?
È un interrogativo che mi sono rivolto spesso; la verità è semplice, ho percepito un'istanza interna e ho deciso di darle una possibilità, di arrendermi a me stesso. Il pensiero era, e lo è tuttora, di immergere la pittura nella parola.
Poi non è un fatto così insolito, ci sono molti artisti che hanno scritto e dipinto.
Nella mia idea sono molti i punti di incontro, potrei citare la dimensione interna di fantasia, l'interesse per una comunicazione profonda, il racconto per immagini, l'equilibrio tra il detto e il non detto, una certa magia.
Penso che avere in copertina un mio quadro, sia stato un grande regalo da parte dell'Editore; mi piace pensare che la pittura possa essere una porta d'ingresso ai miei versi.

Riguardo alle tue letture, quali sono gli autori o i titoli che ti hanno appassionato, che in qualche modo possono averti influenzato, in relazione alla pittura ma anche, soprattutto, in relazione alla scrittura di queste tue poesie.
Non vorrei fare citazioni, sento che inevitabilmente fornirei una visione parziale; penso che ogni lettura mi influenzi, a volte per differenza.
Molto spesso trovo ispirazione nella prosa.

Qual è la cifra compositiva-stilistica a cui ti attieni? Hai dei modelli?
Considero lo stile un'espressione di personalità; Rimbaud ha scritto che il primo studio dell'uomo che vuole essere poeta, è la propria conoscenza.
Poi, non amo gli orpelli, le enfasi, gli insegnamenti, e mi sento più a mio agio in una metrica libera.
La maggior parte delle poesie della raccolta sono brevi, i versi non particolarmente lunghi.
Condivido quanto afferma la Professoressa Annamaria Vanalesti nella postfazione: "la misura scelta dal poeta è quella minima, di suoni semplici e rapidi, di sfumature appena accennate, di motivi spesso sottintesi, di un linguaggio parco e volutamente mai del tutto esplicito."

Cosa ti ha spinto a scrivere "Una tregua sottile"? Perché questo titolo? Quali sono i temi che tratti?
 La decisione di scrivere va inserita in un processo di ricerca personale, artistica e umana, sempre orientata alla relazione.
La scelta del titolo non è stata semplice, ha avuto una gestazione lunga. Viviamo in un mondo che ci costringe spesso a ritmi frenetici e il titolo mi sembra un invito a sapersi ricavare delle pause rigenerative, dei momenti di evasione, ma anche di riposizionamento.
Ho amato l'intuizione della Professoressa Vanalesti quando scrive che la mia tregua sottile è la poesia.
La raccolta è ampia, tocca varie tematiche di vita: amori possibili, delusioni, solitudini, piccoli spaccati di società.
Ho perseguito un'idea di fluidità nel posizionamento delle singole poesie all'interno della raccolta, alternando situazioni di maggiore o minore leggerezza, affinché la lettura possa scorrere piacevolmente.

Quanto tempo ci hai messo a scrivere questo libro? Ci racconti la sua genesi?
 Tutto inizia nel 2018 quando pensai di scrivere una lettera di Natale a mia figlia. Non ne fui capace, tagliavo, tagliavo, e più tagliavo più pensavo che fosse la poesia il genere a me più congeniale. Ho iniziato a scrivere poesie.
Per avere un riscontro sulle poesie che andavo componendo, ho partecipato a diversi concorsi e i positivi risultati mi hanno incoraggiato a continuare. Successivamente ho partecipato con delle sillogi, e sono seguite alcune offerte di pubblicazione. Non mi sentivo ancora pronto.
Poi ho avuto l'occasione di incontrare Il ramo e la foglia edizioni.
La lettera che non ho mai scritto a mia figlia si è trasformata nella dedica inserita nelle prime pagine del libro.

Questo è, come detto, il libro di un esordiente: che cosa ti aspetti da questa tua pubblicazione?
 Il proprietario di una libreria romana mi ha detto: leggerò i tuoi versi per vedere se mi arrivano. Non ho aspettative, ma la speranza che i versi possano arrivare. Sarei felice se la lettura fosse anche dialogo interiore.
Poi, certo, mi auguro che il libro possa raggiungere una buona diffusione.

Ci sono dei lettori a cui pensi che il libro possa particolarmente interessare?
Consiglierei il libro alle persone che amano fermarsi a sentire, a sentirsi.
Alle persone che amano le cose semplici, autentiche.

Cosa può convincere un lettore incerto a leggerti?
Non conoscendo il motivo dell'incertezza, gli direi che la poesia è un luogo in cui ritrovare sé stessi.

Hai qualcosa da aggiungere?
 Colgo l'occasione per ringraziare la casa editrice Il ramo e la foglia edizioni, nelle persone di Roberto Maggiani e di Giuliano Brenna, l'amico Ludovico Lo Casale che ci ha fatto incontrare, la gentile Professoressa Annamaria Vanalesti che mi ha onorato della sua postfazione, tutte le persone che mi sono state vicino.

Franco Cardini - COME PRAGA DIVENNE MAGICA - Neri Pozza

 
Franco Cardini
COME PRAGA DIVENNE MAGICA
Neri Pozza
Collana I Colibrì
settembre 2024
pp. 208, Euro 20
ISBN 9788854528024



Praga città d’oro: il Ponte Carlo, il celebre orologio a carillon della Città Vecchia, l’imperatore-mago Rodolfo II, l’Arcimboldo e il Vicolo degli Alchimisti, la leggenda del Golem e il cimitero ebraico, la musica di Mozart e quella di Dvořák, L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera e gli incubi di Kafka, le viuzze e i caffè di Malá Strana, il sapore della miglior birra del mondo e quello della libertà nella Primavera del Sessantotto. Tutto ha inizio nel VI secolo, quando nell’area dell’Europa centro-orientale in cui erano insediate da un millennio genti celtiche della stirpe dei boi (per questo si sarebbe denominata in latino «Boemia») giunsero nuovi popoli che conosciamo come slavi. Qui affonda le sue radici la città che sarebbe divenuta «magica» e che avrebbe cominciato il suo lungo cammino di faro culturale europeo nell’anno 882 quando il principe slavo Bořivoj, che pretendeva di discendere dal mitico Přemysl fondatore della rocca sulla riva sinistra del fiume Vltava – primo nucleo della futura città –, costruì su un’altura della sponda opposta il Castello. Antico era anche un modesto insediamento presso il fiume, nell’area oggi nota come Malá Strana. Di fronte a esso, sull’opposta riva del fiume, si sviluppò poi un ampio mercato servito da un porto: da lì si sarebbe sviluppato lo Staré Město, la Città Vecchia. Divenuta importante centro commerciale nella seconda metà del X secolo, Praga entrò con l’intera Boemia nell’orbita dei re di Germania. L’acme della sua potenza venne raggiunto sotto il governo dei discendenti dei conti di Lussemburgo con Giovanni che, con la Bolla d’Oro del 1356, riordinò la prassi dell’elezione dei sovrani del Sacro Romano Impero istituendo il collegio dei sette principi elettori. Qui, dopo la crisi del Trecento, vennero gettati, con il predicatore Jan Hus, i prodromi della Riforma religiosa che si sarebbe più tardi imposta con Martin Lutero.

Franco Cardini è professore di Storia Medioevale presso l’Università di Firenze e professore emerito dell’Istituto italiano di Scienze Umane alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra i massimi storici europei del Medioevo, è autore di decine di libri di successo in gran parte dedicati a questo periodo storico.

martedì 17 settembre 2024

Pierluigi Battista - LA NUOVA CACCIA ALL'EBREO - Liberilibri

  
Pierluigi Battista
LA NUOVA CACCIA ALL'EBREO
Liberilibri, collana Altrove
settembre 2024
pp. 88, euro 14  
ISBN 979-12-80447-48-7


La nuova caccia all’ebreo di Pierluigi Battista, un pamphlet in cui il noto giornalista e scrittore raccoglie le sue riflessioni e i suoi scritti dal 7 ottobre 2023 in avanti.
È a partire da quella fatidica data che in Occidente ha preso il via una sorprendente e incessante caccia all’ebreo: Hamas ha lanciato un pogrom contro Israele uccidendo oltre mille civili e sequestrandone più di trecento. Un’ondata di antisemitismo, alimentata dal contrattacco israeliano a Gaza, si è abbattuta sul mondo intero: sinagoghe bruciate, studenti ebrei cacciati dalle università, passeggeri ebrei inseguiti negli aeroporti. L’autore passa così in rassegna gli eventi che si sono succeduti nell’ultimo anno e chiarisce le radici culturali di questo odio verso gli ebrei che, in Occidente, sembrava superato e sparito con la Shoah.
«È scoccato quel giorno l’inizio di una nuova, tragica storia della sensibilità e della mentalità collettiva, che ha perduto uno dei cardini fondamentali capaci di reggere l’ordine morale per almeno ottant’anni», scrive Battista. Una storia imprevista e terrificante «in cui la cultura democratica ha abdicato al suo ruolo, accettando passivamente lo scatenamento di una nuova caccia all’ebreo».
La cultura democratica di fronte a tutto ciò ha taciuto e continua a tacere, a non avere una reazione forte e l’autore si chiede, con grande preoccupazione, se ciò non voglia dire che l’antisemitismo, camuffato da antisionismo, non sia stato sdoganato: «Non eravamo uniti dal “mai più” declamato dai sepolcri imbiancati del Giorno della Memoria che oramai è soltanto un giorno senza più memoria?».

Pierluigi Battista tiene per «Huffington Post», e su tutte le piattaforme, il podcast quotidiano di libri e cultura Winston.

 

lunedì 16 settembre 2024

Alberto Abruzzese - DELLE COSE CHE NON SI SANNO SI DEVE DIRE - Infinito

Alberto Abruzzese
DELLE COSE CHE NON SI SANNO 
SI DEVE DIRE
Transmutazioni

Infinito Edizioni
2023
pp. 208, Euro 21
 

La società ha sempre più ristretto i margini di un dire contraddittorio, di un pensiero impossibile, di una presenza dell’inaudito. All’estrema complessità del presente, il sapere istituzionale va rispondendo con strategie comunicative volte a semplificare la complessità, escludendo tutto ciò che non può essere detto per il semplice fatto che non può essere semplificato. Viviamo un paradossale ribaltamento del pensiero positivo in pensiero nichilista: un rovesciamento che è frutto, non del pensiero apocalittico e irrazionale, ma di quello progressista, convinto di avere sovranità sulla tecnica e sulla natura. Ecco perché è arrivato il momento di dire le cose che si ritiene vadano civilmente taciute, responsabilmente oscurate. Forse la particolare assenza di responsabilità che infesta le nostre civiltà dipende non da un loro cedimento episodico, ma da un loro irreversibile svuotamento. Ecco perché conviene affiancare, senza alcuna mediazione dialettica, le cose che non si sanno alla consunta dicibilità delle cose che si sanno, delle cose socialmente riconoscibili.
 
 
Alberto Abruzzese è Professore Emerito di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università IULM di Milano. In precedenza ha insegnato anche all’Università di Roma La Sapienza e all’Università di Napoli Federico II. Ha svolto ricerche e consulenze per Telecom, Rai, Mediaset, Cnr e Ministero dei Beni Culturali. Saggista prolifico, è uno dei più importanti teorici dei media in Italia, autore di importanti studi sull’industria culturale e sull’immaginario collettivo.



domenica 15 settembre 2024

Carmel Cassar - CIBO MEDITERRANEO - Graphe.it

 
Carmel Cassar
CIBO MEDITERRANEO
Modi alimentari mediterranei: tendenze e sviluppi storici

(titolo originale Mediterranean Food. Mediterranean Foodways: Historic Trends and Developments)
traduzione di Carla Del Zotto
Graphe.it, collana Physis, 10
agosto 2024
pp. 212, euro 15,90
ISBN 9788893722292


Là dove finisce la nostra terraferma, inizia un “continente liquido” lungo i confini (le sponde) del quale culture alimentari diverse si incrociano e contaminano da millenni, paradossalmente senza mai davvero conoscersi a fondo: ogni popolo integra le suggestioni d’oltremare all’interno di tradizioni tenacemente coltivate e ne trae un universo culinario che appare coerente, appena lo osserviamo un po’ più da lontano.
A dare il carattere alla dieta mediterranea è primariamente il paesaggio: l’ulivo, per esempio, cresce su quasi tutta la linea costiera; lo stesso non può dirsi della palma da dattero, frutto che tuttavia arrivava e arriva nei mercati, insieme a spezie e ortaggi di ogni angolo del globo: qui traspare il contributo delle città portuali e delle loro dinamiche umane e alimentari, che si somigliano nei secoli, da Genova a Leptis Magna. Talvolta è stata la geopolitica a indirizzare il consumo di determinati prodotti o renderne difficoltoso l’approvvigionamento; in altre occasioni, scoperte come il pomodoro o il caffè hanno cambiato per sempre la lista della spesa delle famiglie.
Non è solo la scelta degli alimenti, infine, a identificare la cucina mediterranea, ma l’insieme di rituali e significati attribuiti al momento del pasto, tale da farci sentire a casa anche dove non comprendiamo l’idioma parlato.

Carmel Cassar è ordinario di storia culturale e direttore dell’Istituto di Studi Maltesi. Dopo la laurea in Storia europea e Letteratura italiana all’Università di Malta, è stato assistente di ricerca presso gli archivi della cattedrale di Malta per poi insegnare storia al St Edward’s College. Grazie a una borsa di studio del Cambridge Commonwealth Trust ha continuato gli studi in antropologia all’Università di Cambridge conseguendo un dottorato di ricerca in Storia culturale. 
Cassar ha contribuito allo sviluppo di una sezione etnografica presso il Dipartimento dei Musei pubblici maltesi, più tardi ribattezzato Heritage Malta. Già responsabile del Palazzo dell’Inquisizione a Vittoriosa, ha favorito la nascita dell'interesse nella ricerca storica del cibo mediterraneo e maltese, di cui dà contezza nel saggio Cibo mediterraneo. Modi alimentari mediterranei: tendenze e sviluppi storici (Graphe.it 2024). È Fellow della Royal Historical Society di Londra e della Cambridge Commonwealth Society, socio della Renaissance Society of America e membro a vita della Società Storica di Malta.
Diverse le sue pubblicazioni, tra cui, in italiano, Il senso dell'onore (Jaca Book 2002, tradotto in cinque lingue).
 


AA.VV. - LA PROSA ITALIANA TRA COMUNICAZIONE E INVENZIONE LETTERARIA - Franco Cesati

AA.VV. 
LA PROSA ITALIANA TRA COMUNICAZIONE E INVENZIONE LETTERARIA
Atti del XII Convegno internazionale di italianistica dell’Università di Craiova, 29-30 settembre 2022
a cura di Elena Pîrvu
Franco Cesati Editore
Collana: Quaderni della Rassegna, 236
settembre 2024
pp.  642, euro 48
ISBN 979-12-5496-144-5


Nelle tre sezioni che compongono il volume oltre cinquanta studiosi analizzano lo stato della prosa italiana tra comunicazione e invenzione letteraria. La sezione linguistica spazia dalla divulgazione spiritosa dei manuali Disney per ragazzi agli attualissimi principi di UX writing: la scrittura di microtesti per le interfacce di web e app. La sezione didattica dell’italiano consente approfondimenti sulla prosa minima che dia diritto alla scrittura e alla lettura degli adulti analfabeti. E in quel solco ben s’inserisce lo studio sulla scrittura di Gianni Rodari su scuola di democrazia per comunicare e inventare parole per costruire diritti linguistici. Infine la sezione letteratura attraversa varie stagioni: da Pietro Bembo, Marco Polo e il suo Milione, a Pasolini e Ammaniti per chiudere sulle verità e finzioni dei recentissimi romanzi di Alessandra Sarchi e Simona Vinci. Una visione a 360° sulla prosa italiana dalle origini a oggi.
 


sabato 14 settembre 2024

Gershom Scholem - CABBALISTI CRISTIANI - Adelphi

 
Gershom Scholem
CABBALISTI CRISTIANI
(titoli originali: Zur Geschichte der Anfänge der christlichen Kabbala; Die Erforschung der Kabbala von Reuchlin bis zur Gegenwart; Die Stellung der Kabbala in der europäischen Geistesgeschichte – 1954, 1981, 1970)
a cura, e con un saggio, di Saverio Campanini.
Adelphi
Piccola Biblioteca, 808
2024, pp. 177, euro 15
ISBN 9788845939174


Che la Qabbalah sprigioni un fascino difficilmente spiegabile è fuori di dubbio: chiunque entri in contatto con essa si sente interpellato, come se quelle oscure dottrine non aspettassero altri per sciogliere gli antichi nodi dell’irradiazione divina. Un fascino cui non hanno potuto sottrarsi molti lettori cristiani – da Giovanni Pico della Mirandola ai platonici rinascimentali, da Knorr von Rosenroth a Isaac Newton, dagli alchimisti ai «fratelli muratori» –, che con i dogmi segreti della mistica ebraica hanno avvertito una profonda affinità. Massimo studioso della Qabbalah, Gershom Scholem non ha mancato di dire la sua su questa robusta corrente del pensiero europeo. Persuaso com’era che la Qabbalah fosse la quintessenza dell’ebraismo, Scholem ha tentato di denunciare la sua versione cristiana come illegittima, frutto di un malinteso o di una frode, giungendo tuttavia a riconoscere, alla fine della vita, che la passione per quegli insegnamenti esoterici era stata accesa in lui proprio dalla lettura di un cabbalista cristiano. E così, nei tre illuminanti saggi qui raccolti, non solo troveremo una storia di quel pensiero sotterraneo, ma potremo anche scorgere in filigrana una riluttante autobiografia.
 
L'incipit
Le origini della «Qabbalah cristiana », vale a dire dell’interpretazione di tesi cabbalistiche nel senso del cristianesimo (cattolico) o anche l’interpretazione di dogmi cristiani tramite metodi e processi mentali di tipo cabbalistico, vengono fatte risalire, in genere, al conte Giovanni Pico della Mirandola. Quando Pico, nel 1486 – all’epoca un giovane di 23 anni –, presentò le sue 900 «conclusioni», ossia tesi per un sincretismo di tutte le religioni e di tutte le scienze, vi incluse anche la Qabbalah e ne fece l’oggetto di molte delle proposizioni che intendeva discutere a Roma. La straordinaria sicurezza con la quale le tesi vennero esposte, il fatto che contenessero paradossi e proposizioni spesso quasi indecifrabili, sembrò corrispondere molto bene alla stupefacente affermazione che qui per la prima volta venne sottoposta al vaglio di umanisti e teologi, ossia che l’ebraismo esoterico non era in fondo altro che il cristianesimo stesso. Quella tesi non rappresenta certo una prova che vi fosse una vera affinità tra le due sfere, benché sia stata considerata tale abbastanza spesso e non solo da chi vi vedeva qualcosa di positivo, bensì anche dai critici ebrei della Qabbalah. Questi avversari accoglievano con favore l’asserzione dei «cabbalisti cristiani» per le ragioni opposte: pareva confermare l’intento di smascherare l’elemento «non ebraico» che ritenevano si nascondesse nella Qabbalah. Negli scritti di studiosi ebrei si trovano ancora oggi giudizi del genere. In realtà la tesi di Pico e dei suoi eredi spirituali non era che una variazione, applicata alla Qabbalah, della concezione riferita, sin dal XIII secolo, al mondo della aggadah talmudica e del midrash da Ramón Martí nel suo voluminoso compendio intitolato Pugio fidei a beneficio della propaganda cattolica. Ramón Martí, che visse nel paese (la Catalogna) e nell’epoca della prima cristallizzazione della letteratura cabbalistica compiutasi intorno alla figura di Nachmanide (1194-ca 1270), non sapeva nulla – benché nell’interesse della sua attività missionaria si fosse effettuata una confisca generalizzata dei « libri » delle comunità ebraiche catalane – dell’esistenza della Qabbalah, che stava emergendo sotto i suoi occhi riuscendo a passare inosservata. Così, a sostegno dei suoi interessi cristologici furono messi a profitto, bene o male, gli antichi talmudisti, letti secondo una prospettiva inattesa, in virtù della quale potevano apparire come i principali testimoni a favore del cristianesimo e assumere una funzione storica per la quale erano altrettanto inadatti dei cabbalisti, che ne presero il posto più tardi. In effetti, all’entusiasmo di Pico e della Qabbalah cristiana per l’esoterismo ebraico spesso si contrapponeva una diffidenza non meno profonda da parte di altri ambienti, persino tra ebraisti cristiani abbastanza preparati. Questa situazione è documentata molto bene dalla testimonianza di Johann Albrecht Widmannstadt (1506- 1557), alla cui passione collezionistica si deve il fondo dell’importante raccolta di manoscritti cabbalistici di Monaco. Questo orientalista cattolico ebbe occasione di ascoltare a Torino, nel 1527, alcune conferenze tenute da uno dei maestri ebrei di Pico, un certo Dattilo, allora in età avanzatissima, che Pico aveva menzionato nella sua Apologia già nel 1487 e del quale finora non si è riusciti a determinare in modo soddisfacente l’identità e il nome completo da ebreo. Tra gli ebrei italiani Dattilo corrisponde in genere all’ebraico Yoav – un nome molto comune in Italia –, ma non ci è noto nessun cabbalista chiamato così tra quanti vissero all’epoca, mentre la congettura di Joseph Perles, secondo la quale si tratterebbe del nome di copertura dello straordinario dotto ebreo Yochanan Alemanno (ca 1435-dopo il 1504), è del tutto improbabile.1 In ogni caso, le impressioni che le parole di questo cabbalista, sicuramente ebreo, hanno lasciato sugli uditori appaiono molto divergenti. Mentre Pico ritenne di poter citare il suo amico Antonio Cronico come testimone di un dialogo nel quale Dattilo, che « conosceva molto bene la Qabbalah, si era spinto mani e piedi fino alla dottrina cristiana della Trinità », Widmannstadt dovette avere un’impressione opposta, o almeno assai discordante, delle dottrine esposte da Dattilo sul dogma. (…)

Gershom Scholem (Berlino, 5 dicembre 1897 – Gerusalemme, 21 febbraio 1982) è stato un filosofo, teologo e semitista israeliano, proveniente da una famiglia ebraica di origine tedesca. Il precoce interesse del giovane Gershom per la tradizione fu fortemente avversato dal padre Arthur. Grazie all'intermediazione della madre il ragazzo poté imparare l'ebraico e studiare il Talmud con un rabbino ortodosso. Tuttavia, per uno strano contrasto, Scholem era anche attratto dal sionismo laico e socialisteggiante, ed entrò a far parte del gruppo Jung Juda. Fu molto influenzato dal poeta Walt Whitman, che egli avvicinava al misticismo ebraico.
Studiò matematica, filosofia ed ebraico all'Università di Berlino; nell'ambiente universitario conobbe Martin Buber e Walter Benjamin; in quegli anni strinse amicizia con Shemuel Yosef Agnon, Hayim Nahum Bialik, Ahad ha-Am e Zalman Shazar (che all'epoca si chiamava ancora Zalman Rubaschoff), futuro presidente dello Stato di Israele.
Nel 1918 si trovava a Berna con Benjamin e fu ammesso alla locale Università; nella città svizzera incontrò Elsa Burckhardt, che sarebbe divenuta la sua prima moglie. Nel 1919 tornò in Germania e si laureò in lingue semitiche all'Università Ludwig Maximilian di Monaco.
Nel 1923 emigrò in Palestina, dove divenne capo del Dipartimento di Ebraico della Biblioteca Nazionale Ebraica; nel 1933 ebbe la prima cattedra di misticismo ebraico all'Università Ebraica di Gerusalemme.
Nel 1936 sposò Fania Freud. Dopo la nascita dello Stato di Israele fu presidente dell'Accademia nazionale delle Scienze; nel 1965 ebbe il titolo di professor emeritus all'Università Ebraica.
Morì il 20 febbraio del 1982.

Marlen Haushofer - NOI E LA MORTE DI STELLA - L'Orma

 
Marlen Haushofer
NOI E LA MORTE DI STELLA
(titolo originale Wir töten Stella, 1958)
traduzione di Eusebio Trabucchi
L'Orma editore
Collana Kreuzville Aleph
luglio 2024
pp. 96, euro 15
ISBN 9791254760888

Chi ha ucciso Stella? Cos’è successo dal giorno in cui la diciannovenne è arrivata in città, ospite di Anna e Richard, a quello in cui è stata investita da un camion?
È la stessa Anna a chiederselo, seduta alla finestra mentre guarda il suo amato giardino, ogni giorno più distante, e comincia a scrivere in cerca di un’impossibile risposta. Quella che prende forma è una storia intessuta delle ipocrisie del marito Richard, del celato disprezzo del figlio Wolfgang e della cinica impotenza della donna che la racconta. Per capriccio, o forse per malevolo istinto, era stata proprio Anna a iniziare Stella alle regole di un gioco sociale in cui la ragazza aveva finito per soccombere, abbandonando «con la stessa sprovveduta abnegazione con la quale vi si era gettata dentro» la vita che stava appena imparando a conoscere.
Pubblicato nel 1958, Noi e la morte di Stella è il diario di una catastrofe annunciata, la confessione di una donna tradita e stanca, testimone complice di un delitto senza castigo né redenzione. Con una voce perfida Marlen Haushofer mette a nudo una società borghese e patriarcale in cui le buone maniere sono il segno della più atroce indifferenza e la cortesia è una virtù da assassini.
 
L'incipit
Sono sola, Richard è andato dalla madre coi ragazzi per il fine settimana e ho chiamato la donna di servizio per dirle di non venire. Ovviamente Richard mi ha chiesto di andare con loro, ma soltanto perché sapeva che avrei detto di no. La mia presenza sarebbe stata solo d’intralcio per lui e Annette. E poi avevo voglia di starmene finalmente per conto mio. Adesso ho due giorni davanti a me, due giorni di tempo per scrivere quel che devo scrivere. Ma non riesco a concentrarmi da quando sul tiglio c’è quell’uccello che pigola. Avrei preferito non averlo scoperto, stamattina. È tutto merito del mio brutto vizio di trascorrere ore alla finestra a fissare il giardino. Se avessi lanciato fuori soltanto un’occhiata fugace, non ci avrei neppure fatto caso. Ha le piume dello stesso color grigioverde della corteccia dell’albero. L’ho notato solo dopo una mezz’ora, quando ha iniziato a pigolare e a battere le ali. È ancora troppo piccolo, non sa spiccare il volo e men che meno acchiappare gli insetti. All’inizio pensavo che la madre sarebbe subito tornata per riportarlo nel nido, ma ancora non è arrivata. Ho chiuso la finestra, eppure lo sento ancora pigolare. Verrà a prenderlo, è sicuro. Può darsi che abbia anche altri piccoli a cui badare. Del resto la creaturina strepita talmente forte che la madre, se è ancora viva, deve sentirlo per forza. È ridicolo che un minuscolo uccellino mi faccia innervosire in tal modo – è un segno del pessimo stato dei miei nervi. Già da alcune settimane i miei nervi sono in questo stato pietoso. Non tollero il benché minimo rumore, e a volte, quando vado a fare la spesa, d’improvviso mi tremano le ginocchia e prendo a sudare. Sento le gocce fredde e appiccicose scorrermi sul petto e sulle cosce, e ho paura. Adesso non ho paura, perché in camera mia non mi può succedere nulla. D’altra parte se ne sono andati tutti. Basterebbe soltanto che il vetro della finestra fosse più spesso e non sentirei più quel pigolio. Se Wolfgang fosse qui cercherebbe di salvare l’uccellino, ma ovviamente non saprebbe cosa fare, proprio come me. Tocca aspettare, mamma uccello arriverà. Deve arrivare. Lo spero con tutte le mie forze. Del resto neanche per strada mi può succedere nulla. Santo cielo, chi mai dovrebbe farmi del male? E seppure finissi sotto una macchina non sarebbe niente di grave, insomma, perlomeno niente di grave per davvero. E poi sono talmente prudente. Prima di attraversare per abitudine guardo sempre sia a destra che a sinistra, come mi hanno insegnato da bambina. Mi fa paura solo il vuoto intorno a me. Ma non ci si fa caso, finora nessuno l’ha notato. La madre sarà tutt’al più nel giardino accanto, o in quello dopo ancora. Qui tutte le case hanno un giardino, il nostro è uno dei più grandi e dei più trascurati. È lì soltanto perché io possa vederlo dalla finestra. Con il caldo che è venuto il tiglio ha finalmente messo le foglie. Quest’anno è tutto in ritardo di settimane. Sì, da qualche anno ho l’impressione che le stagioni stiano pian piano slittando. Che fine hanno fatto le estati roventi della mia infanzia, gli inverni nevosi e le primavere titubanti, che si schiudevano a poco a poco?

Marlen Haushofer, nata Marie Helene Frauendorfer (Frauenstein, 11 aprile 1920 – Vienna, 21 marzo 1970) è stata una scrittrice austriaca. Definita dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung «un’autrice che diviene più attuale ogni anno che passa», viene accostata a Ingeborg Bachmann ed è tradotta in molte lingue. Nei suoi romanzi e racconti ha descritto la condizione femminile con spietato realismo, senza disdegnare a volte invenzioni fantastiche dal potente portato allegorico.
Dopo un periodo di oblio, la sua opera è tornata in auge grazie ai movimenti femministi degli anni Settanta, e da allora viene costantemente ripubblicata.

Yves Delhoysie / Georges Lapierre - L'INCENDIO MILLENARISTA - Tabor / Malamente

Yves Delhoysie - Georges Lapierre 
(Os Cangaceiros)
L'INCENDIO MILLENARISTA
tra apocalisse e rivoluzione
prefazione di Luigi Balsamini
Tabor - Malamente
aprile 2024
pp. 576. euro 20
ISBN 9791280497222

 
Il millenarismo è uno dei più antichi sogni dell’umanità, l’idea dell’approssimarsi di un’Età dell’oro, un mondo radicalmente diverso, un mondo di fraternità e beatitudine, dove vivere liberi dalla maledizione del denaro, dello sfruttamento, della proprietà. Dalle visioni apocalittiche del primo cristianesimo alle eresie medioevali, dalle rivolte popolari contro il nascente capitalismo nell’Occidente moderno all’intreccio di profezie religiose e lotte sociali dei popoli indigeni contro la colonizzazione bianca, dall’anarchismo rurale nell’Andalusia ottocentesca al banditismo nel sertão brasiliano. Un torrente carsico di speranza e passione rivoluzionaria, disperso in mille rivoli sotterranei o esplosivi, collega gli insorti di tutti i tempi e i luoghi, fino a noi, per «trasformare il mondo fino a renderlo riconoscibile».
 
«La veemente fuga dal mondo sulle vie di Compostela, il rifugio nella preghiera, l’asilo della Chiesa, l’oasi di grazia della vita monastica non sono stati, per fortuna, gli unici impulsi degli uomini del Medioevo verso la salvezza della vita eterna. Una diversa corrente, altrettanto potente, ha trascinato molti di loro verso un altro desiderio: la realizzazione del paradiso sulla terra. È questa la corrente del millenarismo, il sogno di un Millennio, mille anni di felicità, come a dire l’eternità instaurata, o piuttosto restaurata, sulla terra. Diversamente dai loro contemporanei, i millenaristi non scambiarono i propri sogni per realtà, ma vollero realizzarli, che è qualcosa di ben diverso e molto più spirituale: godere infine della ricchezza infinita dello Spirito. Alla vile rassegnazione, hanno opposto il rifiuto, l’insurrezione, la rivoluzione».
 
 
Yves Delhoysie e Georges Lapierre hanno fatto parte del gruppo clandestino francese Os Cangaceiros, che negli anni Ottanta del XX secolo ha animato riflessioni teoriche e lotte concrete per la critica radicale dell’esistente, rivendicando la delinquenza sociale come pratica rivoluzionaria.

Mark Pizzato - MAPPATURA DEL TEATRO MONDIALE - Audino

 
Mark Pizzato
MAPPATURA DEL TEATRO MONDIALE
Dalle origini ai giorni nostri

(titolo originale Mapping Global Theatre Histories, 2019)
a cura di Maria Maderna
Dino Audino editore
collana Ricerche, n. 77
2024, pp. 312, euro 25
ISBN 9788875275778

Mappatura del teatro mondiale di Mark Pizzato è il primo libro che dà una panoramica completa di tutte le forme di rappresentazione teatrale mai esistite: dalle testimonianze lasciate dall’arte rupestre preistorica alle danze africane; dai drammi rituali di antico Egitto e Medio Oriente al teatro greco-romano; dai rituali indigeni alle forme di spettacolo postcoloniali, fino ad arrivare alla recentissima iper-teatralità dei mezzi di comunicazione di massa e dei social media. L’obiettivo è costituire un modello di studio dello spettacolo come fenomeno totale per la comprensione delle culture delle varie epoche, europee ed extraeuropee. La traduzione italiana del presente volume è il risultato di un lavoro didattico-scientifico della Civica Scuola di Teatro P. Grassi in collaborazione con la Civica Scuola di Interpreti e Traduttori A. Spinelli organizzato e coordinato da Maria Maderna. Un’edizione adattata, grazie a integrazioni specifiche, al pensiero italiano e destinata in particolare a studenti di facoltà umanistiche e a giovani attori.
 
Mark Pizzato è docente di teatro e cinema all’Università della Carolina del Nord, dove insegna Storia del teatro, Drammaturgia, Teoria della performance e Sceneggiatura. Alcuni cortometraggi da lui scritti hanno vinto i premi del New York Film Festival e del Minnesota Community Television.

Tin Ujević - COLLANA - Ronzani


Tin Ujević
COLLANA
(Titolo originale Kolajna, 1926)
traduzione e cura di Ugo Vesselizza
Ronzani Editore
Collana Poesia
settembre 2024
pp. 136, Euro 15
ISBN 9791259971883


Collana, scritta a Parigi – dove Tin Ujević visse dal 1913 al 1919 – probabilmente durante e immediatamente dopo la fine della Grande Guerra, e pubblicata per la prima volta a Belgrado nel 1926, è unanimemente considerata uno dei più bei canzonieri novecenteschi della poesia croata. A distanza di quasi un secolo dalla prima edizione, Ugo Vesselizza, poeta istriano tra i più appartati – «con qualche cosa di importante da dirci, qualche cosa di urgente dalla riva orientale dell’Adriatico» (così, Stefano Dal Bianco) – ci offre finalmente, dopo alcune prospezioni parziali, la sua versione-riscrittura integrale: frutto di un corpo a corpo strenuo con l’originale, durato più di trent’anni, e con un esito che vuole e deve apparire spiazzante. Che vuole e deve rinunciare all’ossequio del «gusto attuale» per rendere giustizia a quella che egli chiama «la stravaganza di Collana», la sua «novità restauratrice», ossia «un tradizionalismo ragionato, un petrarchismo progettuale, un classicismo tipicamente modernista». Poiché «Ujević, nella rara consequenzialità del suo virtuosismo sonettistico, compie il salto mortale, la sintesi che riempie il crepaccio spirituale tra classico e romantico, tra la poesia cortese, stilnovistica e dei suoi trovatori ragusei e la poesia del decadentismo. Sempre che la poesia antica, quel mondo di idealità e cortesie, sia guardato in controluce, con nostalgico intellettualismo e mesta ironia insieme».
 
Tin Ujević, ancora nel secondo dopoguerra, per le strade di Zagabria si poteva incontrare Tin (Augustin) Ujević (1891-1955) con il suo grosso cappello da bohémien e il cappotto allacciato con uno spago. Dedito alla poesia come unico ideale, come riscatto di tutto ciò che aveva perduto nei suoi pellegrinaggi dalla nativa Vrgorac (in Dalmazia) a Spalato, a Zagabria, a Parigi, a Belgrado, a Sarajevo, questo eterno vagabondo dalla scrittura straordinariamente ricca ed erudita, certamente il più grande poeta croato del Novecento, ha sempre trasposto in versi le esperienze della ‘tragica vita’. La vita, l’amore, la morte sono i suoi temi ossessivi. E se sono rintracciabili nella sua opera – un opus poetico e saggistico ricchissimo – echi dal simbolismo, da Poe, dal surrealismo, dall’ascetismo cristiano e dal misticismo orientale, quel che più conta è il suo eccentrico isolamento, in poesia come nella vita, un percorso alieno da concessioni a scuole e movimenti letterari, una sempre rinnovata magia della parola in una lingua difficile e in forme rigorosamente classiche.