Wang Xiaobo
L’ETÀ DELL’ORO(titolo
originale
Huangjin Shidai,
黄金时代,
1994)
Traduzione di Alessandra Pezza
A
cura di Patrizia Liberati
Carbonio Editore
Collana Cielo Stellato
settembre
2024
pp. 264, € 21
ISBN 9791280794413
Nel 1971, in piena Rivoluzione
Culturale, il ventunenne Wang Er viene mandato dalla natia Pechino
nella remota regione dello Yunnan per un periodo di rieducazione,
lavorando a fianco dei contadini e depurandosi di qualunque scoria
borghese.
Assegnato alla squadra di produzione numero quattordici,
a valle, il giovane è preso di mira dal caposquadra che sospetta gli
abbia accecato la cagna, e per questo lo obbliga a svolgere le
mansioni più faticose, come trapiantare germogli di riso stando
chino gran parte della giornata. Troppo per chi è alto un metro e
novanta come Wang Er, che infatti si infortuna alla schiena. Viene
chiamata a provvedere alle necessarie cure mediche la dottoressa Chen
Qingyang, impiegata nella squadra numero quindici su in montagna,
nota per sberle poderose, e con un marito in prigione.
Wang Er e
Chen Qingyang stringono una profonda amicizia – simile,
per spirito, a quella dei cavalieri erranti delle leggende di epoca
Tang, che ben presto implica anche la comunione dei corpi. La
rieducazione si trasforma per i due in un’iniziazione sessuale
travolgente, vissuta in clandestinità sulle montagne. Quando la
polizia del popolo scopre la relazione illecita, la coppia è
accusata di corruzione morale e comportamenti lascivi, nonché di
essersi nascosta oltreconfine; Wang Er e Chen Qingyang vengono
costretti a scrivere delle lunghe confessioni, infarcite di dettagli
scabrosi a uso e consumo delle autorità.
Intanto Chen
Qingyang vorrebbe qualcosa di più serio da Wang Er, persino un
figlio, ma il giovane si ritrae.
Concluso il periodo di
rieducazione, i due si perdono di vista. Di nuovo a Pechino, Wang Er
termina gli studi e lavora in università come insegnante di
microbiologia e responsabile di laboratorio.
Gli anni Ottanta
scorrono in un’atmosfera di mediocrità e rassegnazione – «la
società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque». Tra
servilismo, insubordinazioni, promiscuità, Wang Er ripensa al suo
passato e a quello delle persone a lui vicine, un passato fatto di
pestaggi e suicidi, sorveglianza, delazioni, ma anche di amore,
amicizia, spontaneo eroismo e audaci fughe dalla realtà.
La storia si sviluppa lungo tre archi
temporali – l’età dell’oro, quella dei vent’anni, l’età
delle ambizioni, i trent’anni, l’età delle certezze, i
quarant’anni – contraddistinti dall’incontenibile sessualità
del personaggio Wang Er.
L’uso che Wang Xiaobo fa del sesso
travalica però la mera trasgressione per diventare anche strumento
di sovversione contro l’insopportabile ingerenza del potere
politico. L’erotismo si rivela l’arma più efficace per
ribellarsi a un sistema che ha fatto del controllo sociale il suo
cardine, e liberarsi dalla pesantezza di rituali burocratici
grotteschi.
A dispetto di un’atmosfera oppressiva ritmata
dall’imperativo della purificazione ideologica – le
giornate dell’igiene patriottica, le campagne per la rettifica
di classe, le sessioni di lotta per scuotere il
pensiero, animate dai comitati (comitati centrali di partito, di
quartiere, di propaganda operaia, sportivi) – e di una quotidianità
vissuta sempre sull’orlo della catastrofe, la figura di Wang Er non
cede alla disperazione, tantomeno vi cede Wang Xiaobo, suo creatore e
alter ego.
Attorno a Wang Er si muovono altri personaggi iconici e
sopra le righe – la moglie insoddisfatta, l’amante svampita, la
donna inarrivabile, il rettore cortigiano, l’assistente
scapestrato, la madre impicciona, il padre arcigno, l’accademico
esemplare, l’accademico tormentato. Un humus esasperato, che la
scrittura dell'autore esalta per mezzo di espressioni e similitudini
crudamente triviali, scintille poetiche sorprendenti e un umorismo
nero costante con impennate di schietto giubilo.
Alieno da ogni
patetismo, Wang Xiaobo marca la sua netta distanza dalla corrente
letteraria predominante durante il grande caos post-Mao della fine
degli anni Settanta, quella “letteratura cicatriziale” che
affrontava il trauma della Rivoluzione Culturale – la “cicatrice”
– ricorrendo a una cifra angosciosa, e che produsse un’abbondanza
di dolorosi resoconti autobiografici, pubblicati però solo con
l’approvazione dei funzionari statali e solo su riviste governative
ufficiali. Viceversa, Wang Xiaobo mostra tutta la sua possente
individualità letteraria, sia immaginifica che stilistica,
attraverso una vis dissacrante e una propensione satirica
senza precedenti.
È
il romanzo L’età dell’oro a sancire la consacrazione
letteraria di Wang Xiaobo. L’autore impiega vent’anni per
finirlo, al prezzo di numerose riscritture. La versione
originale cinese viene pubblicata prima a Taiwan, nel 1991, e poi in
Cina, nel 1994.
Wang Xiaobo non è stato soltanto
uno scrittore, né soltanto un autore di culto che ha spopolato
nei dipartimenti universitari. È stato un “fenomeno”
nella Storia della letteratura del Novecento, non circoscritta a
quella est-asiatica, e con L’età dell’oro ha raggiunto
l’apice della sua creatività. Il romanzo trabocca di un’energia
farsesca sfolgorante, dove ogni cosa – eros e thanatos, luce e
ombra, esultanza e malinconia, umiliazione e dignità, ironia e
gravità – è destinata a disperdersi e a ricomporsi di
continuo.
E se oscenità c’è nell’Età dell’oro,
questa non è data dallo stato di incessante eccitazione del
protagonista, ma dalla presenza di un’autorità priva di qualsiasi
autorevolezza.
Tradotto in inglese, francese, tedesco, danese,
spagnolo, persino in arabo, L’età dell’oro è rimasto
inaccessibile ai lettori italiani per gli oltre trent’anni
successivi alla pubblicazione taiwanese. Questa prolungata e
inspiegabile trascuratezza viene finalmente meno grazie all’edizione
italiana per i tipi di Carbonio Editore, che ha affidato il compito a
due sinologhe di vaglia. Alessandra Pezza (per la traduzione) e
Patrizia Liberati (per la cura) hanno raccolto la sfida con
entusiasmo licenziando un testo di vivida accuratezza.
L'incipit
Avevo ventun anni quando mi mandarono
in una squadra di produzione nella provincia dello Yunnan come
giovane istruito1 . Chen Qingyang ne aveva ventisei e faceva il
medico nella stessa zona. Io appartenevo alla squadra numero
quattordici, a valle, lei alla quindicesima, su in montagna. Un
giorno venne da me per spiegarmi perché non era una ‘scarpa
sfondata’, cioè una sgualdrina. All’epoca la conoscevo appena.
La sua argomentazione era la seguente: nonostante tutti la
ritenessero tale, lei non lo era. Quel genere di donne ruba i mariti
alle altre, lei non l’aveva mai fatto. Anche se suo marito era in
prigione già da un anno, lei non aveva cercato nessun altro, né se
l’era trovato prima. Mai. Quindi non riusciva a capire come fossero
nate quelle dicerie. Rassicurarla non sarebbe stato difficile. Avrei
potuto affidarmi alla logica: se davvero Chen Qingyang fosse stata
una sgualdrina, sarebbe dovuta esistere almeno una persona con cui
l’aveva fatto. Ma visto che tale persona non era identificabile,
l’accusa non stava in piedi. Tuttavia mi ostinai a dire che sì,
senza ombra di dubbio: lei era decisamente una scarpa sfondata.
L’idea di chiedermi di testimoniare in suo favore le era venuta
quando ero andato a farmi fare le iniezioni. La cosa era andata in
questo modo: durante il picco del lavoro agricolo, anziché mandarmi
ad arare i campi, il caposquadra mi aveva messo a trapiantare i
germogli di riso, ed ero costretto a passare le giornate piegato in
due. Chi mi conosce sa che ho avuto un infortunio alla schiena e,
oltretutto, sono alto più di un metro e novanta.
Dopo un mese di quell’andazzo,
soffrivo talmente che senza una puntura di procaina non sarei
riuscito a chiudere occhio. Nella nostra infermeria usavano una
siringa dall’ago curvo e spuntato, che mi uncinava la pelle. Dopo
un po’, la mia schiena era talmente coperta di piccole cicatrici
indelebili che sembrava crivellata da un fucile a piombini. A quel
punto mi ero ricordato che alla squadra numero quindici lavorava una
dottoressa laureata all’Università Medica di Pechino, che
probabilmente era in grado di distinguere un ago da un amo. Così ero
andato a cercarla. Meno di mezz’ora dopo, me l’ero ritrovata in
casa a chiedermi di testimoniare per lei. Chen Qingyang non aveva
nulla contro le sgualdrine. Dal suo punto di vista, erano persone
buone e generose che non amavano deludere le aspettative altrui. In
un certo senso le ammirava anche. Il problema non stava in cosa
pensasse delle ‘scarpe sfondate’ ma nel fatto che lei non lo era,
nella maniera più assoluta. Un po’ come un gatto di sicuro non è
un cane. Quale gatto non si dispiacerebbe, a sentirsi dare del
‘cane’? Essere definita ‘scarpa sfondata’ la mandava fuori di
testa perché le sembrava di non riconoscersi più. Si presentò
nella mia capanna di paglia nella sua divisa da infermiera, che
lasciava le braccia e le gambe nude: la stessa tenuta che portava in
ambulatorio, con l’unica differenza che adesso aveva raccolto i
lunghi capelli con un fazzoletto, e ai piedi aveva un paio di
ciabatte. Quando la vidi così, mi venne spontaneo domandarmi se
indossasse qualcosa sotto il camice, oppure niente del tutto. Come
potrete intuire dal fatto che non le importasse granché
dell’abbigliamento, Chen Qingyang era molto bella. Aveva una
sicurezza in se stessa che si portava dietro fin da ragazzina. Le
dissi che, a mio parere, era definitivamente una ‘scarpa sfondata’
e per una serie di ragioni. “Per prima cosa, quella di ‘scarpa
sfondata’ è una semplice etichetta. Se tutti ne sono convinti,
vuol dire che lo sei e non c’è altro da spiegare. La gente dice
che vai in giro a rubare gli uomini, e questo significa che lo fai,
punto e basta. Quanto al perché, ti dico la mia: la gente pensa che
una donna sposata non abbia un amante soltanto quando ha la pelle
scura o il seno cadente. Tu hai una pelle bianchissima e un seno
turgido e sodo. Di conseguenza, non puoi che essere una scarpa
sfondata. Se vuoi che smettano di dirlo, scurisciti la faccia e fatti
venire le tette mosce, così smetteranno di chiacchierare. Però
sarebbe una bella perdita, lo ammetto. C’è un’unica soluzione:
fatti un amante. Così sarai una sgualdrina, ma per scelta. Non è
compito degli altri accertare se hai un intrallazzo prima di decidere
come chiamarti. Casomai sta a te impedire che alle persone venga
l’idea di affibbiarti quell’appellativo”. A quelle parole, Chen
Qingyang arrossì e sgranò gli occhi per la rabbia, come se fosse
sul punto di mollarmi un ceffone. Era famosa per le sue sberle
poderose, le aveva fatte assaggiare a parecchia gente. Invece si
afflosciò e disse: “D’accordo, vorrà dire che sono una scarpa
sfondata. Ma seno cadente o sodo, pelle scura oppure chiara, non sono
affari tuoi”. Poi aggiunse che se avessi continuato a pensarci,
prima o poi uno schiaffone me lo sarei beccato di sicuro.
L'autoreNato nel 1952 a Pechino da una famiglia
di intellettuali – il padre è uno stimato professore universitario
di Logica –, Wang Xiaobo è il grande outsider della
letteratura cinese contemporanea, un autore seminale e
una voce imprescindibile per capire la Cina degli ultimi cinque
decenni. Mosso da un cieco idealismo, a sedici anni trascorre
un periodo di rustificazione nello Yunnan, esperienza comune a
milioni di giovani istruiti della sua generazione, sufficiente però
a fargli abbandonare ogni illusione. Tornato a Pechino, lavora come
operaio fino all’ammissione, nel 1978, all’Università del
Popolo, dove studia Economia. Si è intanto sposato con Li
Yinhe, prima sociologa cinese impegnata nello studio della
sessuologia. La coppia vive alcuni anni negli Stati Uniti dove Wang
Xiaobo consegue una laurea specialistica all’Università di
Pittsburgh e intanto assorbe la lezione del Foucault di Storia
della sessualità – il sesso è la causa di tutte le
circostanze della vita individuale così come governa l’esistenza
sociale nel suo insieme.
Con la moglie collabora alla stesura
de Il loro mondo, il primo studio di argomento omosessuale in
Cina. Rientrato in patria nel 1988, insegna all’Università
fino alle dimissioni, nel 1992, per dedicarsi a tempo pieno alla
letteratura come scrittore indipendente, vivendo dei soli
proventi dei suoi libri.
Wang Xiaobo lavora alla sceneggiatura di
quello che diventerà il primo film della Cina continentale a
tematica queer, East Palace, West Palace (1996), successo
internazionale diretto dal regista Zhang Yuan.
Due volte vincitore
del prestigioso United Daily News Award for Novel, tra le opere di
Wang Xiaobo ricordiamo la “Trilogia delle età” – di cui fa
parte L’età dell’oro – e le raccolte di saggi A
Maverick Pig e The Silent Majority. Oltre a L’età
dell’oro, in Italia è uscito il saggio Il significato
dell’arte (Oedipus, 2017).
Wang Xiaobo è morto a Pechino,
nel 1997.
Li Yinhe è ancora attivissima per i diritti LGBTQIA+.