Raphaël Meltz
24 VOLTE LA VERITÀ
(titolo originale 24 fois la vérité, 2021)
Traduzione di Alice Laverda
Prehistorica Editore, collana Ombre lunghe
settembre 2024
pp. 260, euro 18
ISBN 9788831234269
C’è Gabriel, un cineoperatore che ha
percorso tutto il Novecento con l’occhio incollato dietro la sua
macchina da presa: dal funerale di Sarah Bernhardt all’11 settembre
2001 passando per la Pace di Parigi, nel 1919, sarà stato il
testimone muto di un mondo caotico e vertiginoso. C’è Adrien, suo
nipote, un giornalista specializzato in quelle cose digitali che
ormai invadono le nostre vite. E c’è il romanzo che Adien ha
deciso di scrivere attorno alla figura del nonno.
In ventiquattro capitoli, raccontare una vita. Ventiquattro capitoli come le ventiquattro immagini che costituiscono ogni secondo di un film. Ventiquattro capitoli per tentare di cogliere la verità.
Cosa resta di chi non è più tra noi? Cosa si può dire di conoscere di ciò che si è visto ma non vissuto? Cosa fare, al giorno d’oggi, di tutte queste immagini?
In ventiquattro capitoli, raccontare una vita. Ventiquattro capitoli come le ventiquattro immagini che costituiscono ogni secondo di un film. Ventiquattro capitoli per tentare di cogliere la verità.
Cosa resta di chi non è più tra noi? Cosa si può dire di conoscere di ciò che si è visto ma non vissuto? Cosa fare, al giorno d’oggi, di tutte queste immagini?
L'incipit
– Si ricordi però che è da un pezzo ormai che siamo nel ventunesimo secolo.
Scrivo si ricordi, ma mi
parlava in inglese, e non so dire se in realtà mi dava del tu per
essere informale o se mi dava del lei per mantenere quella freddezza
professionale tipica degli incontri che si fanno in congressi come
questo. Io non lo so, ma lui nemmeno: un anglofono non si chiede se
sta dando del tu o del lei a qualcuno, si rivolge a tutti con lo
stesso you, un po’ come noi francofoni non pensiamo che in lingua
maya si usino verbi diversi per dire toccare con un dito, toccare con
due dita, toccare con tre dita, toccare con tutta la mano. Noi
diciamo semplicemente toccare, e ci accontentiamo. Ci accontentiamo
di tante cose in verità. Las Vegas. Nell’articolo che è davvero
ora che mi metta a scrivere sul Consumer Electronics Show (CES), come
ogni anno da ormai undici anni vengo qui per scrivere l’articolo
specialistico che poi venderò al miglior offerente tra i giornali
che ne vogliono parlare (e ne vogliono parlare tutti), andrò a
recuperare i soliti vecchi cliché sulla città folle, le luci al
neon esagerate, la Strip, il grande boulevard «centrale», gli hotel
e i casinò, venderò un po’ di glamour di scenografia, un po’ di
eccitazione di contesto prima di parlare dei nuovi telefoni che
saranno nelle mani degli americani tra qualche settimana, dei
francesi tra qualche mese – ma per adesso, prima dell’irsuto
racconto, la glabra realtà: all’Hotel Luxor (anch’esso,
ovviamente, un casinò), il bar è un’immensa terrazza con una
vista smisurata sull’orrenda e aberrante città delle Praterie,
tutta luci, certo, ma luci aggressive, luci spiacevoli, rosse che
trasudano la vacuità del gioco e gialle che celebrano il nulla
consumistico, neon che brillano solo agli occhi di chi crede che il
successo si misuri in chilowatt, in chilometri, in chilodollari.
Prendo un whisky doppio che farò passare in conto spese, mi
conviene, 8 costa 29 dollari, e cammino verso le finestre, c’è
gente, tantissima, a Las Vegas durante il CES c’è gente
perennemente e dappertutto, al bar del Luxor ci sono dei tavolini
alti con alcuni sgabelli liberi ma c’è sempre almeno una persona
seduta, a volte un gruppetto, più spesso gente sola, in maggioranza
uomini, uomini soli o a coppie ma allora è una solitudine condivisa,
non si parlano, sono connessi ad altri mondi, ad altri affari, ad
altre sfide, sfide ridicole in confronto al reale procedere del
mondo, ma che a loro sembrano cruciali. Mi sistemo a un tavolino di
fronte a un tizio solitario alto e magro immerso nel suo smartphone.
Qui gli esseri umani hanno la pelle azzurra. Potrei chiamarli
blueskin, sempre con un telefono in mano (spesso due, a volte tre, ma
con due sole mani la cosa è ancora un po’ complessa), hanno il
viso incorniciato da un alone azzurrognolo la cui assenza pare quasi
sospetta (succede, in generale si tratta di nerd patentati che hanno
installato un filtro anti luce blu), ma questo tizio alto e magro ha
il viso di mille colori, tinte che cambiano in continuazione con
effetto stroboscopico che si direbbe volontariamente ricercato, bevo
un sorso di whisky e lo guardo con aria interessata ma non troppo, se
ne sta chino sullo schermo in maniera particolare, non come tutti gli
altri, intorno a noi, non come qualcuno che guarda una foto su I. o
una storia su S. o un video su Y., lui guarda il suo telefono come se
lì stesse succedendo altro.
Raphaël Meltz (1975) è uno
scrittore raro, estremamente eclettico. È autore di svariati
racconti, saggi e romanzi; per un fumetto, è stato recentemente
premiato al Festival ’Angoulême. Ha cofondato e codiretto la
rivista “R deréel” e il magazine “Le Tigre”. Dal 2013 al
2017 ha prestato servizio come addetto culturale presso l’Ambasciata
di Francia in Messico. Significative le parole di Frédéric Martin,
il suo editore francese (Le Tripode): “Meltz è un Don Chisciotte,
una persona dal bagaglio intellettuale molto vasto, che ora potrebbe
trovarsi negli uffici ministeriali o seduto a una cattedra
universitaria, ma che ha scelto una forma di resistenza.”
La traduttrice
Alice Laverda è nata a Bassano del Grappa nel 1989. Si è laureata in Traduzione Letteraria all'Universitè Aix-Marseille, in Linguistica e Traduzione all'Università di Pisa.
La traduttrice
Alice Laverda è nata a Bassano del Grappa nel 1989. Si è laureata in Traduzione Letteraria all'Universitè Aix-Marseille, in Linguistica e Traduzione all'Università di Pisa.
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