Enrico Fink
PATRILINEARE
Una storia di fantasmi
Lindau
Collana Contemporanea
gennaio 2025
pp. 392, € 21
ISBN 9791255842026
Elias, giovane musicista, dopo la morte della nonna inizia a essere perseguitato da un’«ombra». Ma cos’è? E cosa vuole da lui? Lo segue ovunque, nelle atmosfere surreali delle discoteche dove suona, nei vicoli medievali di Ferrara, fino alla casa di famiglia che custodisce memorie antiche. Ed è proprio lì, in quelle stanze polverose dove Elias decide di riscoprire le proprie radici ebraiche, che l’ombra sembra unirsi ad altre ombre e il passato inizia a prendere forma.
In una narrazione dalla struttura articolata, con frequenti salti temporali e flashback, le vicissitudini di Elias si intrecciano con quelle dei Fink e dei Bassani – dall’arrivo in Italia dei bisnonni alla tragedia della seconda guerra mondiale, con la deportazione ad Auschwitz – creando un racconto intimo e coinvolgente, un mondo fatto di ricordi, emozioni e riflessioni in cui la presa di coscienza, spesso sofferta, di ciò che è accaduto si alterna ai toni della commedia e all’autoironia.
Tra le grandi tragedie della Storia e piccole scene di comicità, fra demoni che ballano sul cubo e un anziano poeta circondato da gatti, fra sinagoghe, bombe e una circoncisione tardiva, Patrilineare. Una storia di fantasmi è un libro che ci tocca nel profondo e ci aiuta a comprendere quanto le storie di chi ci ha preceduto siano parte integrante di chi siamo.
L'incipit
«Mamma, è stanotte che mi ammazzi?». Le sei parole rimasero sospese a mezz’aria nella stanza di Ferrara, così come trentacinque anni prima nel casolare di campagna vicino ad Albarea. Laura aveva cominciato come innumerevoli altre volte: «Devi sapere…». Era stesa sul letto, la grande camera in penombra. «Devi sapere che a quell’epoca…». La luce le dava così fastidio che portava anche adesso, al buio, un paio di grandi occhiali da sole, neri. All’angolo opposto della stanza un pesante condizionatore d’aria vibrava minaccioso, sotto la finestra con le ante socchiuse. Lo teneva acceso al massimo sin da quando il vecchio elettricista di via San Romano gliel’aveva procurato, un modello usato ma in discrete condizioni, grosso e rumoroso. «Devi sapere che a quell’epoca eravamo nascosti in campagna», aveva detto con la sua voce sottile, che faticava a farsi strada oltre il ronzio insistente della macchina.
Elias ascoltava, rannicchiato in una poltrona. I suoi occhi indovinavano la figura di lei sopra il letto rifatto. Le scarpe di pelle nera, le calze di nylon marrone che scomparivano sotto la gonna spessa, il golf di lana chiara, il filo di coralli che le cingeva il collo. Le mani appoggiate al viso, quasi a nascondersi mentre raccontava. Elias aveva freddo, avrebbe preferito essere nel salotto illuminato dal sole che splendeva dalle grandi finestre, come un tempo. Ma da qualche anno ormai lei non usciva quasi dalla sua stanza, neppure per attraversare il corridoio grigio e sedersi sul divano. In fondo andava bene anche così. L’importante era ascoltarla, e neanche tanto per il gianduiotto che sarebbe senz’altro stato scartato per lui a fine racconto, premio che quando era più piccolo lo aveva attirato e persino convinto a fermare per un poco le scorribande e i giochi scatenati, e a sedersi in silenzio. Anche se la nonna non lo accompagnava più alla scoperta della grande casa di via Mazzini, anche se non apriva più i vecchi armadi di legno scuro per mostrargli fotografie antiche e cartoline scritte in fiorite calligrafie ormai illeggibili, anche se non lo conduceva più nei misteriosi solai pieni di ricordi polverosi o nei passaggi nascosti nelle cantine buie e spaventose, anche se era ormai sempre qui, vestita di tutto punto e stesa sul letto nella stanza ghiacciata, come fosse già una salma composta e in attesa solo di sepoltura (ma questo Elias l’avrebbe intuito solo molti anni più tardi, ripensandoci), lui si perdeva ad ascoltare i suoi racconti. Erano storie prese da romanzi, a volte; dai libri che gli occhi matti non le permettevano più di sfogliare, ma che amava ripercorrere e riassumere al nipote. A volte erano trame d’opera, o vicende tratte dai radiodrammi che arrivavano dal piccolo apparecchio sul tavolino, colonna sonora ininterrotta delle giornate di clausura insieme al bordone profondo del condizionatore. Spesso, però, erano storie di famiglia. Elias imparava a conoscere così le figure che avevano abitato quella casa e la Ferrara d’un tempo. Figure che lo fissavano rigide e impomatate dalle fotografie appese al muro attorno al letto: immagini vecchie e ingiallite, già più simili a quadri d’epoca che a scatti su pellicola, e che nella penombra sembravano bisbigliare come un drappello di ombre cupe che lo fissavano severe. Ogni tanto il frammento di un racconto permetteva di associare un nome a uno di quei visi. Gli zii, Carlo e Giuseppe, spesso insieme, con i loro lunghi baffi neri. I genitori di sua nonna: la madre Elide vestita di scuro, i capelli raccolti, il viso inclinato a scrutare verso l’alto. Il padre, Elia, aveva il viso rotondo, gli occhi sottili e sorridenti, lo sguardo bonario che – diceva la nonna – corrispondeva davvero a un animo gentile e quasi timoroso, molto poco adatto al suo status di capofamiglia e poi di autorevole presidente della Comunità Ebraica, l’Università Israelitica, come si diceva allora. Poi immagini più recenti, ma sempre antiche agli occhi di Elias: Gianfranco, l’amico fidato, uno dei pochi che sua nonna ammetteva nel gelido sancta sanctorum. Sorrideva, molto più giovane di adesso, una giacca e un basco in testa a ripararlo dal poco sole di una strada ferrarese. Mi piacciono i suoi libri, diceva spesso la nonna, anche se parlano di cose che ecco, devi sapere che non stanno molto bene. Ma insomma, capirai quando sarai più grande. E comunque meriterebbe più fortuna, almeno quanto lui, ripeteva muovendo gli occhi verso l’altra foto, quella più grande di tutte, quasi hollywoodiana: la foto dell’altro amico scrittore, che anche se di cognome faceva Bassani come loro, parente non era. «A Laura, con affetto, Giorgio», c’era scritto con un pennarello grosso, e lei l’aveva attaccata così, come fosse una celebrità appesa al muro di un ristorante di provincia. La foto l’aveva portata lui, Giorgio, alla fine d’un lungo periodo d’assenza: aveva avuto paura a incontrarla, perché pensava che lei ci fosse rimasta male. Era uscito un suo racconto, anzi una «fiaba» – così l’aveva chiamata –, in cui narrava di lei e dell’incontro con il ragazzo di origine russa che sarebbe diventato suo marito, la nascita del bambino. L’aveva descritta come una ragazza «né brutta né bella», questo era il punto: ma se non era proprio un complimento, a lei non aveva dato alcun fastidio, inorgoglita com’era di essere finita protagonista in una novella di Bassani.
Enrico Fink è nato a Firenze nel 1969. È compositore, cantante e flautista, nonché ricercatore e autore teatrale. Figlio del noto critico Guido Fink, dopo essersi laureato in Fisica ha abbandonato gli studi in quel campo per concentrarsi sulla musica, dedicandosi principalmente al recupero e alla promozione della tradizione musicale ebraica italiana, e alla composizione di musiche di scena per il teatro. Regolarmente in tournée in Italia e all’estero, ha esordito nel 1998 con lo spettacolo Patrilineare, lo stesso titolo del primo romanzo.
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