venerdì 24 gennaio 2025

Mariangela Paone, Rezwana Sekandari - SOSPESA - add

 
Mariangela Paone, Rezwana Sekandari
SOSPESA
Una vita nella trappola  dell'Europa

(titolo originale Un expediente europeo, 2023) 
traduzione dallo spagnolo di Monica Bedana
prefazione di Fabio Geda 
add editore
gennaio 2025
pp. 152, 18 €
ISBN 978-8867835102

C’è un buco nero nel sistema di accoglienza europeo, spesso gestito da una burocrazia ottusa che tratta le persone come numeri e oggetti.
La storia di Rezwana Sekandari ne è la prova. Afghana, ha tredici anni quando il 28 ottobre 2015 arriva sola in Grecia dopo il naufragio del barcone in cui viaggiava e in cui muore tutta la sua famiglia. Rezwana viene affidata a diverse famiglie in Grecia prima di riuscire a raggiungere una prozia che abita in Svezia. Qui ritrova una casa, va a scuola, prova a ricominciare una vita fino a che le autorità svedesi, seguendo alla lettera le leggi europee sull’asilo, la rimandano in Grecia, il primo Paese di arrivo. Per lei è una nuova odissea, in una terra dove non ha nessuno.
Mariangela Paone, giornalista che aveva raccontato quel tremendo 28 ottobre, anni dopo viene a sapere del destino della ragazza e decide di incontrarla.
Sospesa ripercorre le tappe del viaggio, del naufragio e della situazione di Rezwana che, mentre cerca di districarsi nelle maglie della burocrazia, inizia insieme a Mariangela una missione che sembra impossibile: recuperare i resti e la memoria della sua famiglia.

Un estratto
23 giugno 2022. Lesbo 
Rezwana è una minuta macchia nera nel mezzo di un terreno incolto dall’erba alta e secca. Il sole che le picchia dritto sulla testa cancella la sua ombra. Vista da lontano sembra immobile. Voglio rimanere da sola, per favore. Sola. Soltanto per un po’. La lasciamo sola, rimaniamo a guardarla dall’invalicabile distanza di una manciata di metri. Lei, lì seduta. Lei che curva la schiena, diventa una macchiolina nera e si acchiocciola fino a ricoprire con il corpo un’altra minuscola macchia, bianca. Una lapide. Un rettangolo di marmo piantato in terra, con parole e numeri scolpiti. «´Αγνωστη Γυναίκα», donna ignota. Un paio di metri più in là, un’altra lapide: «´Αγνωστο Κορίτςι», bambina ignota. Sulla spianata, circondata da olivi secolari, con i loro rami ritorti simili a braccia dolenti che si elevano al cielo, ci sono decine di lapidi uguali a queste due. «´Αγνωστοσ», ignoti. Uomini, donne, bambini.
Rezwana passa lentamente la mano sul marmo. La carezza tanto desiderata, che non ci sarà mai più. Pulisce la lapide con l’acqua di una bottiglietta di plastica. Bagna la terra, bagna i mazzetti di semprevivi che abbiamo portato e, con le unghie, tenta di sradicare l’erba infestante per fare più spazio intorno alle due lapidi. Sono le uniche a essere state sgombrate delle erbacce prima che arrivassimo. Le persone che identificano ora non sono più nomi ignoti. Si chiamavano Negin e Fatima, avevano undici e trentasette anni e da quando sono morte, il 28 ottobre 2015, di anni ne sono trascorsi sette. Ci avviciniamo alle tombe e inumidisco con un po’ d’acqua i capelli di Rezwana. Ha il resto del viso inondato di lacrime che gocciolano sulle lapidi e sulle sue mani. «Fa troppo caldo», le dico. Ancora un attimo, per favore. Perché? Perché io sono viva e loro no? Che cosa avrei potuto fare per salvare almeno uno di loro? Perché dovevano morire in questo modo? Perché sono dovuti morire qui? Quando inizia a fare buio, dal balcone della stanza d’albergo le luci del porto di Mitilene riflesse nel mare mi sembrano una macchia di Rorschach. Io non ho risposte razionali, Rezwana. Abbiamo trovato soltanto un frammento della realtà: sono morti e sono stati sepolti qui. Sì, la possibilità di non morire in quel modo c’era; di non dover essere sepolti qui, di arrivare senza rischiare la vita in mare. Ma loro non l’hanno avuta, quella possibilità. L’unica cosa che sappiamo è che adesso i loro corpi sono qui. A Lesbo.
È la prima volta che Rezwana torna sull’isola. Ci eravamo fatte la promessa di venire a Lesbo insieme se fossimo riuscite a trovare risposte, ma non avevamo mai davvero pensato che ce l’avremmo fatta. Le nostre vite si sono intersecate sette anni fa, anche se allora non ci siamo conosciute di persona. Erano i mesi più duri della cosiddetta «crisi dei rifugiati». L’Europa si sarebbe asciugata presto le lacrime versate sull’immagine del piccolo Alan Kurdi, il bambino di tre anni in fuga dalla guerra in Siria annegato insieme alla madre e al fratello mentre tentavano di attraversare il Mar Egeo. Il 2 settembre 2015 il cadavere del bimbo fu rinvenuto su una spiaggia del distretto di Bodrum, in Turchia, a faccia in giù come se stesse dormendo, e io ricevetti quella notizia mentre mi trovavo sulla sponda opposta. «A Lesbo arrivi, ma poi da Lesbo non riparti mai, nemmeno se te ne sei andato molto lontano», mi avevano avvertita. Qualche settimana dopo la morte del piccolo, quando ormai si era perduta l’eco delle disperate parole di suo padre, giunse la notizia di un incidente di dimensioni enormi. Una barca di legno, con oltre trecento persone a bordo, era affondata a circa tre chilometri da Lesbo. Era il 28 ottobre 2015. Le cifre ufficiali parlavano di duecentosettantaquattro sopravvissuti e almeno quarantatré morti – diciassette uomini, sei donne, diciannove bambini, un neonato – e di un numero imprecisato di dispersi. Sulla barca viaggiava Rezwana con i genitori, Naseer e Fatima, la sorella Negin, il fratello Hadith, di cinque anni, e la sorellina Mehrumah, di quattordici mesi. Soltanto Rezwana è sopravvissuta. Orfana alle porte dell’Europa.
 
Mariangela Paone (Roma, 1980) è una reporter specializzata in informazione internazionale. Ha lavorato fino al 2015 per il quotidiano El País, con cui continua a collaborare e nella cui Scuola di giornalismo insegna. Tra il 2015 e il 2016 è stata inviata speciale e reporter per El Español, coprendo, tra l’altro, gli attentati a Parigi e quella che fu definita la “crisi dei rifugiati”. Attualmente è reporter e inviata speciale de elDiario.es, per cui ha seguito l’inizio della guerra in Ucraina. Per il ventennale del G8 di Genova ha realizzato il podcast Io che a Genova non c’ero. Insegna scrittura giornalistica presso la Scuola Holden di Torino.

Rezwana Sekandari (Kabul, 2001) è arrivata in Europa nel 2015. Da allora sta cercando di costruire il suo futuro qui. Vive in Grecia ma spera di poter andare in Svezia, il Paese dove suo padre sognava di stabilirsi e dove lei ha vissuto e studiato per due anni.

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