Giuseppe Patota
A TU PER TU CON LA COMMEDIA
Laterza
Collana Robinson/Letture
2025, II ristampa 2025
pp. 360, € 20.00
ISBN 9788858156537
Chi ha detto che leggere la Divina Commedia sia un’impresa per pochi? Èvero che leggerla è arduo per la lingua in cui è scritta e l’enorme varietà di temi trattati, ma è un’avventura straordinaria. Giuseppe Patota, che ha dedicato parte dei suoi studi alla lingua di Dante, ha trovato il modo di rendere accessibile quest’opera magnifica e complessa perché possa essere capita e apprezzata anche da chi non la conosce, da chi la conosce poco e da chi l’ha conosciuta, ma non se la ricorda.
«Capire la Divina Commediaè difficile. Della lingua in cui la scrisse, diventata la nostra soprattutto grazie a lui, Dante sperimentò tutte le possibilità espressive, comprese quelle che sembrano andare al di là dell’umano, sia verso il basso sia verso l’alto, e non è facile seguirlo in questo vertiginoso saliscendi.
Poi ci sono i contenuti. Teologia e interpretazione dei testi sacri, filosofia, logica, morale, politica, diritto, letteratura e storia antica, scienza dei numeri e delle misure, musica, ottica, medicina, arte della guerra e della navigazione: non c’è aspetto della cultura antica e medievale di cui Dante non abbia appropriatamente detto qualcosa, nel suo enciclopedico poema.
Infine, ci sono i personaggi che popolano l’oltremondo che il Poeta ha costruito. Tralasciando quelli appartenenti al mito o alla storia, e limitandoci a quelli che hanno popolato la cronaca dei tempi di Dante e di quelli di poco precedenti, l’unico motivo per cui continuiamo ad avere memoria dei nomi di Ciacco, Francesca da Rimini, Farinata degli Uberti o Ugolino della Gherardesca è dato dal fatto che i versi scritti da Dante li hanno resi figure immortali: se quei versi non fossero stati scritti, i loro nomi sonnecchierebbero in qualche documento d’archivio o in qualche cronaca medievale.
Sì: capire la Commedia è veramente difficile. Per questo ho scelto i versi più significativi, curiosi o sorprendenti dei cento canti di cui si compone e li ho distribuiti in 114 presentazioni (per qualche canto ho avuto bisogno di qualche presentazione in più). Ho cercato di spiegare quei versi parola per parola, senza dare niente per scontato, collegando i fatti con gli antefatti.
In questo modo, leggendoli canto dopo canto, farete lo stesso viaggio che ha fatto Dante: questo, almeno, è quello che spero.»
Un estratto
nella selva oscura
(Inferno, canto I, vv. 1-21)
Quelli che leggerete fra poco sono i ventuno versi, organizzati in terzine (vale a dire in serie di tre versi), che aprono l’Inferno, prima delle tre cantiche di cui si compone la Commedia. Guardate quante volte, nella trentina di parole che ho scritto (trentaquattro, per la precisione: lo stesso numero dei canti dell’Inferno), sono stato obbligato a ripetere il numero tre, che nella Commedia ha un fortissimo valore simbolico.
La lingua in cui sono scritti questi versi iniziali non è poi così lontana dall’italiano di oggi. «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: se dovessimo rendere il primo in prosa italiana attuale, ci basterebbe aggiungere una o alla fine della parola cammin e trasformare la preposizione semplice di nella preposizione articolata della: «Nel mezzo del cammino della nostra vita». Non illudiamoci, però, perché, a mano a mano che andremo avanti, le cose si faranno più complicate.
A metà del percorso della vita non soltanto sua, ma di tutti gli uomini (accomunati da quel nostra: «di nostra vita»), Dante si trova, senza sapere come, in una selva oscura, perché la strada giusta («la diritta via») era smarrita. Abbiamo la certezza che per il Poeta questo passaggio coincideva con i trentacinque anni, perché in un’altra sua opera, il Convivio, dà proprio quest’indicazione, e la dà fondandosi su quello che, nel merito, c’era scritto nella Bibbia e nelle opere dei grandi filosofi antichi, primo fra tutti Aristotele. Poi aggiunge che dire come fosse fatta questa «selva selvaggia» è una cosa «dura», cioè difficile, se non impossibile, perché, solo a pensarci, gli ritorna la stessa paura di quando ci si trovò. Mettiamoci al suo posto: come staremmo noi se ci capitasse di finire in una selva completamente buia? Anche senza pensare di essere finiti nel territorio del peccato e del male, avremmo una gran paura; potremmo addirittura morire di paura, e non sarebbe un’iperbole, un’esagerazione retorica, proprio come non è un’esagerazione retorica, per Dante, dire che, rispetto a questa selva, la morte è poco, soltanto poco di più.
La seconda terzina che leggerete si apre con la parola «Ahi». Grammatiche e vocabolari c’insegnano che ahi è un’esclamazione, una parola che equivale a un’intera frase e che esprime un lamento. Ahi esiste da che italiano è italiano: se ne trovano esempi nei componimenti dei poeti siciliani, che si collocano all’inizio della storia della nostra letteratura, fra primo e secondo quarto del Duecento. Ma ahi è anche una parola che esiste da quando cominciamo a esistere noi: è fra le prime che impariamo a usare, ogni volta che dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri che stiamo provando un dolore. Con quell’«Ahi!» Dante ci ricorda che il dolore appartiene alla nostra condizione di esseri umani. Poi, però, inanella due «Ma» che segnano un’inversione di rotta, e illuminano la selva oscura in cui tutti, chi più chi meno, siamo finiti, finiamo o finiremo per trovarci in un momento della vita, e ci avvisa che perfino in quella selva potremo incappare nel bene. Se il tratto che domina i versi che precedono i due «Ma» è il buio, quello che domina i versi che seguono, in particolare il secondo, è la luce: quando – racconta Dante – arrivai ai piedi di un colle dove finiva la selva che, per la paura, mi aveva «compunto» (cioè amareggiato) il cuore, guardai in alto e ne vidi i pendii già ricoperti dei raggi del pianeta che conduce ognuno dritto per la sua strada. Il pianeta in questione è il Sole: Dante lo chiama pianeta perché la visione medievale dell’universo, che era anche la sua, considerava il Sole uno dei sette pianeti che giravano intorno alla Terra.
Il Sole è ampiamente presente nella Commedia. La parola che lo indica ricorre 13 volte nell’Inferno, 56 nel Purgatorio e 47 nel Paradiso. Qui, però, Dante non lo indica col suo nome, ma con un giro di parole: è il pianeta «che mena dritto altrui per ogni calle», cioè che con la sua luce conduce ognuno per la strada giusta.
È un Sole che tranquillizza: dopo che lo ebbe visto, la sua paura, che «nel lago del cor gli era durata», si calmò. Il «lago del cor» è la cavità interna del cuore; nel Medioevo era opinione comune che in essa si trovassero le passioni umane, compresa la paura che abitò il cuore di Dante quando si smarrì, in quella notte passata con tanta pièta. Dobbiamo leggere la parola così, con l’accento sulla e e non sulla à finale, non solo per ragioni metriche (pièta è in rima con queta), ma anche per ragioni di significato: nella lingua di Dante la forma pièta significa ‘angoscia’, ‘affanno’, diversamente dalle varianti pietà, pietate e pietade, che generalmente (ma non sempre) significano ‘compassione’, ‘misericordia’.
Un’ultima curiosità. In uno dei manoscritti della Commedia il penultimo dei versi che leggerete è un po’ diverso: «Allor fu la paura un poco queta / che nel lago del cor m’era ’ndurata». Se Dante avesse scritto così, dovremmo parafrasare: «Allora si calmò un po’ la paura che aveva reso la cavità interna del cuore dura come il ghiaccio». Che cosa avrà scritto il Poeta nel testo originale, purtroppo andato perduto? Non lo sappiamo. Eccoci davanti a un primo dubbio: e abbiamo appena cominciato a leggere.
nella selva oscura
(Inferno, canto I, vv. 1-21)
Quelli che leggerete fra poco sono i ventuno versi, organizzati in terzine (vale a dire in serie di tre versi), che aprono l’Inferno, prima delle tre cantiche di cui si compone la Commedia. Guardate quante volte, nella trentina di parole che ho scritto (trentaquattro, per la precisione: lo stesso numero dei canti dell’Inferno), sono stato obbligato a ripetere il numero tre, che nella Commedia ha un fortissimo valore simbolico.
La lingua in cui sono scritti questi versi iniziali non è poi così lontana dall’italiano di oggi. «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: se dovessimo rendere il primo in prosa italiana attuale, ci basterebbe aggiungere una o alla fine della parola cammin e trasformare la preposizione semplice di nella preposizione articolata della: «Nel mezzo del cammino della nostra vita». Non illudiamoci, però, perché, a mano a mano che andremo avanti, le cose si faranno più complicate.
A metà del percorso della vita non soltanto sua, ma di tutti gli uomini (accomunati da quel nostra: «di nostra vita»), Dante si trova, senza sapere come, in una selva oscura, perché la strada giusta («la diritta via») era smarrita. Abbiamo la certezza che per il Poeta questo passaggio coincideva con i trentacinque anni, perché in un’altra sua opera, il Convivio, dà proprio quest’indicazione, e la dà fondandosi su quello che, nel merito, c’era scritto nella Bibbia e nelle opere dei grandi filosofi antichi, primo fra tutti Aristotele. Poi aggiunge che dire come fosse fatta questa «selva selvaggia» è una cosa «dura», cioè difficile, se non impossibile, perché, solo a pensarci, gli ritorna la stessa paura di quando ci si trovò. Mettiamoci al suo posto: come staremmo noi se ci capitasse di finire in una selva completamente buia? Anche senza pensare di essere finiti nel territorio del peccato e del male, avremmo una gran paura; potremmo addirittura morire di paura, e non sarebbe un’iperbole, un’esagerazione retorica, proprio come non è un’esagerazione retorica, per Dante, dire che, rispetto a questa selva, la morte è poco, soltanto poco di più.
La seconda terzina che leggerete si apre con la parola «Ahi». Grammatiche e vocabolari c’insegnano che ahi è un’esclamazione, una parola che equivale a un’intera frase e che esprime un lamento. Ahi esiste da che italiano è italiano: se ne trovano esempi nei componimenti dei poeti siciliani, che si collocano all’inizio della storia della nostra letteratura, fra primo e secondo quarto del Duecento. Ma ahi è anche una parola che esiste da quando cominciamo a esistere noi: è fra le prime che impariamo a usare, ogni volta che dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri che stiamo provando un dolore. Con quell’«Ahi!» Dante ci ricorda che il dolore appartiene alla nostra condizione di esseri umani. Poi, però, inanella due «Ma» che segnano un’inversione di rotta, e illuminano la selva oscura in cui tutti, chi più chi meno, siamo finiti, finiamo o finiremo per trovarci in un momento della vita, e ci avvisa che perfino in quella selva potremo incappare nel bene. Se il tratto che domina i versi che precedono i due «Ma» è il buio, quello che domina i versi che seguono, in particolare il secondo, è la luce: quando – racconta Dante – arrivai ai piedi di un colle dove finiva la selva che, per la paura, mi aveva «compunto» (cioè amareggiato) il cuore, guardai in alto e ne vidi i pendii già ricoperti dei raggi del pianeta che conduce ognuno dritto per la sua strada. Il pianeta in questione è il Sole: Dante lo chiama pianeta perché la visione medievale dell’universo, che era anche la sua, considerava il Sole uno dei sette pianeti che giravano intorno alla Terra.
Il Sole è ampiamente presente nella Commedia. La parola che lo indica ricorre 13 volte nell’Inferno, 56 nel Purgatorio e 47 nel Paradiso. Qui, però, Dante non lo indica col suo nome, ma con un giro di parole: è il pianeta «che mena dritto altrui per ogni calle», cioè che con la sua luce conduce ognuno per la strada giusta.
È un Sole che tranquillizza: dopo che lo ebbe visto, la sua paura, che «nel lago del cor gli era durata», si calmò. Il «lago del cor» è la cavità interna del cuore; nel Medioevo era opinione comune che in essa si trovassero le passioni umane, compresa la paura che abitò il cuore di Dante quando si smarrì, in quella notte passata con tanta pièta. Dobbiamo leggere la parola così, con l’accento sulla e e non sulla à finale, non solo per ragioni metriche (pièta è in rima con queta), ma anche per ragioni di significato: nella lingua di Dante la forma pièta significa ‘angoscia’, ‘affanno’, diversamente dalle varianti pietà, pietate e pietade, che generalmente (ma non sempre) significano ‘compassione’, ‘misericordia’.
Un’ultima curiosità. In uno dei manoscritti della Commedia il penultimo dei versi che leggerete è un po’ diverso: «Allor fu la paura un poco queta / che nel lago del cor m’era ’ndurata». Se Dante avesse scritto così, dovremmo parafrasare: «Allora si calmò un po’ la paura che aveva reso la cavità interna del cuore dura come il ghiaccio». Che cosa avrà scritto il Poeta nel testo originale, purtroppo andato perduto? Non lo sappiamo. Eccoci davanti a un primo dubbio: e abbiamo appena cominciato a leggere.
Giuseppe Patota, professore ordinario
di Linguistica italiana nell’Università di Siena, è socio
corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Accademico
della Crusca e dell’Arcadia, membro del direttivo della Fondazione
“I Lincei per la scuola” e del comitato scientifico della
Fondazione Natalino Sapegno. Ha al suo attivo circa centottanta
pubblicazioni scientifiche, didattiche o divulgative dedicate alla
lingua italiana, alla sua storia e al suo insegnamento. Alcuni suoi
lavori sono stati tradotti e pubblicati in Francia e in Giappone. È
condirettore, con Valeria Della Valle, delDizionario
dell’italiano Treccanie direttore del Thesaurus Treccani,
usciti in prima edizione nel 2018 e in seconda edizione nel 2022. Da
oltre quindici anni è consulente di Rai Scuola per la realizzazione
di programmi destinati all’insegnamento dell’italiano a
stranieri. Per Laterza ha pubblicato Prontuario di grammatica.
L’italiano dalla A alla Z (2013), La grande bellezza
dell’italiano. Dante, Petrarca, Boccaccio (2015) e La
grande bellezza dell’italiano. Il Rinascimento (2019).
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