Jinwoo Chong
FLUX(titolo originale
Flux, 2023)
traduzione di Luca Briasco
minimum fax
ottobre 2024
pp. 349, euro 19
ISBN 978-88-3389-570-3
Poco prima di Natale Bo perde sua
madre, investita da un autobus e dal flusso del tempo.
Vent’anni dopo Brandon perde il lavoro, perché il giornale per cui
scrive deve proteggere il flusso di cassa. Viene poi avvicinato
da un uomo che, senza conoscerlo, gli offre un lavoro e un
appartamento. La generosa azienda si chiama Flux, e giura di
aver realizzato una batteria che non si scarica mai.
Brandon accetta quasi distrattamente, pietrificato da una
solitudine emotiva da cui riesce a liberarsi solo quando
riguarda le puntate di una serie poliziesca degli anni Ottanta,
l’unico ricordo felice della sua infanzia e del rapporto col padre.
Passano altri vent’anni e Blue, che
può parlare solo con l’aiuto di un dispositivo elettronico, torna
nella sede abbandonata di Flux per cercare risposte sul proprio
passato. Magari la misteriosa compagnia non ha inventato una batteria
infinita, ma di sicuro ha trovato il modo di infrangere il
flusso del tempo come un specchio, nelle cui schegge, forse,
c’è la madre di Bo, ancora viva.
Tra fantascienza e dramma, Jinwoo
Chong scrive un’ambiziosa metafora sentimentale
sull’unidirezionalità del tempo, che può incrinare anche il più
sincero dei legami, facendo sorgere il desiderio di una
scappatoia fantastica, di un flusso di energia senza fine da
usare per tornare in un passato ideale in cui però non c’è
più nessuno, se non un implacabile silenzio.
L'incipit
La tua frase era sempre: «Dammi un
motivo». Sempre. E poco importa che fosse e che continui a essere il
tormentone più scadente mai scritto per un episodio pilota, con
quella voce roca da detective story. Era la tua caratteristica, eri
l’uomo che voleva che tutti nel mondo ti dessero un motivo, il
motivo, qualsiasi motivo, e per la maggior parte, diciamo pure per
quasi tutti gli episodi del 1985 e del 1986, la gente lo faceva.
Quando pronunciavi quella frase, tutto tornava al suo posto. I tuoi
sceneggiatori sono stati geniali. Ci hanno tirati dentro – mi hanno
tirato dentro – perché, soprattutto, ti amavamo troppo per vederti
fallire. Ecco perché la serie ha funzionato. Dopo l’episodio
pilota e le prime battute, avete trovato la vostra strada con
l’episodio ambientato a Little China (stagione 1, episodio 14,
«Fratture del cuore»), dopo il quale sei stato inarrestabile.
Amavamo il tuo viso cesellato, la tua aura oscura e i tuoi occhi
duri. Eri bello, astuto, giovane – uno dei più giovani detective
della polizia – @minimumfax 12 e raccoglievi l’eredità di tua
madre e di tuo padre, uccisi durante un’irruzione in casa quando
eri ancora un bambino (come è stato ricostruito nella stagione 2,
episodio 4, «Dove volete, quando volete», a partire da un incendio
in casa accennato nell’episodio pilota). Hai ottenuto ciò che
volevi, li inchiodavi ogni volta, eri un passo avanti, una spanna
sopra tutti. Ti ho amato. Davvero, amico, ti ho amato. Non sopporto
la sorte che ti è toccata, quello che dicono di te, che sei
derivativo, che sei tossico, perché niente di tutto questo è colpa
tua. Perché ogni giorno, dopo la scuola, ero il bambino che tirava
fuori le videocassette e guardava le repliche ormai consumate degli
anni Ottanta, finché non mi sgridavano. Ho ancora tutti gli episodi,
digitalizzati e salvati su una chiavetta, che riproduco sul mio
portatile per addormentarmi. A mia madre non è mai piaciuta la
serie, diceva sempre che era troppo violenta. Non le piacevano le
pistole, e a differenza mia non capiva che il vostro mondo funzionava
così. Tu vuoi un motivo, Thomas Raider, un motivo, il motivo per il
quale è successo tutto, e io te lo fornirò. Questo ti fa
arrabbiare; vuoi delle risposte adesso, ne sono certo, e per questo
ti dico: fa’ un favore a te stesso, gioca un po’ a far finta di
niente, con me. Non dovrebbe riuscirti difficile. Non sei nemmeno
reale. L’aspetto più stupido nel modo in cui ti stanno demolendo
ultimamente è che tutti dimenticano che Raider ha definito un intero
genere televisivo. Tre anni dopo Hill Street Blues, due dopo New
York, New York, questa era una serie tv che giocava al buio. Sapete
perché avete fatto solo due stagioni? I critici non erano pronti,
non riuscivano a sopportare il sangue e i cadaveri, troppo
dettagliati, troppo spaventosi per il formato 4:3. I conservatori
contestavano la tua disinvoltura nel bere e nel fare sesso, il fatto
che tu non abbia mai sorriso, nemmeno una volta, per qua- @minimumfax
13 rantasei episodi. I nerd di mezza età di oggi sarebbero impazziti
per te, si sarebbero vestiti come te per il Comic-Con e avrebbero
difeso le tue abiezioni da donnaiolo impenitente con le loro mogli e
fidanzate. Facevi i conti con una crudezza che non può essere
sottaciuta: gli spigoli duri dei vicoli, i tuoi vestiti sporchi,
quella cazzo di giacca di pelle. Sai, sarei disposto a uccidere, per
quella giacca. Eri un re quando la indossavi. Non dimenticare che
Raider è stato uno dei pochi show che hanno portato gli asiatici in
tv. Nella seconda stagione operavi quasi esclusivamente tra noi, tra
i negozianti e gli immigrati. Ci spingevamo oltre le frasi in
cantonese non sottotitolato, i maestri di kung fu o i sicari al soldo
del drago. Ti hanno persino dato un figlio, quel monello di strada di
sei anni, Moto (stagione 2, episodio 6, «Pietà per i dannati») che
hai salvato da un giro di droga. Pensavo di assomigliare a quel
bambino. Immaginavo di essere lui e che tu fossi il mio vero padre,
venuto a portarmi via. È il mio episodio preferito. È il promo che
mostrano ogni volta che in qualche speciale si parla di Raider. Tu,
con un trench, in penombra, che tieni in braccio quel piccolo
asiatico e fissi la pioggia scura che cade intorno a te e penetra
nella mia anima.
Jinwoo Chong, nato nel1995, vive a New
York, dove collabora con il New York Times. Laureato alla
Columbia University, ha pubblicato racconti su Guernica, The Southern
Review, The Rumpus, LitHub, Chicago Quarterly Review ed Electric
Literature. Flux è il suo primo romanzo.