martedì 22 ottobre 2024

Zack Beauchamp - LO SPIRITO REAZIONARIO - minimum fax

  
Zack Beauchamp
LO SPIRITO REAZIONARIO
Come il lato oscuro della politica americana ha infettato tutto il mondo

(titolo originale The Reactionary Spirit. How America’s Most Insidious Political Tradition Swept the World. 2024)
traduzione di Luca Briasco
minimum fax
ottobre 2024
pp. 287, euro 18
ISBN  978-88-3389-571-0

 
C’è una contraddizione fondamentale al cuore della politica americana, che perdura sin dalla fondazione degli Stati Uniti: man mano che la democrazia progredisce e si consolida, ci sarà sempre una fazione reazionaria che si oppone al cambiamento e cerca di incrinarne le basi; man mano che gli ideali di libertà e uguaglianza si diffondono concretizzandosi in leggi e sentimenti più inclusivi, fenomeni come la xenofobia, la discriminazione e la divaricazione sociale vanno di pari passo.
Negli ultimi anni questa discrepanza si è tradotta in un populismo di destra aggressivo fino alla ferocia, che utilizza le armi e le regole della democrazia per minarne le fondamenta dall’interno. Questo nuovo reazionarismo – che non si propone di abbattere le istituzioni democratiche ma di piegarle ai propri scopi – è un fenomeno che ha cessato da tempo di essere squisitamente americano e che si è esteso, con modalità talvolta differenti ma con la medesima base ideologica e pragmatica, all’Asia e all’Europa, fino a bussare alle nostre porte. Attingendo a un’ampia esperienza personale, e alternando con sapienza la teoria politica e l’analisi degli ultimi sviluppi in paesi che vanno da Israele all’India, dalla Cina all’Ungheria, Beauchamp spiega con dovizia di dettagli come determinate contraddizioni siano intrinseche al progetto stesso della democrazia, e come lo spirito reazionario, che in passato aveva cercato di respingere e negare quel progetto, ora ne adotti il linguaggio per sovvertirlo, dimostrandosi, in questo, ancora più insidioso.

dall'Introduzione
Nel marzo 2013 mi sono recato al Gaylord National Resort and Convention Center, un’imponente struttura al coperto situata a sud di Washington dc, e ho assistito all’insorgere di una crisi democratica. Il Gaylord ospitava la Conservative Political Action Conference (cpac), il raduno di punta della destra politica americana. All’epoca, il Partito repubblicano era ancora plasmato da un’idea di Tea Party: i partecipanti alla cpac indossavano cappelli a tricorno e sventolavano bandiere di Gadsden alla maniera dei manifestanti anti-Obama che si erano sollevati quattro anni prima. Il mio compito principale alla conferenza era quello di documentare, come meglio potevo, l’estremismo che si stava radicando nel gop. Ero un piccolo reporter di un blog liberale, quindi i politici repubblicani non facevano esattamente la fila per parlare con me. Li inseguivo per i corridoi, urlando domande, ottenendo il più delle volte solo rapide fughe o un silenzio di tom- @minimumfax 10 ba. Un’altra strategia si è rivelata più fruttuosa: partecipare alle piccole sessioni collaterali della conferenza per vedere cosa dicevano i relatori e i partecipanti quando si trovavano in uno spazio sicuro. Io e un mio collega ci siamo presentati a una sessione intitolata «Trump the Race Card» («Giocare la carta della razza»). Mentre qualsiasi presentazione con questo titolo oggi sarebbe su Donald, questa non lo era (anche se Trump ha parlato alla conferenza). La sessione era coordinata da un uomo di nome K. Carl Smith, il fondatore dei Frederick Douglass Republicans, un gruppo che pretendeva di vendere idee conservatrici al pubblico nero. Dopo che Smith ha ultimato la sua presentazione, un uomo con i capelli a spazzola e una barba sottile si è alzato per fare una domanda. Si è identificato come Scott Terry, del North Carolina. «Mi sembra che lei si stia rivolgendo agli elettori – il metodo, il programma che ci sta offrendo – a spese dei giovani maschi bianchi del Sud come me», ha detto Terry. Sentendo questo, ho iniziato immediatamente a filmare il panel con il mio telefono. «Mi sembra che la mia gente, il mio gruppo demografico, sia stato escluso dal sistema», ha continuato Terry. «Perché non possiamo essere repubblicani seguendo l’impostazione di Booker T. Washington e della sua famosa dichiarazione: “Siamo uniti come la mano, ma separati come le dita”?» La frase deriva dal discorso di Washington a una fiera agricola e culturale ad Atlanta nel 1895, in cui il principale intellettuale nero offrì ai bianchi un compromesso: aiutare a migliorare lo stato economico della popolazione nera, che in cambio avrebbe tollerato la segregazione e l’esclusione dalla scena politica. Washington cercava di fare il possibile per una comunità profondamente vulnerabile. La Ricostruzione era terminata da @minimumfax 11 poco e i bianchi del Sud in ascesa erano impegnati nella realizzazione dell’ordine politico segregazionista, o Jim Crow. Scott Terry non vedeva la segregazione come qualcosa di inevitabile nel breve termine ma che alla fine avrebbe dovuto cessare, come Washington, ma come un ideale affermativo, una politica a cui il paese dovrebbe tornare oggi. Non era chiaro se Smith avesse capito subito cosa Terry stava realmente dicendo. Ha iniziato a spiegare perché aveva dato alla sua organizzazione il nome di Frederick Douglass piuttosto che quello di Washington, raccontando la storia del grande attivista antischiavista che scrisse una lettera nella quale perdonava il suo ex padrone. Terry, per tutta risposta, chiese perché il padrone avesse bisogno di essere perdonato. Perché avrebbe dovuto scusarsi «per aver dato [a Douglass] rifugio e cibo per tutti quegli anni?», chiese Terry. Smith cercò di replicare – «Lasciatemi rispondere alla prima domanda» – ma fu soffocato da un’eruzione del pubblico. Alcuni ridevano, come se pensassero che Terry stava scherzando. Altri applaudivano. Terry ha continuato, borbottando: «Perché non possiamo avere la segregazione?», senza rivolgersi a nessuno in particolare. Alla fine, un moderatore del cpac è intervenuto per ristabilire l’ordine.


Zack Beauchamp è nato e vive a Washington. Ha conseguito un dottorato in Relazioni internazionali alla London School of Economics. Nel corso della sua carriera di giornalista e reporter si è concentrato sullo studio delle idee che plasmano il panorama politico. Da anni è corrispondente per Vox, dove si occupa principalmente di populismo di destra e delle falle del sistema democratico negli Stati Uniti e all’estero, e sempre per Vox conduce Wordly, un podcast settimanale dedicato alla politica estera.

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