Tillie Olsen
FAMMI UN INDOVINELLO
(titolo originale Tell Me a Riddle, Philadelphia, Lippincott, 1961)
prefazione di Laurie Olsen
introduzione di Rebekah Edwards
traduzione di Giovanna Scocchera
Marietti 1820
Collana Gli Zefiri n.1203
ottobre 2024
pp. 164, euro 17,80
EAN 9788821175466
Pubblicati per la prima volta nel 1961, i racconti contenuti in Fammi un indovinello sono diventati un classico della letteratura nordamericana del Novecento. Un’opera snella ma potente, che per la prima volta esplorava temi vicini alle donne della working class, problemi comuni fin lì mai detti o rimasti inascoltati: la maternità delle madri single, il legame madre-figlia, il rapporto coniugale della vecchiaia, dentro un mondo narrativo che coglie senza indulgenza tutta la desolazione della realtà contemporanea, l’oppressione, la miseria, ma anche la forza positiva del ricordo, della ricerca del sé e della sua realizzazione. Con una scrittura sferzante e pungente, Tillie Olsen tratteggia con implacabile compassione e profonda pietà le storie di uomini e donne, vecchi e bambini, bianchi e neri colti nelle vicissitudini dell’esistenza. Sono storie di solitudine, pregiudizi, violenza, frustrazioni, ma anche amicizia, cura e solidarietà, scritte in una prosa densa, viva, e che spezza il cuore.
L'incipit
Sono qui che stiro, e quello che mi ha chiesto si muove tormentato avanti e indietro insieme al ferro.
«Sarebbe opportuno che trovasse il tempo di venire da me per parlare di sua figlia. Di certo può aiutarmi a capirla. È una ragazza che ha bisogno di aiuto e che è mio sincero interesse aiutare».
«Che ha bisogno di aiuto»… Se anche venissi, a cosa servirebbe? Pensa che solo perché sono sua madre io abbia una chiave, o che in qualche modo potrebbe usarmi come chiave? Vive da diciannove anni. C’è tutta una vita che si è svolta fuori di me, oltre me.
E quando mai c’è tempo per ricordare, vagliare, soppesare, valutare, tirare le somme? Se inizio, qualcosa di sicuro mi interrompe e devo rimettere tutto quanto insieme un’altra volta. Oppure vengo travolta da tutto quello che ho o non ho fatto, da ciò che doveva essere e ciò che non si può evitare.
Era una bambina bellissima. La prima e unica dei nostri cinque figli a essere nata bella. Non immagina neanche quanto sia nuovo e scomodo per lei abitare la graziosità di adesso. Non l’ha conosciuta in tutti quegli anni in cui era considerata bruttina, non l’ha vista studiare le fotografie di quando era piccola, costringendomi a ripeterle di continuo quanto fosse bella – e quanto lo sarebbe stata, le dicevo – e lo era anche adesso, a un occhio attento. Ma gli occhi attenti erano pochi o inesistenti. Compresi i miei.
L’ho allattata. Oggi la considerano una cosa importante. Ho allattato tutti i figli, ma con lei, con lo spietato rigore della prima maternità, facevo come dicevano allora i libri. Anche se i suoi pianti mi scuotevano fino a farmi tremare e i seni mi dolevano tanto erano gonfi, aspettavo finché l’orologio non decretava che era ora. Perché comincio da questo? Non so neanche se importi, o se spieghi qualcosa. Era una bambina bellissima. Soffiava scintillanti bolle di suono. Amava il movimento, amava la luce, amava i colori e la musica e la diversa consistenza delle cose. Se ne stava distesa con la sua tutina azzurra a battere in estasi mani e piedi sul pavimento finché quasi non si distinguevano più. Per me lei era un miracolo, ma a otto mesi fui costretta a lasciarla durante il giorno con la signora del piano di sotto, per la quale non era affatto un miracolo, perché io lavoravo, cercavo lavoro o cercavo il padre di Emily, che «non sopportava più» (così scrisse nel biglietto di addio) «di condividere con noi la miseria». Avevo diciannove anni. Era il mondo pre-sussidi e pre-assistenzialismo della Depressione. Scendevo di corsa dal tram, di corsa salivo le scale, l’odore di rancido in casa, e lei già sveglia o svegliandosi di soprassalto, quando mi vedeva scoppiava in un pianto ingolfato che non si riusciva a consolare, un pianto che sento ancora. Dopo un po’ trovai lavoro di notte in una tavola calda per poter stare con lei durante il giorno, e le cose andarono meglio. Ma arrivai a un punto che dovetti portarla dalla famiglia del padre e lasciarla. Ci volle molto tempo per racimolare i soldi del biglietto di ritorno. Poi prese la varicella e dovetti aspettare ancora. Quando alla fine arrivò, quasi non la riconoscevo, con quel modo svelto e nervoso di camminare come suo padre, e con l’aspetto di suo padre, magra, e vestita di un rosso insulso che le ingialliva la pelle e metteva in risalto i butteri. Tutta la bellezza di quand’era neonata scomparsa. Aveva due anni. Abbastanza grande per l’asilo, dissero, e allora non sapevo quello che so adesso – la fatica delle lunghe giornate, e le lacerazioni della vita di gruppo in quel genere di nidi che sono solo parcheggi per bambini. Peccato però che non avrebbe fatto nessuna differenza se anche l’avessi saputo. Era l’unico posto che c’era. Era l’unico modo per poter stare insieme, l’unico modo per mantenere un lavoro.
Tillie Lerner Olsen (1912-2007) è figlia di ebrei russi di militanza socialista, immigrati negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. A vent’anni, già membro della Lega dei giovani comunisti, ha la prima figlia, che chiama Karla in onore di Karl Marx, da un uomo che l’abbandona subito dopo. È costretta, quindi, a lavorare senza sosta per il sostentamento della famiglia. Fa la cameriera, la lavandaia, l’operaia, la saldatrice. Partecipa al nascente movimento sindacale nella San Francisco degli anni Trenta, dove incontra il suo futuro marito, Jack Olsen, con cui ha altre tre figlie. Sono gli anni di un intenso attivismo che le costa, nel periodo maccartista, due arresti e la sorveglianza da parte dell’FBI. Solo nel 1955 grazie a una borsa di studio a Stanford, e con le figlie ormai cresciute, può dedicarsi alla scrittura, che aveva amato da sempre ma frequentato in modo solo frammentario. Nel 1961 esce Tell Me a Riddle che la consacra al successo. Nel 1974 pubblica Yonnondio, un romanzo cominciato quarant’anni prima, e nel 1978, infine, la raccolta di saggi Silences, in cui indaga la letteratura delle donne e della classe operaia. Con una produzione attenta ai temi del lavoro, della condizione femminile e della militanza politico-sociale, Tillie Olsen diventa una voce libera, potente e pluripremiata della letteratura nordamericana del XX secolo.
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