HOLY CITY
(titolo originale Holy City, 2024)
traduzione di Olimpia Ellero
Carbonio Editore
collana Cielo Stellato 63
ottobre 2024
pp. 352, € 19,50
ISBN 9791280794444
Will Seems è tornato a casa, nella
contea di Euphoria, Southside della Virginia. Al padre, che ha
cercato fino all’ultimo di dissuaderlo perché «là non c’è più
niente», ha risposto: «C’è la mia storia». Così, dopo dieci
anni, ha lasciato Richmond – “Holy City”, la “Città Santa”
– ed è tornato a vivere nella fatiscente tenuta di famiglia per
fare i conti con un passato a cui non può più a sfuggire. Di notte,
mette in moto il suo pick-up e guida fino a sfiancarsi per sopportare
il peso dell’inquietudine che lo assale; di giorno, ricopre la
carica di vicesceriffo della contea. Suo capo è il navigato sceriffo
Jefferson Mills, in scadenza di mandato e già al lavoro per la sua
rielezione. Che la contea sia in balìa della criminalità è
questione secondaria; l’importante è che si mantengano gli
equilibri di potere, consentiti dal ‘giro di favori tra vecchi
amici’, a qualsiasi prezzo, anche se ci scappa il morto. E il morto
ci scappa: è Tom Janders, un giovane Nero trovato senza vita
nel rogo della sua casa. È stato pugnalato alla schiena e rinvenuto
coi pantaloni abbassati. Dalla scena del crimine è stato visto
dileguarsi Zeke Hathom, un altro membro della comunità nera locale,
incensurato e benvoluto da tutti, che da unico sospettato diventa ben
presto presunto colpevole. Will è fermamente convinto dell’innocenza
del signor Hathom, che conosce da sempre e che gli ricorda come non
mai la tragica ragione del suo ritorno a Euphoria.
La legge
odiosa della sopraffazione sembra averla vinta anche questa volta, ma
Claudette Janders, la madre di Tom, non si rassegna a un copione già
visto, reclama giustizia e per questo ingaggia Bennico Watts, una
combattiva detective privata di Richmond. Lei e Will devono trovare
insieme il vero assassino.
L’indagine conduce i due allo
Snakefoot Swamp, il posto più dimenticato della contea dimenticata
di Euphoria, un mondo sotterraneo e selvaggio che per secoli è stato
il nascondiglio degli schiavi scappati dalle piantagioni e che adesso
è il quartiere dove i loro discendenti convivono insieme a bianchi
emarginati e allo sbando.
È lì che affonda la più tetra
delle verità possibili.
Per il suo romanzo d’esordio, Henry
Wise porta fino in fondo la sfida di fare dei Grandi Temi morali –
colpa e perdono, coraggio e riconoscenza, responsabilità personale e
dovere pubblico – materia narrativa, centrando l’obiettivo. Holy
City è un thriller maestoso e rovente sull’America degli
ultimi, che racconta sia come la giustizia individuale possa
rivelarsi la più giusta, sia come invece possa sfociare in una
vendetta sanguinosa e perversa.
L’autore mette a
confronto la città – grande, pulsante e ‘sempre più
giovane’ – e la periferia più sperduta del Sud più profondo
degli Stati Uniti. A nemmeno due ore da Richmond, la piccola contea
di Euphoria sembra un altro pianeta, dove la sconfitta della
Guerra di Secessione brucia ancora e resta inscalfibile il ricordo
degli schiavi che, per fuggire dai campi di tabacco, guadavano
esausti le acque limacciose delle paludi. A dispetto del nome,
Euphoria è un luogo remoto e immobile dove neri e bianchi
continuano a mantenere le distanze, malgrado la segregazione razziale
sia stata abolita da diversi decenni. Da una parte, la comunità nera
è sostenuta da una spiritualità religiosa inattaccabile che
coincide con una forza d’animo esemplare, specialmente nelle donne,
ed è coesa e solidale – pollo fritto, uova alla diavola,
cavolo nero passano di casa in casa. Dall’altra, un
sottoproletariato bianco, inerte e rabbioso, vivacchia tra roulotte,
case mobili, motel a ore, aree di servizio, catene di fast
food.
Sullo sfondo spicca regale una vegetazione di
spettacolare varietà – cipressi, frassini, tupeli, pini, piante di
kudzu, fiori selvatici, glicini, noci pecan, edera, caprifoglio,
ligustri –, un rigoglio di vita impermeabile a tutto, persino alla
voce furiosa del predicatore che non smette mai di strepitare dalle
radio accese.
Forte di una lingua cesellata, vivida,
fiammeggiante e di uno stile poetico e ruvido, Henry Wise debutta
nella narrativa senza timidezze. Il suo è un esordio maturo, dove la
psicologia tormentata dei personaggi e l’estremo realismo degli
ambienti rendono ancora più nitida la sua denuncia contro qualunque
discriminazione.
Fu sognare il fuoco a devastarlo. Sedeva rigido come un gatto stecchito, cercando a tentoni l’impugnatura della pistola sotto al sedile, con calma. La triste notte lo raggiunse di nuovo, solo una delle tante, passata a guidare all’infinito, ad ascoltare la furiosa parola di Dio proveniente da una leggera interferenza in lontananza, una voce al tempo stesso austera e intima, che sembrava rivolgersi direttamente a lui con una sicurezza lacerante. E lui l’ascoltava perché là fuori non c’era altro – nessuna stazione radio – tra frazioni, paesi e incroci stradali, di cui qualcuna, a un certo punto, doveva essere stata con ogni probabilità una cittadina, e nulla da vedere nel mezzo, se non un paesaggio che ondeggiava in cerca di una sorta di equilibrio: un palpito che si riusciva a cogliere solo coprendone le distanze, sorprendente perché per il resto la campagna sembrava morta. Non era la soffice e verdeggiante vegetazione che ricordava una giungla, tipica di buona parte della Virginia, ma una terra dura, ispida, grezza. Le strade solitarie si snodavano come serpenti nella fitta macchia o in campi aperti o nei boschi completamente abbattuti per ricavarne legname, lasciando il terreno spoglio e strano come un orso scuoiato. E mentre superava le case che crollavano come crateri, coperte di kudzu o dove l’edera velenosa e il ligustro selvatico erano cresciuti in mezzo a pezzi di intonaco verniciato, da qualche parte là fuori in un’oscurità tappezzata di boschi giungeva quella voce tenebrosa, paterna, familiare, amichevole, che alludeva alla violenza, alla malizia; la voce pulita, austera, penetrante e carica di aspettative di un qualche famoso predicatore locale in mezzo a una campagna in cui il crimine dilagava in maniera sconcertante. Will Seems era tornato dopo dieci anni trascorsi a Richmond – ‘Holy City’, la ‘Città Santa’ – in una terra che, ogni giorno di quei dieci anni, aveva chiamato ‘casa’, una zona che – ora se ne rendeva conto – era popolata da una comunità eterogenea e smarrita. L’anno prima, un uomo aveva tagliato la gola alla moglie con un coltello a serramanico Buck, per poi spararsi subito dopo con una Walther ppk: un fallimento su entrambi i fronti. La moglie, prima di chiamare il 911, era riuscita a fermare l’emorragia tamponandosi il collo con un cuscino e l’uomo si era risvegliato in una stanza d’ospedale senza gran parte della mascella e con un paio di ceppi alle caviglie. Poi, pochi mesi fa, un tizio della contea di Halifax, fermato perché aveva il fanalino posteriore fulminato, aveva sparato a un poliziotto, uccidendolo, e si era allontanato in macchina indisturbato. A tutt’oggi non ce n’era traccia. Ma uno degli episodi più strani era avvenuto solo di recente. Qualcuno in città aveva presentato un reclamo perché da una certa casa proveniva un odore terribile. La donna sola e di mezza età che ci viveva aveva avvolto la madre – deceduta per cause naturali – in una serie di coperte, lasciando il cadavere in casa per più di due mesi. Will ricordava come si era svolta l’indagine: con indosso mascherine che mitigavano a stento il tanfo, e gli occhi che lacrimavano, erano arrivati a contare centosedici deodoranti per ambienti che vaporizzavano il loro profumo sulle trapunte. Lo sceriffo era stato ben contento di lasciare a Troy St. Pierre, il medico legale, il compito di rimuovere il cadavere, ma lui e Will erano rimasti accanto alla figlia della defunta. Quando glielo avevano chiesto, la donna non era riuscita a spiegare perché non avesse denunciato la scomparsa della madre, l’unica ragione per cui avevano motivo di arrestarla. Will vedeva in lei una mesta e infantile disperazione che non doveva essere un
caso isolato; l’aveva già vista sui volti della gente del luogo: un avvizzito, disperato, ottuso senso di sconfitta. Will ipotizzò che fosse talmente spaventata dall’idea di stare sola a questo mondo da arrivare a considerare persino una defunta come una gradita compagnia.
Henry Wise (1982) si è laureato al Virginia Military Institute e ha conseguito un Master of Fine Arts all’Università del Mississippi. Scrittore eclettico e appassionato di poesia e fotografia, i suoi lavori sono stati pubblicati su “Shenandoah”, “Nixes Mate Review”, “Radar Poetry”, “Clackamas” e altre importanti riviste, fra cui la pluripremiata “Southern Cultures”. Holy City è il suo esordio letterario.
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