Jorge Baron Biza
IL DESERTO
(titolo originale El desierto y su semilla, Eterna Cadencia Editora, 2013)
traduzione di Gina Maneri
postfazione di Alan Pauls
La Nuova Frontiera
collana Liberamente
Opera pubblicata grazie al Programma “Sur” di aiuto alle traduzioni del Ministero degli Affari Esteri, Commercio Internazionale e Culto della Repubblica Argentina.
febbraio 2025
pp. 256, € 18,50
ISBN 9788883734816
Arón Gageac, autore di romanzi scandalosi e figura controversa della politica argentina, ed Eligia Presotto, influente pedagoga e acerrima nemica di Eva Perón, hanno una relazione tormentata, segnata da rotture e riconciliazioni che culminano in un atto tragico e devastante: mentre stanno per firmare i documenti che sanciranno il divorzio, Arón lancia contro Eligia un bicchiere pieno di vetriolo, sfregiandola, sotto gli occhi del figlio Mario, spettatore impotente di un orrore che segnerà per sempre la sua vita.
Dall’Argentina all’Italia, madre e figlio intraprendono un doloroso viaggio tra cliniche e ospedali, inseguendo una ricostruzione che è tanto fisica quanto emotiva. Eligia combatte per riprendersi il volto e la dignità, mentre Mario si smarrisce nel mistero di un padre enigmatico e violento e nei bassifondi della Milano del boom economico, per dare un senso a un’eredità di amore e distruzione.
Questa è la storia vera di Jorge Baron Biza e della sua famiglia.
L'incipit
Nei momenti che seguirono l’aggressione, Eligia era ancora rosea e simmetrica, ma di minuto in minuto le linee dei muscoli del viso cominciarono a incresparsi, un viso ancora molto liscio fino a quel giorno, nonostante i quarantasette anni e un intervento giovanile di chirurgia estetica cui doveva il nasino corto e all’insù. Quella spuntatina volontaria che per trent’anni aveva conferito alla sua testardaggine un’aria di audacia impostata divenne il simbolo della resistenza alle grandi trasformazioni che l’acido stava operando. Le labbra, le rughe attorno agli occhi e il profilo delle guance si andavano trasformando con un andamento antifunzionale: alla comparsa di una curva in un punto che non aveva mai avuto curve corrispondeva la scomparsa di una linea che fino a quel momento aveva costituito un tratto inconfondibile della sua identità. Il volto ingenuamente sensuale di Eligia cominciò a congedarsi dalle proprie forme e dai propri colori. Sotto i tratti originari si generava una nuova sostanza: non un volto privo di sesso, come avrebbe voluto Arón, ma una nuova realtà, svincolata dall’obbligo di assomigliare a un volto. Fu l’inizio di una nuova genesi, un sistema governato da leggi sconosciute. Chi ebbe modo di vederla tutti i giorni di agosto, settembre, ottobre e novembre 1964 ne ricavò l’impressione che la materia di quel volto si fosse del tutto liberata dalla volontà della sua proprietaria e potesse tramutarsi in qualunque forma nuova, tingersi delle sfumature riservate ai crepuscoli più intensi e danzare in tutte le direzioni, mentre, al centro, il naso civettuolo resisteva ancora, essendo l’unico elemento artificiale del volto precedente. Fu un’epoca agitata e colorita della carne, tempo di licenze in cui i colori, slegati dalle forme, ricordavano le macchie sfocate cui i cineasti ricorrono per rappresentare l’inconscio, nel senso peggiore e più candido della parola. Quei colori si lasciavano alle spalle ogni cultura, si facevano beffe di ogni tecnica medica che cercasse di ricondurli a un principio ordinatore. Mentre la portavamo in ospedale dalla casa di Arón – con l’automobile di uno degli avvocati che prima dell’incontro mi avevano giurato che non sarebbe accaduto nulla di male – si toglieva i vestiti brucianti, fradici. I riflessi delle luci al neon del centro passavano fugaci sul suo corpo. Imboccata la via dei cinema, il semaforo ci trattenne, mentre una folla di sfaccendati passeggiava con calma, indifferente al nostro clacson. Qualcuno, ogni tanto, spiava dentro l’abitacolo, senza capire se si trattasse di una scena erotica o funesta. Le luci sfavillanti e fuggevoli gettavano accordi freddi sulle cromature dell’auto e sul corpo di Eligia. Al cinema all’angolo davano Irma la dolce, e la gigantografia di Shirley MacLaine campeggiava circondata da lineette rosse e viola che si inseguivano tutt’attorno: Shirley aveva una gonna stretta e corta – a quei tempi si vestivano così solo le puttane – e una borsetta dondolante al braccio.
Un grande flusso di compassione mi investì quando si verificò il primo suicidio in famiglia. Quando accadde il secondo, quel flusso si trasformò in un oceano agitato e senza orizzonte. Al terzo, ogni volta che mettevo piede in una stanza posta al di sopra del terzo piano le persone si affrettavano a chiudere le finestre. In scene come questa è rimasta imprigionata la mia solitudine. Per il resto, sono nato nel 1942, mi sono formato in scuole, bar, redazioni, manicomi e musei di Buenos Aires, Friburgo, Rosario, Villa María, La Falda, Montevideo, Milano e New York. Ho letto Mann e tradotto Proust. Per trent’anni mi sono guadagnato da vivere come correttore di bozze, ghost-writer, giornalista (da pubblicazioni per manicomi a riviste per l’alta società) e critico d’arte. - Jorge Baron Biza
Gina Maneri è traduttrice letteraria e docente di traduzione presso la Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli di Milano. Ha tradotto tra gli altri Juan José Saer, Jorge Baron Biza, Juan Carlos Onetti, Ana María Matute, Adolfo Bioy Casares, Marcelo Figueras, Eduardo Mendoza, José Pablo Feinmann. Dal 2013, insieme ad Anna Rusconi, organizza la Scuola estiva di traduzione a Casa Cares, Reggello.
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