IL TEMPO E' UN FIUME
(La migración, 2020 )
traduzione di Ilide Carmignani
Salani, Le Stanze
pp. 240, 2022, Euro 16
ISBN 9788831008471
Il libro
Chicago
2016, nel pieno dell’inverno. Aarón, giovane argentino che studia
negli States, sta facendo ricerche per la sua tesi dottorale su
Giordano Bruno; casualmente viene a conoscenza di un omicidio
avvenuto agli inizi degli anni Novanta: Ioan Culianu, professore di
Storia delle religioni, freddato con un colpo di pistola. La polizia
non è mai riuscita a scoprire né movente né colpevole. Aarón
intraprende così un’indagine personale che fra complotti politici
e servizi segreti lo porterà fino in Romania.
Buenos Aires, 2041.
Il fratello e due cari amici di Aarón, che da venticinque anni non
si capacitano della sua improvvisa sparizione, hanno misteriosamente
ricevuto il suo diario e lo leggono insieme a voce alta durante una
notte infinita di eccessi in una città vagamente distopica. Le
pagine risalgono al periodo in cui Aarón stava lavorando alla sua
tesi a Chicago, e raccontano di strane minacce di morte. Il diario
s’interrompe di colpo...
Romanzo, biografia, diario personale,
epistolario, saggio: costruito come un gioco di specchi, di scatole
cinesi, questo libro trova nella migrazione delle anime il filo rosso
che cuce insieme le vicende dei vari personaggi in una narrazione
trascinante, ricca di sconfinamenti, incursioni filosofiche, giochi
metaletterari, tutto animato da un’autoironia molto sorniona. La
scrittura è ricca, sonora, spesso scoppiettante, scandita come i
meccanismi di un orologio di precisione, magnificamente resa nella
traduzione italiana di Ilide Carmignani. Pablo Maurette ci consegna
un esordio ambizioso e brillante, che mette a frutto l’eredità di
Borges e di Bolaño, aggiungendo qua e là un tocco di noir.
L'incipit
Mi ammazzeranno. Fino a tre ore fa era un sospetto che col passare dei giorni era cresciuto nutrendosi delle mie paure come quelle bestiacce ematofaghe che vivono nei guanciali di piuma e succhiano la vita a chi dorme, prima sprofondandolo in una sonnolenza cronica, poi facendolo ammalare e infine ammazzandolo. Ormai però non ho più dubbi. Sono le undici e un quarto di sera. È giovedì 19 maggio 2016. Me l’hanno detto all’incrocio fra Elston e Spaulding Avenue. You’re a dead man. In realtà è stato più lento e modulato. You are a dead man. Stavo per salire su un taxi e Amelia, che era già a bordo, ha visto l’uomo che usciva dal ristorante e con un cenno delle sopracciglia mi ha fatto capire che stava arrivando qualcuno. Mi sono voltato e l’ho visto. Aveva il grembiule macchiato di cibo, una bandana rossa e dei sandali di plastica. Ho immaginato che avessimo dimenticato qualcosa. Mi ha stupito che mandassero il cuoco. Amelia lo guardava avvicinarsi con attenzione e un mezzo sorriso d’attesa. Il tassista, un etiope o un eritreo, forse un keniota, assisteva alla scena con espressione bovina. Ho tirato fuori il cellulare. Erano le otto e trentatré. Il tassista ci ha messo fretta. We go? Mi sono voltato. Tutto è durato meno di quindici secondi. Molto meno. Dieci. Cinque, forse. Quando me lo sono trovato addosso, mi ha avvolto un tanfo di ascelle, sigarette, colonia alla menta e zuppa di cavolo. Mi ha avvicinato la bocca all’orecchio e con inconfondibile accento rumeno ha sussurrato: you are a dead man. Ha fatto dietrofront ed è rientrato nel ristorante. Io sono salito sul taxi fra l’incredulo e il divertito, come se mi avessero detto qualcosa che riguardava un altro. Siamo partiti. Amelia mi ha accarezzato il lobo dell’orecchio. I am a dead man. Mi ha guardato stupita. Abbiamo riso. I am a dead man. Amelia ha riso ancora. I am a dead man, ho ripetuto forte. Il tassista si è girato, è scoppiato in una risata e poi si è messo a tossire, strozzato dalla saliva. I am a dead man, I am a dead man, I am a dead man, finché Amelia non mi ha fatto tacere con un pizzicotto alla nuca. Tutto molto simpatico, ma è me che ammazzeranno. È meglio che cominci dal principio: la scorsa vigilia di Natale, qui a Chicago. Mi ero comprato un cosciotto di tacchino da Walmart, un barattolo di salsa di mirtilli rossi, patatine arrosto e una bottiglia di vino australiano, Pinot grigio, tappo a vite. Ero solo ed ero contento. Quanta pace, che silenzio, quanto tempo libero da ammazzare con tutta calma per un asso della procrastinazione come il sottoscritto. Fuori, le strade, le auto e gli alberi erano ricoperti da un abbondante manto di neve. La città sprofondata in un silenzio sepolcrale. Le famiglie al calduccio, a guardare la televisione, a impacchettare regali, a preparare la cena. Non molto lontano da casa, i gorilla dello zoo di Lincoln Park dormivano ammucchiati nelle loro culle di segatura. Un po’ più lontano, in centro, i mendicanti più fortunati giocavano a carte in ospizi riscaldati e i meno fortunati vagavano lungo Lower Wacker Drive in cerca di qualche bocchetta che sputasse vapore. E io, solo soletto e contento matto.
L'autore
Pablo Maurette, laureato in Filosofia all’Universidad de Buenos Aires, ha un Master in Greco Bizantino alla London University e un dottorato in Letteratura Comparata alla University of North Carolina. Ha inoltre trascorso un anno a Firenze, al Centro di Studi Rinascimentali della Harvard University, come ricercatore. Con tre libri di saggistica al suo attivo, oggi insegna alla Florida State University e collabora con i giornali più importanti dell’Argentina (Clarín, La Nación,Perfil) e per la Repubblica. Il tempo è un fiume è il suo esordio in campo narrativo.
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