Maria Anna Mariani
L'ITALIA E LA BOMBA
Letteratura nell'era nucleare
Il Mulino
collana Studi e Ricerche
2025
pp. 224, euro 24
ISBN 978-88-15-39244-2
Nel secondo dopoguerra l’avvento del nucleare fa sentire con forza la propria presenza nella società e nel dibattito culturale del nostro paese. L’autrice segue il filo rosso della questione nucleare nella letteratura italiana del Novecento, soffermandosi in particolare sui romanzi e gli scritti di Italo Calvino, Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Lucidamente consapevoli della miscela geopolitica di implicazione e marginalità in cui era invischiata l’Italia, questi grandi protagonisti della nostra scena culturale affrontano le inquietudini dell’era nucleare attraverso un’ampia gamma di forme sperimentali, che si accostano alla rilevanza metafisica del tema con modi spesso allusivi e obliqui. Liquidate di frequente come disimpegnate, deboli o persino giocose, le loro opere reclamano invece una lettura politica, utile a riconoscerne l’incessante confronto con i paradossi dell’era atomica.
Un estratto dall'Introduzione
UNA ZONA GRIGIA DELLA RESPONSABILITÀ
1. Kennedy all’Einaudi
È il 12 giugno 1963 e come ogni mercoledì i redattori della casa editrice Einaudi si riuniscono per discutere i libri da inserire in catalogo. Siedono al tavolo alcuni tra i più importanti intellettuali del Novecento: oltre a Italo Calvino e a Norberto Bobbio, sono presenti Franco Venturi, il più influente studioso dell’Illuminismo italiano; Raniero Panzieri, tra i fondatori dell’operaismo e traduttore di Marx; e Renato Solmi, allievo di Adorno e divulgatore in Italia della filosofia francofortese. Se di solito le decisioni editoriali vengono prese con rapidità e metodo, senza troppe divergenze d’opinione, stavolta gli animi sono fibrillanti e discordi. Parla Panzieri: propone di pubblicare all’istante un libretto di cento pagine sull’emergere di una nuova diplomazia nucleare americana. Il libretto avrebbe dovuto riprodurre per intero l’ultimo discorso di Kennedy, il Peace Speech del 10 giugno 1963, inneggiante alla fine dei test nucleari nell’atmosfera, al disarmo e al binomio pace & libertà[1]. Ma Solmi è contrario. Sulle dichiarazioni di Kennedy è scettico: «bisogna vedere dove ci sono delle realtà concrete. Bisogna non farsi delle illusioni e bisogna non assecondare queste illusioni». Meglio essere plumbei e addolorati, profeti di sventura, invece di abbracciare la virtù che non dispera mai. Al che Panzieri gli dà del catastrofista e lo accusa di paralizzare le forze della speranza. In molti gli fanno eco: «la speranza è una grande forza politica». Calvino pure si dice d’accordo nel pubblicare il libro, ma è più cauto e pragmatico: «sottolineare questo atteggiamento mi pare che sia utile. Io leggendo i giornali trasecolo a guardare quello che succede». Ma Solmi è inscalfibile: «io non curo il libro. […] Nel momento in cui per volontà di Kennedy si riarma atomicamente l’Italia, noi pubblichiamo un discorso di Kennedy sul disarmo. Questo secondo me è sbagliato». Altre voci si aggiungono, sempre più concitate. La riunione si dilata a dismisura, si sfibra negli obiettivi immediati e da discussione operativa diventa qualcos’altro: un dialogo filosofico sul rapporto tra politica, tecnologia e futuro.
Che una riunione Einaudi potesse deragliare in questo modo è fatto raro. Ma il momento più acceso deve ancora venire: è quando Venturi chiama in causa la posizione dell’Italia all’interno della guerra fredda e il suo ruolo nella strategia del disarmo: «l’Italia dovrebbe stare a parte, in mezzo ai due blocchi senza far niente, distaccata. Questa è la posizione giusta?» chiede polemico, rigurgitante sarcasmo. Gli sembra una posizione assurda. E assurdo gli sembra dunque il silenzio editoriale: «il silenzio non è una risposta a questi problemi». Bisogna fare qualcosa per orientare l’opinione pubblica, per condizionare l’immaginario del disarmo. L’Italia non può crogiolarsi come spettatrice passiva degli eventi, come pedina neutrale sullo scacchiere geopolitico.
No, l’Italia non può restare inerte a guardare. E se non può farlo – occorre qui aggiungere – è perché è storicamente implicata nella questione nucleare. È complice: nel profondo – anche se occupa una zona grigia della responsabilità.
2. Storia, geopolitica e letteratura
Che cosa significa vivere nell’era nucleare non come una superpotenza né come una vittima, ma come complici involontari e passivi? È con questa domanda che si apre L’Italia e la bomba. La posizione del paese è descritta da Primo Levi in un’intervista del 1987, durante gli ultimi logorii della guerra fredda: «il pacifismo è ormai accettato dalla quasi totalità della popolazione, […] tuttavia alberghiamo spaventosi arsenali nella speranza (non so quanto fondata) di non doverli usare mai. Siamo quindi inseriti in un mondo che prepara la guerra, e che, per adesso lontano dall’Europa, la sta quotidianamente praticando».
Primo Levi è chiaro: il tratto fondamentale della politica nucleare italiana è l’ambiguità. A differenza di altri paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra, l’Italia non possiede un proprio arsenale nucleare. E però il suo suolo ospita centinaia di armi atomiche americane, al punto che negli anni Sessanta la nazione – stanziando i missili Jupiter che erano in grado di colpire direttamente l’Unione Sovietica – era una vera e propria frontiera della guerra fredda. L’ambivalenza geopolitica dell’Italia sulla scena nucleare globale la rende una complice; anche se si tratta di una complice per molti versi passiva.
Questa condizione di turbata complicità si amplifica se pensiamo alla responsabilità storica del paese nello sviluppo della tecnologia nucleare. I primi esperimenti per la scissione dell’atomo avvennero proprio in Italia, in un laboratorio di una stradina laterale del quartiere Monti di Roma, via Panisperna: era qui che lavoravano Enrico Fermi e la sua cerchia di giovani collaboratori, in parte ebrei. Quando Fermi e i suoi colleghi emigrarono negli Stati Uniti per scampare alle leggi razziali, l’Italia arretrò inesorabilmente in campo scientifico, diventando una presenza subalterna. Ma è nel gruppo di Via Panisperna che l’era atomica affonda le sue radici: il coinvolgimento della nazione nel percorso che portò alla tecnologia funesta è vistoso; anche se si tratta di una responsabilità indiretta. Gli italiani rimasero tra i principali creatori dell’atomica, ma non in Italia. Fu nel campus dell’università di Chicago che Fermi realizzò in gran segreto la prima reazione nucleare a catena autoalimentata: la prova generale della bomba. In un saggio del 1954 Hannah Arendt già osservava con sgomento il fatto che l’Europa, fintamente innocente, considerasse il problema nucleare come un affare di politica estera, quando invece il ruolo degli scienziati europei, e soprattutto italiani, era stato decisivo per l’ideazione dell’atomica.
Ci troviamo dunque di fronte a una nazione profondamente implicata in un evento ma resa del tutto impotente di fronte ai suoi sviluppi. Questo è un problema geopolitico, ma non solo. Colpisce osservare – l’abbiamo fatto in apertura leggendo il verbale di una riunione Einaudi – come la classe intellettuale italiana dell’epoca dibattesse con animosità la posizione del paese durante la guerra fredda. Tra poco, introducendo Carlo Cassola, verificheremo un’altra occorrenza di quanto il ruolo dell’Italia desse pensiero al mondo culturale di quegli anni. Non mi sembra affatto un caso che l’ambigua mistura di connivenza e marginalità della nazione preoccupasse tanto gli intellettuali italiani. Si potrebbe dire che dentro quella miscela loro fossero invischiati due volte: sia in quanto cittadini consapevoli al massimo grado, sia in quanto intellettuali – e dunque costitutivamente marchiati dalla complicità con un sistema di potere e dalla radicale irrilevanza sul piano decisionale.
La consapevolezza di essere soggetti implicati nella scena nucleare mondiale pervade le opere dei maggiori intellettuali italiani dell’epoca: Italo Calvino, Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Consci della propria marginalità, ma decisi a contrastarla, questi autori affrontano la questione atomica attraverso un’ampia gamma di forme sperimentali, che si accostano all’enormità metafisica del tema in modo spesso allusivo e obliquo. Generalmente liquidate come disimpegnate, deboli, o addirittura giocose, queste opere reclamano invece una lettura politica, che riconosca il loro incessante confronto con i paradossi dell’era nucleare. Attraverso l’analisi dettagliata di queste opere, L’Italia e la bomba ripensa il ruolo dell’intellettuale di fronte alla morte di massa.