Patricia Loreto Mayorga
CONDOR NERO
L’Internazionale fascista da Pinochet a Roma
Paesi Edizioni
collana Intrigo
settembre 2025
pp. 208, euro 15
ISBN 9791255411116
Il 6 ottobre del 1975 Bernardo Leighton, leader della Democrazia cristiana cilena e oppositore della dittatura militare di Augusto Pinochet, viene ferito gravemente in un agguato a Roma. A compiere l’attentato sono due neofascisti italiani: Stefano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale e Pierluigi Concutelli di Ordine Nuovo. Le indagini dimostreranno che l’attentato era stato commissionato dalla DINA (Dirección de Inteligencia Nacional), il servizio di intelligence cileno. Mezzo secolo dopo i fatti, Paesi Edizioni esce in libreria per la collana «Intrigo» con Condor Nero, libro-inchiesta della giornalista cilena Patricia Loreto Mayorga. Attraverso un’analisi scrupolosa di documenti inediti, interviste ai militari protagonisti del golpe che in Cile l’11 settembre del 1973 portò alla caduta del governo democraticamente eletto di Salvador Allende, e colloqui con i terroristi italiani di estrema destra Stefano Delle Chiaie e Vincenzo Vinciguerra, l’autrice ricostruisce il ruolo dell’Internazionale Fascista, ovvero la rete transnazionale composta da movimenti extraparlamentari, partiti, logge massoniche, servizi di sicurezza, apparati militari che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso foraggiò e compì azioni armate e di depistaggio in chiave anti-comunista.
«Operazione Condor», a cui si ispira il titolo di questo libro, è stata una delle azioni più eclatanti di quel periodo e che ha visto coinvolti a vario livello personaggi e organizzazioni dell’estrema destra italiana ed europea, importanti esponenti dei servizi segreti di alcune delle dittature militari latinoamericane, la CIA e il Dipartimento di Stato statunitense. Attorno a questa operazione Mayorga analizza nel dettaglio lo scenario internazionale di quegli anni, svelando verità con cui Italia e Cile, e non solo, devono ancora oggi fare i conti.
Scrive Giovanni Salvi, già procuratore generale presso la Suprema Corte di Cassazione e all’epoca a capo delle indagini sull’«Operazione Condor», nel presentare quest’opera: «Entreremo in un mondo di torture, di case e appartamenti predisposti allo scopo di umiliare i prigionieri, luoghi in cui si sperimentavano nuove tecniche di uccisione e nuove sostanze tossiche, dove le cavie erano le persone sequestrate; è un mondo fatto di ordini perentori impartiti per assassinare oppositori politici, è un mondo dove non esiste la minima traccia di legalità. Questo è l’ambiente in cui matura l’attentato a Bernardo Leighton. È un viaggio nel mondo dell’orrore, che non riusciamo a capire perché viviamo in un mondo diverso e non diamo il giusto valore alla vita democratica».
Un estratto
«Bernardo aveva già le chiavi in mano. “Non ti preoccupare, ce le ho io”, mi disse. Furono le sue ultime parole prima degli spari». Sono passati venticinque anni anni, e per la prima volta dall’attentato del 6 ottobre 1975 a Roma, nel quale fu ferita insieme a suo marito Bernardo Leighton, rimanendo semiparalizzata per il resto dei suoi giorni, Anita Fresno accetta di rievocare quei terribili momenti. L’anziana signora vive da sola, assistita da una donna di servizio. In questa stessa casa, in un quartiere residenziale di Santiago del Cile, ha vissuto con suo marito finché il colpo di stato e il conseguente esilio interruppero la loro tranquilla esistenza. Si regge sulle due stampelle che la accompagnano dal giorno dell’attentato, e si siede con difficoltà, un’espressione di sofferenza sul viso: il dolore non l’ha mai abbandonata. Confessa che solo recentemente è riuscita a togliersi dal cuore un gran peso che le impediva di ricordare l’attentato: «Mi ci è voluto molto prima di riuscire a parlarne, ma ora posso farlo con serenità. Quel pomeriggio eravamo andati dal medico perché non mi sentivo bene. Al ritorno siamo scesi dall’autobus e ci siamo fermati in una bottega per prendere un po’ di pane e formaggio per la prima colazione. Era tardi e cominciava a fare buio. Mi resi conto allora, forse per puro caso, che il lampione davanti a casa nostra non funzionava. Più tardi avrei saputo che erano le otto e dieci e che alle otto in punto chiudevano il cancello del condominio. Camminavamo uno dietro l’altra, poiché la via in cui abitavamo, all’inizio della via Aurelia, era una strada a doppio senso veramente stretta, senza marciapiedi. Procedevamo a fianco alle macchine parcheggiate sul lato sinistro della strada. Allora mi capitò un fatto curioso: notai un uomo con gli stivali che attraversava la strada in diagonale. Poiché era un’arteria molto trafficata, bisognava fare attenzione. Invece, quell’uomo lo fece in fretta, quasi senza guardare. Comunque non diedi molta importanza alla cosa. Proseguimmo fino al cancello del nostro palazzo. Fu in quel momento che Bernardo mi disse le sue ultime parole riguardo alle chiavi: “Non ti preoccupare, ce le ho io”». Nel giro di pochi secondi – che ora alla signora Fresno sembrano un’eternità – le loro vite sarebbero cambiate per sempre. «Gli spari e Bernardo che cadeva per terra mi sembrarono una cosa sola. Accadde tutto nello stesso istante», racconta. Un primo sparo colpì l’uomo al collo, uscendo dal lato sinistro della testa, appena sotto la fronte. Leighton cadde bocconi. Il secondo proiettile attraversò il collo di sua moglie, fratturando la settima vertebra cervicale. Le perizie della scientifica avrebbero in seguito dimostrato che a sparare fu soltanto una persona. Per l’esecutore dell’attentato, che non si accorse che le sue vittime non erano morte, la missione era stata compiuta con successo. Si dileguò in un attimo senza lasciare tracce, mentre i feriti giacevano a terra. Entrambi i proiettili erano stati sparati da una pistola Beretta calibro 9. Solo le luci delle macchine trafiggevano l’oscurità apparentemente tranquilla, mentre il sangue delle vittime scorreva, si mescolava e continuava il suo percorso. Anita Fresno non perse mai conoscenza: «Anch’io caddi in quel momento, e siccome lui era dietro di me, mi girai come potei e mi accorsi che era bocconi. Non riuscivo a vedere nulla, tranne le luci delle macchine che passavano. Allora, con uno sforzo tremendo, mi voltai sulla schiena. E poi non riuscii a muovere più nulla, nulla». Terrorizzata, si accorse che il suo compagno di tutta la vita giaceva immobile al suo fianco, quindi cominciò a gridare aiuto, in italiano. All’inizio ebbe l’impressione che nessuno la sentisse, ma poi udì le voci di alcune persone che si avvicinavano: «Come le dicevo, io non persi mai conoscenza; lui sì, invece, perché il proiettile gli aveva attraversato il cervello». Di rado la vedova Leighton parla del marito chiamandolo «Bernardo»: dice semplicemente «lui», e il modo in cui lo pronuncia rispecchia l’intensità del rapporto e i profondi sentimenti che univano la coppia. «Fu tremendo: la gente urlava, piangeva; gli altri latinoamericani che abitavano nel nostro palazzo dicevano cose orribili contro Pinochet e contro il governo cileno. Il portinaio piangeva a dirotto, ma per fortuna gli venne in mente di chiamare nostro nipote, Guillermo Canessa, che viveva con noi. Grazie a Dio era in casa». Malgrado le condizioni in cui si trovava, Anita trovò la forza di far tacere quelli che accusavano il governo cileno del delitto, perché non era il momento di giudicare; questo tranquillizzò un po’ gli animi. La donna afferma che, come cattolica, prega Dio di perdonare coloro che hanno colpito suo marito e che, come disse a Otto Boye, autore di El hermano Bernardo, è sicura di interpretare i sentimenti del marito. Sebbene i feriti fossero due, arrivò un’ambulanza con una sola barella. È uno dei misteri inspiegabili della sanità italiana, per cui a fianco della tecnologia e dei mezzi di un Paese moderno convivono trascuratezza e disorganizzazione, non solo insolite ma persino ingiustificabili per una delle nazioni più industrializzate del mondo. Erano passate almeno due ore quando Anita Fresno arrivò finalmente all’Ospedale San Giovanni. Anche il marito era ricoverato lì ma sarebbero trascorsi diversi giorni prima che la donna lo venisse a sapere. «L’ingresso in ospedale fu tremendo. Lo ricordo con orrore perché c’erano fotografi ovunque: alcuni salivano sulle sedie, altri mi stavano quasi addosso. Furono ore terribili. Ero disperata per il dolore, per il sangue, per le luci dei flash che mi accecavano.» Un buon amico della coppia, Juan Vicente González, sacerdote del Sacro Cuore, che accompagnava la barella, chiese anch’egli ai giornalisti di smettere di fotografare la donna ferita. Addirittura le coprì il volto con il lenzuolo per proteggerla. «Avete sentito cosa vi ha chiesto la signora? Non vuole che scattiate più fotografie. Per piacere, allontanatevi». La maggior parte se ne andò, ma uno dei fotografi insistette e arrivò perfino a scoprire il volto della donna; allora padre Juan Vicente gli strappò la macchina fotografica e la gettò lontano. Anita l’avrebbe saputo solo molto tempo dopo, poiché allora non si rendeva più conto di cosa stesse succedendo. L’incubo però non era finito: «Al di là dell’atroce dolore fisico, ero disperata perché non sapevo dove fosse mio marito. Mi avevano allontanato da lui. Non sapevo cosa gli fosse successo, né dove l’avessero portato. Furono momenti durissimi. Inoltre, benché gli italiani siano molto gentili, la gente che mi circondava era alquanto fredda. Mi portarono in una camerata assieme ad altri pazienti e quella notte non lasciai dormire nessuno: piansi ininterrottamente per il dolore. Non so perché non mi abbiano dato un calmante per lenirlo almeno un po’». Il giorno dopo la trasferirono in un’altra stanza, questa volta singola, e sebbene le avessero somministrato dei sedativi la sua disperazione cresceva, perché non sapeva ancora nulla del marito. «Soffrivo un po’ meno, ma l’unica cosa che volevo era avere sue notizie. Quindi ogni volta che qualcuno entrava nella camera facevo domande. Riuscii a scoprire soltanto che eravamo nello stesso ospedale, ma su piani diversi. Più tardi mi dissero che gli ci era voluto molto prima di riprendere i sensi. Mi è rimasto tutto talmente impresso che ricordo perfettamente ogni dettaglio». La signora Anita cambia posizione sulla sedia prima di proseguire il racconto, e ancora una volta il viso si contrae in una smorfia, conseguenza di quel dolore che l’accompagna ancora oggi. «Non lo vidi mai all’ospedale di Roma. Avevo sue notizie grazie a Ricardo Hormazábal2, che studiava in Germania ed era venuto non appena saputo dell’attentato. A Ricardo era consentito di vederlo. Un giorno ci condussero all’aeroporto. Mentre eravamo sull’ambulanza qualcuno mi disse di sporgere la mano verso il basso, e nella barella in basso c’era Bernardo. Il suo stato di salute era ancora molto delicato, ma riusciva a stare seduto. Io invece continuavo a non potermi muovere». (...)
Patricia Loreto Mayorga, giornalista e scrittrice cilena, vive in Italia dal 1975. Storica corrispondente del quotidiano cileno El Mercurio, è autrice di numerosi saggi pubblicati sia nel nostro Paese che in America Latina. Attualmente è vicepresidente vicaria per l’Italia dell’Associazione mondiale delle donne giornaliste e scrittrici.


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