Iris Wolff
RADURE(titolo originale
Lichtungen,
Klett-Cotta-Verlag, Stuttgart 2024)
traduzione di Cristina Vezzaro
Neri Pozza
collana Bloom
2025
pp. 240, euro 19
ISBN 9788854532199
Transilvania, di là dalla Cortina di
ferro. Lev ha solo undici anni quando, in seguito a un trauma, si
trova prigioniero per mesi di un letto. I libri che girano per casa
sono del secolo precedente, come dice la sua maestra. È deciso:
qualcuno verrà a portargli i compiti, anche se Lev, potendo
scegliere fra tutti i compagni, certo non vorrebbe Kato, quella
strana ragazza scarmigliata che a scuola rimane sempre in disparte.
Spirito libero e selvatico, Kato invece si presenta tutti i giorni
col suo sguardo di velluto, i buchi nei vestiti, i compiti in mano,
la risata che sfiora l’allegria e, goccia dopo goccia, tra i due
bambini nasce un legame indissolubile che strapperà Lev alla sua
prigione di lenzuola. Un’amicizia speciale che negli anni crescerà
in un amore schivo. Poi, un giorno accade l’impensabile: il loro
mondo, quell’Europa in miniatura dalle tante lingue, si ritrova
senza più muri invalicabili a contenerlo e si spalancano orizzonti
che separano Lev e Kato. Lui, malinconico e introverso, rimane. Lei,
coraggiosa e affamata di spazi, va. Lui lavora a stretto contatto con
la geografia della sua terra più che con le persone. Lei si
trasferisce all’Ovest e fa l’artista di strada. Il filo che tiene
uniti Lev e Kato si allunga attraverso quattro decenni senza mai
recidersi, fino al giorno in cui Lev riceve una cartolina con una
sola frase: Quando vieni? Con una lingua misurata e poetica al tempo
stesso, Iris Wolff celebra il momento glorioso in cui una vita ne
tocca per sempre un’altra, riannodando ricordi disseminati nel
tempo come radure di luce in un bosco fitto, il cui bagliore persiste
a lungo.
In ogni cosa c’erano punti oscuri,
dove finiva l’esperienza e iniziava il ricordo. Qualcosa restava e
qualcosa andava perso, a volte nel momento stesso in cui accadeva e,
per quanto ci si sforzasse, non tornava più. I ricordi erano
disseminati nel tempo come radure.
«Questo romanzo vive di una lingua
incredibilmente delicata che entra sotto pelle. Un capolavoro». Denis
Scheck
«Con la sua scrittura Wolff sa
cogliere gli spazi tra gli esseri umani. Dal ritmo delle sue frasi
risuonano amore, amicizia, distanza». Berliner Zeitung
«Wolff con una prosa trattenuta e
lieve, precisa e piena di poesia, evoca bellezza e
malinconia». Tagesspiegel
«Iris Wolff in quest’ultimo romanzo
si rivela maestra del realismo impressionista». Rolling Stone
Un estratto
nove
Il traghetto si lasciava dietro una
scia di schiuma spumeggiante. Un arco bianco nel blu che ricalcava
ancora a lungo il suo tragitto. Odore di gasolio, annunci
all’altoparlante frammentati dal vento; era talmente forte che
potevano appoggiarcisi contro, le camicie gonfie, i pantaloni
svolazzanti, il fragore nelle orecchie, in testa, nel corpo. Vari
minuti dopo, all’interno del traghetto, si poteva ancora sentire il
fragore che si assestava, risuonava, e Lev si trovò a pensare di
riflesso alle lame di sega che continuavano a vibrare al ritmo di un
ronzio ostinato, al pavimento che d’un tratto ritrovava la quiete
mentre la segatura sospesa sopra il macchinario cadeva giù –
leggermente in ritardo, stupita, sorpresa dalla forza di gravità.
Dall’impianto di condizionamento usciva aria fredda, afferrava mani
e caviglie, carte, sassi, conchiglie che avevano in tasca come
relitti portati a riva. Kato si avvolse la sciarpa attorno alle
spalle, rannicchiò le gambe. Lev si rigirava una pigna tra le mani,
veniva da un albero alla cui ombra avevano pranzato. Kato faceva uno
schizzo a tratti rapidi, abbozzati, di una bambina che si era
addormentata sul sedile di fronte. Aveva documentato ogni giorno del
loro viaggio insieme, immortalato scene che avevano osservato,
vissuto, e a volte anche lui: un uomo con una barba insolitamente
lunga, mentre leggeva in un bar, in piedi accanto a un chiosco,
appoggiato all’automobile, una cartina stradale in mano.
Lev
cercò lo sguardo di lei, ma era impigliato tra la bambina e il
blocco da disegno. Il carboncino anneriva carta, dita e palmi delle
mani. Kato voltò pagina, ricominciò da capo. Era talmente assorta
che era impossibile disturbarla.
Sotto il pino le aveva annunciato
che lui doveva tornare. Kato non era parsa arrabbiata né sorpresa,
aveva reagito con pacatezza, come se sapesse già da tempo cosa gli
passava per la mente. Magari anche lei voleva tornare alla sua
routine, alla sua vita. Solo: in che città, in che Paese? Per lui
quel viaggio era un inizio, per lei un passaggio, forse persino una
fine. Eppure, in quei movimenti opposti si erano ritrovati.
Erano
in giro da sei settimane, da Zurigo a Parigi, poi Nantes, Montpellier
e oltre, in direzione est lungo la costa. Si erano fatti trascinare,
a volte avevano trascorso anche giornate lontani l’uno dall’altra,
non avevano bisogno di molte parole per i loro stati d’animo e le
loro scoperte. Si conoscevano troppo bene, erano stati lontani troppo
a lungo. Visitavano città e paesi, facevano gite, andavano a
nuotare, mentre le spiagge si svuotavano a mano a mano che si
avvicinava l’autunno, come se davanti a loro non ci fosse tempo,
solo quell’interminabile spazio fatto di strade. E per un po’ era
andata avanti così, Lev non si era sbagliato – lo strato fra ieri
e domani era sottilissimo. A un certo punto aveva iniziato a pensare
sempre più a casa, in un misto di apprensione e nostalgia che era un
richiamo, ma non aveva detto niente, in attesa del momento giusto,
che non arrivava.
Bisogna essere sempre pronti a partire, disse
Kato senza alzare gli occhi dal suo disegno.
«Anche quando si è
appena arrivati?»
«Soprattutto allora».
Kato infilò i
disegni della bambina nella cartelletta. Durante il viaggio non aveva
lavorato, solo a Parigi, al Louvre, aveva dipinto un quadro per
strada. Per tutti coloro che non potevano vedere la Monna Lisa
originale.
Davanti agli oblò la costa si avvicinava, il porto,
frangiflutti, navi, la passeggiata orlata di palme. Le alte case
variopinte con le centinaia di occhi e imposte. I lampioni si
accendevano, le luci in strada ricoprivano le colline di un tremulo
bagliore. Sulla terraferma sembrava esserci vento.
Di colpo
accadde tutto molto in fretta.
«Vengo anch’io» disse Kato.
Lev, che stava sistemando la bottiglia d’acqua e la pigna nella
borsa, rimase immobile. Per la sorpresa si scordò quasi di
respirare. Kato lo guardò divertita e un po’ beffarda. All’interno
del traghetto iniziava a regnare agitazione. I passeggeri
raccoglievano le loro cose, si accalcavano verso le uscite. La
serranda del chiosco si abbassò sferragliando. La bambina fu
svegliata, si avviò verso le scale attaccata alla mano della madre,
il suo sorriso sfiorò Kato.
«Torniamo indietro insieme?» si
sincerò lui quando furono arrivati alla Land Rover sul ponte auto.
Tanto ci era voluto perché ritrovasse la lingua
Non voleva
lasciarsi andare alla felicità troppo presto.
Non voleva perderla
un’altra volta.
«Sì» disse Kato. Solo quello: sì.
Per il
momento gli bastava.
otto«Chiedo scusa».
Lev si fermò.
Lo
spintonavano, lo guardavano male, erano tutti in movimento, di corsa,
pigiati, con lo stesso passo spedito. Lev si era unito alla fiumana,
si era lasciato trascinare, nello scompartimento, sul binario, dove i
treni erano già pronti a partire e i viaggiatori aspettavano
impazienti, chiusi in sé stessi. Nell’alto atrio si era fermato,
annunci all’altoparlante, passi, voci, valigie con le rotelle,
tutto si perdeva in quell’altezza enorme. Poi scorse il grande
orologio, proseguì, svoltò a destra nel passaggio, verso la
fontana. I rumori della strada si fecero più forti, clacson, rombo
di motori, il fragore, il brusio sparì, la gente si disperse nella
piazza, finalmente poté fermarsi in pace, guardarsi attorno.
Davanti
a lui c’era una strada a più corsie, strisce pedonali, file di
case a cinque piani; arrivavano tram bianchi e blu, lui teneva in
mano il foglietto con sopra il numero del tram, la direzione, la
fermata. Confrontò le linee dei tram con i suoi appunti, non
fidandosi del suo giudizio ripercorse ancora una volta tutti i
percorsi affissi. Per il centro città c’era un’altra fermata. La
sensazione di sollievo durò però ben poco, alla biglietteria
automatica fu pervaso da una sensazione di calore alla nuca, gli
vennero le vertigini alla vista del distributore, tasti, tariffe
orarie, fessura per le monete, tasto di correzione – bisognava
prima infilare il denaro o premere qualcosa? Incerto pigiò vari
pulsanti, qualcuno lo incalzò con una domanda. Lev si fece da parte,
lasciò che l’uomo pagasse, cercò di memorizzare i passaggi, ma
quando toccò di nuovo a lui, il suo tram era già in arrivo. La
gente salì, per un istante valutò se salire anche lui, quanto
sarebbe stato umiliante però farsi sorprendere senza biglietto, fu
colto da una sensazione di inconcludenza, come se quello fosse stato
l’ultimo tram e lui avesse perso la sua occasione.
Anticipato da
un crepitio lungo i binari, il tram ripartì. Lev rimase in piedi
alla fermata, posò a terra la borsa da viaggio, si rigirò il
foglietto tra le mani come se potesse esserci scritto qualcosa che
non aveva ancora visto. Una donna con i capelli ramati lunghi fino
alla vita si annodava tre ciocche in una treccia, un uomo su una
panchina la fissava a bocca aperta. Alcuni piccioni si alzarono in
volo, passarono da un lato all’altro della strada e si posarono in
fila sul cornicione di un edificio. Qualcosa li disturbò di nuovo.
Erano color grigio scuro con la parte inferiore bianca.
Lev li
contemplò, contemplò i loro giri in volo. Da chiaro a scuro. Da
scuro a chiaro.
Qualcosa lo indusse a voltarsi. Forse
lo stava osservando già da un po’, forse non sapeva come
rivolgergli la parola, preferiva starsene da sola ancora un istante a
gustarsi lo stupore di averlo riconosciuto – era quello che avrebbe
voluto lui. Rimanere fermo, non dire una parola, guardarla: gli occhi
chiari, la linea disegnata da tre nei sulla guancia, il suo sguardo
di sfida, di superiore distacco.
In quel gioco aveva trionfato
sempre lei. Riusciva a reggere lo sguardo più a lungo, non era mai
la prima a sciogliersi da un abbraccio con quell’accenno a
ritirarsi che fa sì che due corpi si stacchino l’uno dall’altro.
Lev non ebbe molto tempo per quel primo sguardo fugace, osservò i
tratti del suo viso, il suo portamento, notò i cambiamenti e ciò
che era rimasto uguale; era sorpreso di provare tanta gioia,
agitazione, e constatò sollevato che la vecchia amarezza era
svanita. Lei era in jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta
verde, niente giacca, sebbene quella sera fa cesse fresco. Portava un
borsone a tracolla. Sembrava diventata più esile, ma anche più
muscolosa, da quel che riusciva a intuire, i capelli le arrivavano
alle spal le, sempre indecisi se essere lisci o ricci. Le guardò le
mani, le ossa appuntite dei polsi, i residui di colore sotto le
unghie. Qualcosa era come sempre, qualcosa era nuovo. «Che ci fai
qui?»
«Avevo come una sensazione» disse Kato.
Iris Wolff, nata a Sibiu, in Romania,
nel 1977, si è trasferita in Germania all’età di otto anni. La
sua opera ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui
l’Eichendorff-Literaturpreis, il Marieluise-Fleißer-Preis, il
Solothurner Literaturpreis. Radure è stato in particolare
insignito dell’Uwe-Johnson-Preis, del premio svizzero Spycher:
Literaturpreis Leuk, selezionato per il Deutscher Buchpreis. In
Italia era apparso anche La sfocatura del mondo (Rizzoli
2021). Oggi vive a Friburgo in Brisgovia.