lunedì 30 giugno 2025

Iris Wolff - RADURE - Neri Pozza

 
Iris Wolff
RADURE
(titolo originale Lichtungen, Klett-Cotta-Verlag, Stuttgart 2024)
traduzione di Cristina Vezzaro
Neri Pozza
collana Bloom
2025
pp. 240, euro 19
ISBN 9788854532199

 
Transilvania, di là dalla Cortina di ferro. Lev ha solo undici anni quando, in seguito a un trauma, si trova prigioniero per mesi di un letto. I libri che girano per casa sono del secolo precedente, come dice la sua maestra. È deciso: qualcuno verrà a portargli i compiti, anche se Lev, potendo scegliere fra tutti i compagni, certo non vorrebbe Kato, quella strana ragazza scarmigliata che a scuola rimane sempre in disparte. Spirito libero e selvatico, Kato invece si presenta tutti i giorni col suo sguardo di velluto, i buchi nei vestiti, i compiti in mano, la risata che sfiora l’allegria e, goccia dopo goccia, tra i due bambini nasce un legame indissolubile che strapperà Lev alla sua prigione di lenzuola. Un’amicizia speciale che negli anni crescerà in un amore schivo. Poi, un giorno accade l’impensabile: il loro mondo, quell’Europa in miniatura dalle tante lingue, si ritrova senza più muri invalicabili a contenerlo e si spalancano orizzonti che separano Lev e Kato. Lui, malinconico e introverso, rimane. Lei, coraggiosa e affamata di spazi, va. Lui lavora a stretto contatto con la geografia della sua terra più che con le persone. Lei si trasferisce all’Ovest e fa l’artista di strada. Il filo che tiene uniti Lev e Kato si allunga attraverso quattro decenni senza mai recidersi, fino al giorno in cui Lev riceve una cartolina con una sola frase: Quando vieni? Con una lingua misurata e poetica al tempo stesso, Iris Wolff celebra il momento glorioso in cui una vita ne tocca per sempre un’altra, riannodando ricordi disseminati nel tempo come radure di luce in un bosco fitto, il cui bagliore persiste a lungo.
In ogni cosa c’erano punti oscuri, dove finiva l’esperienza e iniziava il ricordo. Qualcosa restava e qualcosa andava perso, a volte nel momento stesso in cui accadeva e, per quanto ci si sforzasse, non tornava più. I ricordi erano disseminati nel tempo come radure.

«Questo romanzo vive di una lingua incredibilmente delicata che entra sotto pelle. Un capolavoro». Denis Scheck
«Con la sua scrittura Wolff sa cogliere gli spazi tra gli esseri umani. Dal ritmo delle sue frasi risuonano amore, amicizia, distanza». Berliner Zeitung
«Wolff con una prosa trattenuta e lieve, precisa e piena di poesia, evoca bellezza e malinconia». Tagesspiegel
«Iris Wolff in quest’ultimo romanzo si rivela maestra del realismo impressionista». Rolling Stone

Un estratto

nove

Il traghetto si lasciava dietro una scia di schiuma spumeggiante. Un arco bianco nel blu che ricalcava ancora a lungo il suo tragitto. Odore di gasolio, annunci all’altoparlante frammentati dal vento; era talmente forte che potevano appoggiarcisi contro, le camicie gonfie, i pantaloni svolazzanti, il fragore nelle orecchie, in testa, nel corpo. Vari minuti dopo, all’interno del traghetto, si poteva ancora sentire il fragore che si assestava, risuonava, e Lev si trovò a pensare di riflesso alle lame di sega che continuavano a vibrare al ritmo di un ronzio ostinato, al pavimento che d’un tratto ritrovava la quiete mentre la segatura sospesa sopra il macchinario cadeva giù – leggermente in ritardo, stupita, sorpresa dalla forza di gravità. Dall’impianto di condizionamento usciva aria fredda, afferrava mani e caviglie, carte, sassi, conchiglie che avevano in tasca come relitti portati a riva. Kato si avvolse la sciarpa attorno alle spalle, rannicchiò le gambe. Lev si rigirava una pigna tra le mani, veniva da un albero alla cui ombra avevano pranzato. Kato faceva uno schizzo a tratti rapidi, abbozzati, di una bambina che si era addormentata sul sedile di fronte. Aveva documentato ogni giorno del loro viaggio insieme, immortalato scene che avevano osservato, vissuto, e a volte anche lui: un uomo con una barba insolitamente lunga, mentre leggeva in un bar, in piedi accanto a un chiosco, appoggiato all’automobile, una cartina stradale in mano.
Lev cercò lo sguardo di lei, ma era impigliato tra la bambina e il blocco da disegno. Il carboncino anneriva carta, dita e palmi delle mani. Kato voltò pagina, ricominciò da capo. Era talmente assorta che era impossibile disturbarla.
Sotto il pino le aveva annunciato che lui doveva tornare. Kato non era parsa arrabbiata né sorpresa, aveva reagito con pacatezza, come se sapesse già da tempo cosa gli passava per la mente. Magari anche lei voleva tornare alla sua routine, alla sua vita. Solo: in che città, in che Paese? Per lui quel viaggio era un inizio, per lei un passaggio, forse persino una fine. Eppure, in quei movimenti opposti si erano ritrovati.
Erano in giro da sei settimane, da Zurigo a Parigi, poi Nantes, Montpellier e oltre, in direzione est lungo la costa. Si erano fatti trascinare, a volte avevano trascorso anche giornate lontani l’uno dall’altra, non avevano bisogno di molte parole per i loro stati d’animo e le loro scoperte. Si conoscevano troppo bene, erano stati lontani troppo a lungo. Visitavano città e paesi, facevano gite, andavano a nuotare, mentre le spiagge si svuotavano a mano a mano che si avvicinava l’autunno, come se davanti a loro non ci fosse tempo, solo quell’interminabile spazio fatto di strade. E per un po’ era andata avanti così, Lev non si era sbagliato – lo strato fra ieri e domani era sottilissimo. A un certo punto aveva iniziato a pensare sempre più a casa, in un misto di apprensione e nostalgia che era un richiamo, ma non aveva detto niente, in attesa del momento giusto, che non arrivava.
Bisogna essere sempre pronti a partire, disse Kato senza alzare gli occhi dal suo disegno.
«Anche quando si è appena arrivati?»
«Soprattutto allora».
Kato infilò i disegni della bambina nella cartelletta. Durante il viaggio non aveva lavorato, solo a Parigi, al Louvre, aveva dipinto un quadro per strada. Per tutti coloro che non potevano vedere la Monna Lisa originale.
Davanti agli oblò la costa si avvicinava, il porto, frangiflutti, navi, la passeggiata orlata di palme. Le alte case variopinte con le centinaia di occhi e imposte. I lampioni si accendevano, le luci in strada ricoprivano le colline di un tremulo bagliore. Sulla terraferma sembrava esserci vento.
Di colpo accadde tutto molto in fretta.
«Vengo anch’io» disse Kato. Lev, che stava sistemando la bottiglia d’acqua e la pigna nella borsa, rimase immobile. Per la sorpresa si scordò quasi di respirare. Kato lo guardò divertita e un po’ beffarda. All’interno del traghetto iniziava a regnare agitazione. I passeggeri raccoglievano le loro cose, si accalcavano verso le uscite. La serranda del chiosco si abbassò sferragliando. La bambina fu svegliata, si avviò verso le scale attaccata alla mano della madre, il suo sorriso sfiorò Kato.
«Torniamo indietro insieme?» si sincerò lui quando furono arrivati alla Land Rover sul ponte auto. Tanto ci era voluto perché ritrovasse la lingua
Non voleva lasciarsi andare alla felicità troppo presto.
Non voleva perderla un’altra volta.
«Sì» disse Kato. Solo quello: sì.
Per il momento gli bastava.

otto
«Chiedo scusa».
Lev si fermò.
Lo spintonavano, lo guardavano male, erano tutti in movimento, di corsa, pigiati, con lo stesso passo spedito. Lev si era unito alla fiumana, si era lasciato trascinare, nello scompartimento, sul binario, dove i treni erano già pronti a partire e i viaggiatori aspettavano impazienti, chiusi in sé stessi. Nell’alto atrio si era fermato, annunci all’altoparlante, passi, voci, valigie con le rotelle, tutto si perdeva in quell’altezza enorme. Poi scorse il grande orologio, proseguì, svoltò a destra nel passaggio, verso la fontana. I rumori della strada si fecero più forti, clacson, rombo di motori, il fragore, il brusio sparì, la gente si disperse nella piazza, finalmente poté fermarsi in pace, guardarsi attorno.
Davanti a lui c’era una strada a più corsie, strisce pedonali, file di case a cinque piani; arrivavano tram bianchi e blu, lui teneva in mano il foglietto con sopra il numero del tram, la direzione, la fermata. Confrontò le linee dei tram con i suoi appunti, non fidandosi del suo giudizio ripercorse ancora una volta tutti i percorsi affissi. Per il centro città c’era un’altra fermata. La sensazione di sollievo durò però ben poco, alla biglietteria automatica fu pervaso da una sensazione di calore alla nuca, gli vennero le vertigini alla vista del distributore, tasti, tariffe orarie, fessura per le monete, tasto di correzione – bisognava prima infilare il denaro o premere qualcosa? Incerto pigiò vari pulsanti, qualcuno lo incalzò con una domanda. Lev si fece da parte, lasciò che l’uomo pagasse, cercò di memorizzare i passaggi, ma quando toccò di nuovo a lui, il suo tram era già in arrivo. La gente salì, per un istante valutò se salire anche lui, quanto sarebbe stato umiliante però farsi sorprendere senza biglietto, fu colto da una sensazione di inconcludenza, come se quello fosse stato l’ultimo tram e lui avesse perso la sua occasione.
Anticipato da un crepitio lungo i binari, il tram ripartì. Lev rimase in piedi alla fermata, posò a terra la borsa da viaggio, si rigirò il foglietto tra le mani come se potesse esserci scritto qualcosa che non aveva ancora visto. Una donna con i capelli ramati lunghi fino alla vita si annodava tre ciocche in una treccia, un uomo su una panchina la fissava a bocca aperta. Alcuni piccioni si alzarono in volo, passarono da un lato all’altro della strada e si posarono in fila sul cornicione di un edificio. Qualcosa li disturbò di nuovo. Erano color grigio scuro con la parte inferiore bianca.
Lev li contemplò, contemplò i loro giri in volo. Da chiaro a scuro. Da scuro a chiaro.
Qualcosa lo indusse a voltarsi. Forse lo stava osservando già da un po’, forse non sapeva come rivolgergli la parola, preferiva starsene da sola ancora un istante a gustarsi lo stupore di averlo riconosciuto – era quello che avrebbe voluto lui. Rimanere fermo, non dire una parola, guardarla: gli occhi chiari, la linea disegnata da tre nei sulla guancia, il suo sguardo di sfida, di superiore distacco.
In quel gioco aveva trionfato sempre lei. Riusciva a reggere lo sguardo più a lungo, non era mai la prima a sciogliersi da un abbraccio con quell’accenno a ritirarsi che fa sì che due corpi si stacchino l’uno dall’altro. Lev non ebbe molto tempo per quel primo sguardo fugace, osservò i tratti del suo viso, il suo portamento, notò i cambiamenti e ciò che era rimasto uguale; era sorpreso di provare tanta gioia, agitazione, e constatò sollevato che la vecchia amarezza era svanita. Lei era in jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta verde, niente giacca, sebbene quella sera fa cesse fresco. Portava un borsone a tracolla. Sembrava diventata più esile, ma anche più muscolosa, da quel che riusciva a intuire, i capelli le arrivavano alle spal le, sempre indecisi se essere lisci o ricci. Le guardò le mani, le ossa appuntite dei polsi, i residui di colore sotto le unghie. Qualcosa era come sempre, qualcosa era nuovo. «Che ci fai qui?»
«Avevo come una sensazione» disse Kato.

Iris Wolff, nata a Sibiu, in Romania, nel 1977, si è trasferita in Germania all’età di otto anni. La sua opera ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui l’Eichendorff-Literaturpreis, il Marieluise-Fleißer-Preis, il Solothurner Literaturpreis. Radure è stato in particolare insignito dell’Uwe-Johnson-Preis, del premio svizzero Spycher: Literaturpreis Leuk, selezionato per il Deutscher Buchpreis. In Italia era apparso anche La sfocatura del mondo (Rizzoli 2021). Oggi vive a Friburgo in Brisgovia.

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