lunedì 9 giugno 2025

Giampaolo Cadalanu - SOTTO LA SABBIA - Laterza

 
Giampaolo Cadalanu
SOTTO LA SABBIA
La Libia, il petrolio, l'Italia

Editori Laterza
collana i Robinson / Letture
2025
pp. 264, euro 20
ISBN 9788858157138

 
Sono quasi quindici anni che la Libia vive una guerra civile permanente e senza fine. Un ‘grande gioco’ a cui tutte le grandi potenze – dalla Russia alla Turchia, dagli USA ai Paesi del Golfo – partecipano per mettere le mani sull’immenso tesoro nascosto sotto la sabbia. E l’Italia in che modo ne è coinvolta? Quanto rischia nella sua ex ‘quarta sponda’?
Il 20 ottobre del 2011 Muammar al Gheddafi veniva catturato e ucciso. Dalla fine del regime instaurato dal Colonnello e dalla sua ‘Rivoluzione Verde’ per la Libia è cominciata un’agonia senza conclusione. Quante bugie sono state dette per giustificare l’intervento occidentale in Libia? Perché l’Italia ha partecipato all’attacco appena due anni dopo aver firmato il Trattato di amicizia con Tripoli? Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Italia, Qatar, Emirati Arabi Uniti e poi Egitto, Russia, Turchia, con la partecipazione straordinaria dello Stato Islamico: tutti i protagonisti della guerra e del dopoguerra hanno sempre proclamato di avere motivazioni solenni, a partire dall’interesse della popolazione locale. Ma esaminandoli uno per uno e guardando alle scelte operative e al risultato odierno, è evidente che al centro dell’attenzione c’erano sempre e soltanto i giacimenti. In tutto questo, il ruolo dell’Italia non è secondario. Grazie ai legami storici e alla posizione geografica, il nostro Paese controlla i principali luoghi di estrazione e le raffinerie in Tripolitania e in Cirenaica. Ma quali sono i prezzi che paghiamo per tutelare i nostri interessi? Giampaolo Cadalanu utilizza testimonianze esclusive, racconti di esperienza diretta, analisi di specialisti e confronto di dati per mostrare che a smuovere l’Occidente, molto più della tutela dei libici, sono stati e sono ancora oggi gli interessi concreti: le risorse del sottosuolo e gli equilibri di potere.

Un estratto

1.
Sirte
In principio fu la Tunisia. Dopo anni di abusi e di pazienza, nel gennaio 2011 la popolazione prese lo spunto, per sfogare la sua rabbia, dal suicidio a Sidi Bouzid di un giovane venditore di frutta, Mohamed Bouazizi, che si era dato fuoco dopo aver subìto l’ennesima prepotenza della polizia. Il suo sacrificio, in modo del tutto inaspettato, diede il via a una ribellione aperta contro il governo autoritario di Zine al Abidine Ben Ali, che guidava il Paese dal 1987, costringendo il presidente alla fuga. Poi la “rivoluzione della dignità” – come la chiamavano i tunisini, respingendo l’etichetta di “rivoluzione dei gelsomini”, inventata da pigri giornalisti occidentali – si allargò ad altri Paesi arabi, grazie anche a un inedito ruolo dei social network, che si affiancarono alle tradizionali comunicazioni legate alla preghiera nelle moschee.
Il mondo islamico subì scosse inattese, e naturalmente ci fu chi approfittò dei rivolgimenti per cercare vantaggi strategici e tutelare i propri interessi economici. Quella che fu battezzata, con una buona dose di ottimismo, la “Primavera araba”, coinvolse l’intero universo musulmano e stravolse in particolare l’Egitto, il Bahrein, la Libia, lo Yemen, la Siria. A suscitare le proteste furono fattori diversi, dalla povertà alle violazioni dei diritti umani, dalla corruzione diffusa agli abusi delle autorità e alla mancanza di libertà individuali. La scintilla decisiva fu senza dubbio l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Ma il racconto dei soli fatti potrebbe non bastare, o persino essere ingannevole: qualche disordine fu spontaneo, come con tutta probabilità era stata la rivolta tunisina, qualche altro fu facilitato, qualcuno fu proprio stimolato se non direttamente organizzato altrove, in un quadro di rapporti geopolitici intricato e mai del tutto trasparente.
Gli osservatori più propensi a seguire ipotesi cospirazioniste collegarono l’ondata di ribellione all’iniziativa statunitense: un progetto di riassestamento del Medio Oriente e del Nord Africa dichiarato in modo più o meno esplicito da Barack Obama nel discorso del 4 giugno 2009 all’Università del Cairo, in cui il presidente americano auspicava “un nuovo inizio” nel rapporto con i Paesi musulmani, all’indomani dell’intervento in Iraq. Era l’archiviazione della “teoria dello scontro di civiltà”, una rottura con l’era Bush, che si tradusse poi in un sostegno ai movimenti della cosiddetta Primavera araba. Toccherà agli storici scoprire possibili collegamenti fra l’agenda già raccomandata dai neocon americani con la “teoria del domino”, che prevedeva la caduta dei regimi nei Paesi islamici uno dopo l’altro, e la politica di Obama.
Ma, al di là della coerenza di queste ipotesi, un elemento di analisi fu ben chiaro. Quale che fosse il contesto, le preoccupazioni per i diritti umani e per la democrazia furono sempre invocate a gran voce, anche se intrecciate a un’attenzione non del tutto dichiarata ma mai sopita: quella per le risorse energetiche. Basta un esame senza troppi coinvolgimenti emotivi, magari sostenuto dalla lettura dei dispacci governativi confidenziali diffusi da WikiLeaks, per vedere con nitidezza assoluta che nella politica internazionale dietro ai proclami più solenni ci sono sempre interessi concreti, intrecci geopolitici e avanzamenti di potere. E questo vale, come vedremo, per tutti i protagonisti della tragedia della guerra e dell’altrettanto tragico dopoguerra in Libia.
Nel 2011 i governi occidentali hanno espresso con toni altisonanti le loro intenzioni umanitarie, ma guardando indietro è facile scoprire che queste servivano solo a coprire ragionamenti strategici e ricerca di posizioni vantaggiose. Oggi, con la Libia nel caos, l’affascinante teoria della “responsabilità di proteggere” si svela come l’ennesima bugia per giustificare un intervento militare, ovvero la ricopertura con una nuova vernice di quello che ai tempi dell’intervento militare in Iraq George W. Bush aveva chiamato “guerra preventiva”, la ricerca delle armi di distruzione di massa che non esistevano.
Domino
L’Egitto, un grande Paese in posizione strategica, vide la caduta – dopo trent’anni di potere – dell’“uomo forte” Hosni Mubarak che, dopo un tentativo di repressione delle manifestazioni concentrate a piazza Tahrir del Cairo, fu costretto a lasciare il governo. Le elezioni portarono alla presidenza il candidato dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi. Ma in breve tempo, attraverso un colpo di Stato militare, il potere tornò a un autocrate non sgradito all’Occidente, cioè l’ex vicepremier e ministro della Difesa Abdel Fattah al Sisi. In Bahrein, piccolo Stato sul Mar Rosso che ospita una grande base delle Forze armate americane, la minoranza sunnita represse le manifestazioni della maggioranza sciita con l’aiuto dell’Arabia Saudita, ma senza che il resto del mondo valutasse possibili interventi. Nello Yemen le sommosse popolari contro il carovita si trasformarono rapidamente in una guerra per proxy tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita.
Ma fu con la Libia e con la Siria che il ruolo di altri protagonisti e dei loro interessi divenne evidente sin dai primi giorni dei disordini. E forse non è un caso che le vicende di entrambi questi Paesi si siano trascinate a lungo e siano ancora irrisolte. In Siria, le manifestazioni iniziate nella città di Deraa nel marzo 2011 contro Bashar al Assad portarono alla guerra civile – a tutt’oggi non conclusa – con influenze, interventi e partecipazioni più o meno ufficiali di Arabia Saudita, Iran, Stati Uniti, Russia, Turchia e una insolita disponibilità di armi sin dal primo momento delle proteste.
Sulla carta, la Libia sembrava il contesto più improbabile per una rivolta: i conti economici del Paese erano prosperi, con un reddito pro capite altissimo, grazie a un sottosuolo ricco di petrolio e di gas. Ma ancora una volta quel patrimonio nascosto doveva diventare una maledizione. I disordini, nati in apparenza dall’eterno malumore di Bengasi, la città rivale del clan di Muammar al Gheddafi, portarono alla guerra civile e all’intervento occidentale, per finire con la deposizione e la morte del colonnello, il leader della rivoluzione del 1969.
La bugia fondamentale che portò al crollo del regime gheddafiano fu quella, ormai consueta, che copre gli interessi delle nazioni “interventiste” con l’esigenza – o addirittura, appunto, la “responsabilità” – di usare le armi per proteggere i civili, anche a costo di violare la sovranità di altri Paesi. A segnare il destino di Gheddafi, più che la preoccupazione, proclamata alle Nazioni Unite, di fermare i suoi abusi sulla popolazione, fu con tutta probabilità la sua figura peculiare, poco propensa a favorire gli interessi dell’Occidente e di conseguenza poco gradita in quasi tutte le cancellerie, tranne forse quella italiana. E che la protezione dei libici dal pugno del regime fosse solo un pretesto, lo si può capire guardando oggi il Paese: spaccato, ancora in preda ai disordini e senza progetti concreti per uscire dalla crisi. Nel frattempo, però, il sottosuolo ha continuato a produrre.
L’idea che l’intervento occidentale fosse motivato dal petrolio può sembrare poco sensata, visto che Gheddafi metteva a disposizione dei Paesi sviluppati le ricchezze del sottosuolo libico. Ma, per dirla con Noam Chomsky, questo era vero, tuttavia irrilevante. Lo stesso si sarebbe potuto dire per l’Iraq di Saddam Hussein, o per l’Iran. In un’intervista pubblicata online da ZNet, lo studioso americano sottolineò che “l’Occidente vuole il controllo diretto, o almeno da parte di clienti affidabili, e nel caso della Libia l’accesso a vaste aree inesplorate che si suppone siano ricche di petrolio. Documenti interni di USA e Regno Unito sottolineano che il ‘virus del nazionalismo’ è il timore più grande, perché può coltivare la disobbedienza”.
Enigmatico e ribelle
Chi era Muammar al Gheddafi? Il cane pazzo del Medio Oriente, come lo chiamava il presidente americano Ronald Reagan, o il figlio del deserto, come lo consideravano i seguaci, oppure l’uomo più pericoloso del mondo, come l’aveva battezzato in copertina Newsweek, o invece il decano dei governanti arabi e re dei re dell’Africa e imam dei musulmani, come amava definirsi lui stesso, o persino il Robespierre della rivoluzione araba, come lo considerava il cancelliere austriaco Bruno Kreisky, o invece “il più grande combattente per la libertà dei popoli, un eroe della lotta contro l’apartheid, mio fratello”, come lo definiva Nelson Mandela...
La stampa di tutto il mondo ha sfruttato ogni possibile aggettivo per cercare di descriverne almeno la figura pubblica, conservando in genere la prudenza di definirlo volta per volta “eccentrico”, “enigmatico”, “misterioso”. Colpivano le scelte di abbigliamento, come le tuniche di stile imperiale e gli eterni occhiali da sole, ma anche la celebratissima squadra di guardie del corpo formata da sole donne.
In realtà, più di tutto stonava la riottosità proclamata ad alta voce verso l’ordine globale stabilito in Occidente. Gheddafi era l’uomo che nel 2009, appena due anni prima di essere ucciso, al Palazzo di Vetro accusò l’ONU di aver fallito la sua missione, lasciando in mano a cinque sole nazioni il diritto di governare il mondo, e di fatto aprendo la strada a 65 guerre, tutte nell’interesse di pochi. Usò parole forti: “Questi Paesi, che vorrebbero farci credere di voler tutelare la sovranità e l’indipendenza dei popoli, in realtà usano contro i popoli l’aggressione e la forza”.
Gheddafi era un rivoluzionario, era cresciuto nel mito di Mao Zedong, di Charles de Gaulle, ma soprattutto di Gamal Abdel Nasser. Proprio quest’ultimo aveva ispirato l’idea – almeno iniziale – di panarabismo che il giovane Muammar aveva coltivato sin dalle scuole medie, frequentate a Sebha, nella regione del Fezzan, dove la sua famiglia era arrivata a piedi da Sirte per seguire il padre Mohamed Abdel Salam Abominiar nei suoi viaggi da nomade.
La tenda, la sabbia
Nelle aule scolastiche della cittadina, dove molti insegnanti erano egiziani, il ragazzo nato nel 1942 sotto una tenda di pelli di capra poté sognare una riscossa ascoltando la radio Sawt al Arab (Voce degli arabi) e leggendo per la prima volta la Filosofia della rivoluzione firmata dal leader del Cairo, un testo che sarebbe diventato poi il libro più prezioso per la guida del Paese.
Sin dall’infanzia, poverissima, Muammar si era distinto fra i coetanei per il carisma personale e per l’approccio inflessibile ai temi sempre roventi del colonialismo. Il giovane figlio di beduini rivendicò con orgoglio l’esperienza di vita ottenuta portando al pascolo il poco bestiame della famiglia. Fin dai primi anni di esperienza scolastica – le elementari fatte bruciando le tappe nei pressi di Sirte e poi le medie a Sebha – il ragazzo mostrò scarso amore per le città e nostalgia acuta per la vita semplice del beduino. L’adolescente incaricato di condurre cammelli e capre alla ricerca di povero foraggio nel deserto non poteva immaginare che sotto la sabbia ci fosse la risorsa che avrebbe garantito una rinascita totale del Paese.
Prima ancora della nascita di Gheddafi, gli italiani impegnati nella ricerca di acqua in Tripolitania avevano trovato tracce di petrolio. Ma allora questo non era considerato una risorsa preziosa, in rapporto alla fatica e alle spese necessarie per l’estrazione in un ambiente desertico. Ardito Desio – esploratore e geologo incaricato negli anni Trenta di verificare le possibilità del sottosuolo libico dall’allora governatore Italo Balbo – raccontò nelle sue memorie, Sulle vie della sete, dei ghiacci e dell’oro, delle “spese elevatissime” che l’individuazione dei giacimenti comportava, e che “il governatore affidò all’AGIP l’incarico di avviare le ricerche petrolifere, circoscritte, però, per ragioni di economia, alla sola area in cui erano state segnalate le prime manifestazioni”. Negli anni Trenta il petrolio non suscitava entusiasmi. Ma ancor meno ne suscitava il gas, non utilizzato: in America veniva considerato solo una seccatura durante l’estrazione del petrolio, e subito bruciato.
La vita del pastore nomade marchiò per sempre la personalità di Gheddafi, ma tracce ben più significative lasciarono le vicende dell’eroismo familiare: dal mito del nonno Abdusalam Hamid Abominiar, ucciso dal proiettile di una nave italiana nel 1911 e dei fratelli del nonno, vittime delle truppe fasciste, alle gesta belliche del padre, ferito più volte in battaglia, fino all’esperienza diretta di una lesione di guerra. Aveva sei anni quando incappò in una mina (“italiana”, diceva lui con certezza) che gli provocò una lacerazione al braccio e la perdita di due cuginetti.
La presa di coscienza ideologica si mostrò in tutta la sua evidenza il 29 ottobre 1956, quando le truppe di Francia, Regno Unito e Israele attaccarono l’Egitto di Nasser, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez. Ascoltando le notizie alla radio, l’adolescente Muammar diede sfogo all’indignazione arringando i compagni di liceo e decidendo, poi, di partire volontario per unirsi alle truppe egiziane. Di lui e dei suoi coetanei entusiasti non ci fu bisogno, visto che le forze anglo-franco-israeliane si ritirarono quasi subito, grazie a un ultimatum di Mosca e alle pressioni americane.
Era un punto di non ritorno nel processo di decolonizzazione: per un giovane liceale apparve molto significativo, tanto più se messo accanto ai movimenti che da tempo agitavano l’Algeria e che presto avrebbero portato il Paese a liberarsi dal giogo francese. In quegli anni la scoperta delle ricchezze nascoste nel sottosuolo andava di pari passo con l’affrancamento dalle potenze coloniali. La Libia di re Idris aveva avviato un programma di concessioni che garantiva alle compagnie straniere il diritto a prospezioni geologiche e ne stimolava la concorrenza, imponendone il ricambio con limitazioni temporali.
Non ci fu grande pressione per lo sfruttamento del sottosuolo fino a quando la crisi di Suez e la chiusura del canale imposero alle compagnie petrolifere, abituate a contare sul greggio iraniano, un trasporto molto più impegnativo, con navi costrette a circumnavigare l’intera Africa. Fu allora che all’improvviso la produzione libica divenne interessante: il Paese si affacciava direttamente sul Mediterraneo e poteva vantare un regime apparentemente stabile e gradito all’Occidente.
Prima di allora il petrolio libico era stato quasi marginale negli scenari globali. Attorno al 1957, mentre il giovane Gheddafi si faceva notare come agitatore e adottava tutte le cause di liberazione – dalle manifestazioni contro gli esperimenti nucleari francesi nel deserto algerino a quelle di protesta per l’assassinio di Patrice Lumumba –, il governo di re Idris aveva accordato circa sessanta concessioni a una dozzina di società straniere, comprese le “sette sorelle”, la Compagnia francese del petrolio (parastatale), il consorzio Oasis e l’azienda di Nelson Bunker Hunt, figlio del magnate texano Haroldson Lafayette Hunt. L’ENI ottenne dal premier Mustafa Ben Halim una concessione per esplorare il sottosuolo nel Fezzan, ma re Idris fece fuori il primo ministro e attribuì i diritti all’americana Texaco, provocando persino il disappunto del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi.
Dopo qualche ritrovamento modesto vicino al confine con l’Algeria, il primo pozzo petrolifero davvero produttivo fu realizzato nel 1959 nella regione di Sirte, a Zelten (ora Nasser). Le dimensioni del giacimento stimolarono la Exxon, titolare della concessione, a costruire una conduttura e un terminal sul Mediterraneo. La pipeline, lunga 167 chilometri, aveva la capacità di portare al terminal di Marsa al Brega circa duecentomila barili di greggio al giorno. Inaugurata nell’ottobre 1961, l’opera garantì l’export di sette milioni di barili solo per quell’anno. Fu un momento di svolta per la Libia, che usciva dalla povertà e non avrebbe più dovuto contare sull’affitto delle basi militari di Al Adem, della britannica Royal Air Force, e di Wheelus Field, dell’Aeronautica americana. L’anno dopo la Libia, con una produzione annua di 67,1 milioni di barili, aderì all’OPEC. Nel 1965 il gettito dei giacimenti arrivò a 445,4 milioni di barili.
Rivoluzione
Con tutta probabilità anche la politica petrolifera confermò al giovane Gheddafi che il regime di re Idris era in sostanza un residuo del periodo colonialista. Certo non era bastato, per l’anima ribelle dell’adolescente Muammar, sentire il sovrano affrontare timidamente i temi dell’uscita dal colonialismo alla fondazione dell’Unione Africana, nel 1963. Idris aveva invitato a “combattere ogni tentativo imperialistico di dividere il continente usando designazioni tendenziose come Africa subsahariana. Il Sahara dev’essere un ponte per unirci, non un ostacolo per dividerci”.
Per Gheddafi il momento delle suggestioni panafricane era ancora lontano. Invece, nonostante il fallimento dell’unione fra Egitto e Siria, l’operato di Nasser aveva avviato un processo articolato verso il sogno del panarabismo. Il ragazzo venuto da Sirte accarezzava una sua visione della Libia, molto diversa da quella della monarchia senussita. Cominciò a selezionare fra i compagni di liceo i più brillanti e coraggiosi, per costruire la base di quel movimento segreto che pochi anni dopo avrebbe portato al colpo di Stato. Identificato come agitatore, espulso dalle scuole del Fezzan e costretto a un profilo più moderato in un istituto superiore di Misurata, Gheddafi non rinunciò alla preparazione di un gruppo clandestino in grado di mettere in pratica la rivoluzione.
Nel 1963, assieme a un gruppo di amici fidati, scelse la carriera militare, cosciente che le Forze armate nutrivano una forte sfiducia – ricambiata – nel regime di re Idris. Quest’ultimo le considerava inquinate da “valori nasseriani”, tanto che ne aveva tagliato i fondi e aveva affidato la propria sicurezza a forze private. L’idea di Gheddafi era quella di costituire un nucleo di ufficiali unionisti per poi conquistare il potere. Con questi, dopo una lunga e capillare opera di proselitismo, mise fine alla monarchia in un golpe rapido e quasi senza spargimento di sangue.
La generazione di re Idris non era in grado di comprendere fino in fondo le potenzialità del petrolio. “Vorrei che voi aveste trovato acqua. L’acqua fa lavorare gli uomini. Il petrolio li fa sognare”, dice una citazione a lui attribuita dopo la scoperta dei primi giacimenti. Le foto d’epoca lo mostrano avviarsi con poco entusiasmo, appoggiato a un bastone di bambù, alla cerimonia di apertura del terminal di Marsa al Brega, il 14 febbraio 1967. E il suo disinteresse per il tema era confermato dal fatto che persino la legge sulle concessioni, varata nel 1955, era stata concordata con le stesse compagnie che dovevano estrarre il petrolio. Era una normativa, dicevano gli addetti ai lavori, “particolarmente generosa”, anche perché inizialmente collegava il guadagno delle aziende concessionarie al reale ricavo sul mercato, non a un prezzo fisso concordato in anticipo.
Come scrive Angelo Del Boca nel suo ritratto definitivo Gheddafi. Una sfida dal deserto, a metà agosto 1969 a Tripoli si era diffusa la voce che il re fosse deciso ad abdicare in favore del principe ereditario, Hassan al Rida: “Ma questo non è il cambiamento che si aspetta il Paese. Questa Libia, che comincia a godere di un certo benessere grazie al petrolio e che è ansiosa di far sentire il suo peso nel mondo arabo, non può accontentarsi di un Hassan al Rida, giovane, inesperto, pallido e malaticcio. Da anni cerca un leader che assomigli a Nasser, che abbia il suo carisma, la sua baraka”.
I tempi erano maturi. E la disfatta degli eserciti arabi nella guerra dei Sei giorni fece capire a Gheddafi che bisognava accelerare, anche perché altri gruppi di potere si preparavano a rovesciare la monarchia ormai in disfacimento. In più, il nucleo degli ufficiali aspiranti rivoluzionari era stato segnalato alle autorità di Tripoli, che per liberarsi degli elementi scomodi si preparavano a spedirli all’estero, in località diverse. Ci furono diversi rinvii, uno dei quali legato addirittura alla coincidenza della data prefissata con un concerto della popolare cantante Umm Khultum, a cui i giovani rivoluzionari non volevano mancare di rispetto. Gli “ufficiali liberi” diedero il via all’operazione Gerusalemme nella notte fra il 31 agosto e il 1° settembre 1969. Con poche centinaia di uomini, i rivoluzionari conquistarono rapidamente gli snodi nevralgici di Tripoli, Bengasi, Sebha. Il golpe riuscì perfettamente, con minimo tributo di sangue.
Alle 6,30 del mattino la radio di Bengasi trasmise il comunicato dei rivoltosi, con cui si annunciava la caduta “del regime reazionario e corrotto, autocratico e marcio” e la nascita della Repubblica Araba Libica. A parlare davanti al microfono era un capitano di 27 anni, fino ad allora del tutto sconosciuto, che in breve sarebbe diventato il “fratello leader” del Paese. Nel discorso radiofonico, il capitano volle rassicurare anche “gli amici stranieri, che non devono temere per i loro beni o per la loro vita”, perché il cambiamento era solo una questione interna. Fra le righe si poteva leggere anche la preoccupazione per le risorse da poco scoperte, che garantivano un futuro prospero per la neonata Repubblica ma non potevano essere estratte né sfruttate senza l’impegno e la competenza delle compagnie petrolifere straniere.
Un nuovo corso
All’inizio gli ufficiali protagonisti del colpo di Stato – riuniti nel Consiglio di comando rivoluzionario – evitarono di profilarsi individualmente. Il primo nome che emerse, l’8 settembre 1969, fu quello del primo ministro: Mahmud Suleiman al Maghribi. Una scelta che doveva chiarire come le risorse nascoste fossero sempre sullo sfondo di ogni decisione: Maghribi, di origine palestinese, aveva lavorato nell’ufficio legale dell’americana Exxon fino alla guerra del ’67. Indignato per il sostegno degli USA a Israele, aveva preso posizioni forti a favore dell’embargo e del boicottaggio verso gli Stati Uniti, guidando lo sciopero dei lavoratori del settore e finendo in carcere sotto re Idris.
Nello stesso giorno, fu reso pubblico il nome del leader della giunta: Muammar al Gheddafi, un capitano che intanto i commilitoni avevano promosso per acclamazione colonnello. La politica inaugurata dal nuovo “uomo forte” piacque immediatamente ai libici: dalle misure di riforma dell’apparato pubblico (con il raddoppio dei salari minimi e il taglio dello stipendio ai ministri) alle scelte simboliche nazionaliste (con l’imposizione della lingua araba a ogni livello e l’abolizione delle insegne a caratteri latini), a quelle culturali (la scomparsa dei night club, il bando alla prostituzione) e a quelle religiose (la chiusura delle chiese, il divieto assoluto di bevande alcoliche). Le banche furono nazionalizzate, le aziende straniere dovettero cedere quote azionarie di maggioranza, persino la flotta di Mercedes dei funzionari pubblici venne liquidata, per far posto a berline Volkswagen, Peugeot e FIAT, oltre alle Land Rover per i militari. “Nella rivoluzione del 1969”, scrisse su Counterpunch Garikai Chengu, studioso della Harvard University, “Gheddafi aveva ereditato una delle nazioni più povere dell’Africa; ma al tempo in cui lui fu assassinato, il suo socialismo aveva trasformato la Libia nella nazione più ricca, con il PIL pro capite e l’aspettativa di vita più alti del continente”.
Dopo le prime riforme, era stata la volta dei grandi progetti sociali, dal sostegno economico alle coppie giovani, all’impegno sulla politica abitativa, fino all’ambizioso progetto che Tripoli orgogliosamente definiva “ottava meraviglia del mondo”, il Grande fiume artificiale. Era un immenso sistema di irrigazione, il più vasto del mondo, con condutture che prelevavano l’acqua dalle falde antichissime scoperte nel Sahara e risalenti all’era glaciale. La costruzione partì nel 1983, nel 1986 Gheddafi inaugurò a Marsa al Brega lo stabilimento dove venivano costruiti i cilindri di cemento (impegnando materiali d’acciaio fabbricati in Italia), e fra il 1989 e il 2007 l’acqua arrivò in tutte le grandi città assetate del Nord.
Ma la svolta repubblicana non fu gradita solo alla popolazione. Scrive Mino Vignolo nel suo Gheddafi. Islam, petrolio e utopia: “Anche le potenze occidentali e le compagnie petrolifere erano persuase che la Libia dovesse essere governata da un regime più moderno, meno legato alle lotte tribali e meno corrotto”. Quello che contava, insomma, era che alla guida ci fosse qualcuno in grado di garantire che il flusso di gas e petrolio non si fermasse. Nemmeno lo sgombero delle basi militari, imposto dal nuovo regime in tempi rapidi, sconvolse più di tanto Washington o Londra. E così come non restarono a secco le stazioni di servizio in Occidente, vennero sommerse anche le casse della neonata Repubblica. Nel 1969 la produzione di petrolio superava i tre milioni di barili al giorno.
Di questo fiume e dei suoi introiti, solo una piccola parte finiva nell’Est del Paese. Racconta fonte Gray, ex diplomatico con lunga esperienza in Libia:
La Cirenaica aveva una tradizione religiosa molto più forte, differente dall’approccio laico di Gheddafi. In più, i rivoluzionari avevano spodestato re Idris, capo della setta della Senussia cirenaica, di fatto inasprendo la contrapposizione con la Tripolitania. Il colonnello vedeva nei sentimenti autonomisti dell’Est una minaccia alla stabilità del suo regime, per questo non esitò a frenarne lo sviluppo. Dopo la rivoluzione questa parte del Paese rimase a un livello economico enormemente più basso, secondo la volontà del regime. Gli introiti del petrolio, quando arrivavano, arrivavano col contagocce. Povertà e disoccupazione erano diffuse. La Cirenaica reagiva cercando riferimenti altrove, e finì per avvicinarsi ai militanti dell’Islam radicale. Insomma, rispetto alla Tripolitania era un altro mondo. Ricordo la battuta, tradotta approssimativamente dall’arabo, di un anziano professionista libico che avevo conosciuto a Bengasi: “Gheddafi tiene la Cirenaica sotto i piedi, ma proprio lì il terreno franerà e lo farà cadere”.
I rivoluzionari al potere scelsero di applicare una politica di conservazione, invece che di incremento nel prelievo. In un anno e mezzo la produzione venne tagliata, lo Stato libico affrontò le compagnie petrolifere e proclamò che l’iniziativa non era più lasciata al mercato o alle grandi compagnie. In parole povere, i produttori decisero che potevano chiedere prezzi più alti. Se nel 1969 un barile costava 90 centesimi di dollaro, già nel 1971 le compagnie dovettero pagarlo 3 dollari e 45. Chi non era disposto ad accettare le nuove condizioni, fu sottoposto a misure punitive, costretto a limitare le estrazioni con motivazioni tecniche, e alla fine espulso. Ma la Libia era il quarto maggior produttore del mondo non comunista dopo Arabia Saudita, Iran e Venezuela, non era facile rinunciare a una presenza locale. La chiusura del canale di Suez durò fino al 1975, di fatto attribuendo al greggio libico un valore di mercato molto più alto che nei primi anni di estrazione. Negli anni Settanta Tripoli era ormai la fonte di petrolio più importante per l’intera Europa occidentale, e garantiva un terzo della richiesta globale.
A convincere le riottose multinazionali del petrolio, che avevano vittoriosamente affrontato una sfida simile in Iran negli anni Cinquanta, fu la tenacia di Tripoli, che sapeva di avere in mano leve formidabili. Rinegoziando le concessioni, Gheddafi proclamò: “Un popolo vissuto per cinquemila anni senza petrolio può continuare a vivere ancora per qualche anno senza di esso, per affermare i propri diritti legittimi”. Ma, più ancora che le dichiarazioni di principio, ebbe effetto l’indiscrezione trapelata in Libia sulle misure pronte a partire. Il colonnello aveva messo in preallarme le Forze armate, perché in caso di necessità intervenissero entro un’ora di tempo a bloccare i porti per fermare ogni spedizione.
Per Muammar al Gheddafi la benedizione del sottosuolo doveva servire a uno scopo preciso: avviando la nazionalizzazione delle risorse, chiedendo una fetta maggiore dei ricavi, pretendendo dalle compagnie una quota non inferiore al 55 per cento e maggiore controllo sullo sviluppo dell’industria, il colonnello sognava non solo di garantire il benessere ai libici – approfittando anche del fatto che questi superavano di poco il milione –, ma anche di rilanciare la visione panaraba di Nasser. Un passo in questa direzione fu anche il coordinamento con l’Algeria, fuori dalla cornice OPEC, in chiave anti-israeliana. Il mensile Foreign Affairs fu tra i primi a comprendere la portata del cambiamento, e parlò esplicitamente di oil weapon,espressione che sarebbe tornata di attualità nel 1973.
Ma nemmeno le risorse quasi illimitate a disposizione della sua Repubblica consentirono al colonnello di vedere realizzato il sogno panarabo. Le sue proposte di unione furono via via respinte. Nel 1971 egiziani, siriani e libici approvarono con un referendum la fusione dei tre Stati, che non fu mai portata a compimento e rimase solo una federazione, per cinque anni. Un tentativo di unione con la Tunisia, che avrebbe dovuto poi accogliere Algeria e Marocco, non decollò per i ripensamenti di Habib Bourghiba. Persino il Sudan, poverissimo, preferì una strada separata dalla ricca e spopolata Libia.
Nel 1973 Gheddafi aveva dichiarato in patria una “rivoluzione culturale”, che prevedeva la formazione di “comitati popolari” nelle scuole, negli ospedali, nelle università, nei luoghi di lavoro e nei distretti amministrativi. Nel 1977 rilanciò, annunciando una “rivoluzione popolare” e cambiando il nome ufficiale del Paese da Repubblica Araba Libica a Grande Jamahiriya (cioè Repubblica delle masse) Araba Libica Popolare Socialista, con la creazione di “comitati rivoluzionari”. Questi erano lo strumento per riportare sotto il suo controllo, sempre energico e indiscusso, il Paese, ma il loro insediamento, caratterizzato da una totale arbitrarietà e da una politica di pugno di ferro assoluto, suscitò un forte declino economico. Ai cambiamenti politici, il raìs aveva affiancato nel 1975 un contributo teorico, il Libro Verde, in cui teorizzava una sua personale visione politica che avrebbe dovuto superare capitalismo e comunismo.
Lotta anticolonialista
La disponibilità economica che arrivava dal petrolio permise a Gheddafi di sviluppare in concreto le idee anticolonialiste, senza condizionamenti dettati dalla prudenza. Il leader libico assunse anzi, scrive John Wright in Libya: A Modern History, un ruolo provocatorio negli affari arabi e mondiali. “La costante necessità dell’Occidente di proteggere i propri interessi petroliferi e mantenere costante il flusso del greggio libico spiega la facile acquiescenza della Gran Bretagna e degli Stati Uniti alla richiesta di evacuazione delle basi, e quella dell’Italia davanti all’espropriazione e al rimpatrio di un’intera comunità, comprese le ossa dei morti. Spiega anche perché i francesi poterono ignorare i propri scrupoli proclamati sulla vendita dei Mirage”.
La visione anticolonialista di Gheddafi lo portò presto a diventare il punto di riferimento per i gruppi che ovunque nel mondo avevano intrapreso la lotta contro i regimi invasori. Dal Sudafrica all’Irlanda del Nord, i petrodollari della Libia servirono a finanziare ogni movimento rivoluzionario. Ma il primo e più importante obiettivo, che il colonnello aveva proclamato già nel 1970, era quello di liberare la Palestina. Molto critico verso la frammentarietà dei gruppi palestinesi, Gheddafi tentò prima di avvicinare l’OLP al marxista Fronte popolare per la liberazione della Palestina guidato da George Habash, ma finì per espellere il FPLP dalla Libia e concentrare le risorse su Al Fatah, l’organizzazione guidata da Yasser Arafat. Da qui nacque il sostegno per il gruppo guerrigliero Settembre Nero, figlio non riconosciuto di Al Fatah, i cui militanti si resero responsabili del sanguinoso attacco contro la squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco nel settembre 1972.
Per il mondo, l’accoglienza in Libia e i funerali solenni dei cinque militanti rimasti uccisi nell’attacco furono una dichiarazione di intenti esplicita. Il regime di Tripoli fu considerato il finanziatore dei gruppi palestinesi impegnati nei dirottamenti. Ed è difficile non collegare queste considerazioni con l’abbattimento, da parte di due caccia F-4 Phantomisraeliani, del volo Libyan Arab Airlines 114, un Boeing 727partito dalla capitale libica e diretto al Cairo via Bengasi, uscito di rotta per un malfunzionamento sul Sinai occupato. Era il 21 febbraio 1973, sull’aereo c’erano 113 persone, solo cinque sopravvissero. Il governo di Israele lo definì “un errore di valutazione” e pagò compensazioni per le vittime, ma – raccontò cinquant’anni dopo il quotidiano Haaretz – senza mai investigare sull’accaduto.
Secondo John Wright, attraverso il “sacro dovere” verso tutte le rivoluzioni, la Libia divenne “non solo il sostenitore clandestino dei gruppi di opposizione marocchini, tunisini, egiziani e sudanesi, ma anche un sostenitore aperto e dichiarato dei musulmani ‘oppressi’ in Ciad e nelle Filippine meridionali (così come dei ‘musulmani neri’ negli Stati Uniti), dei movimenti nazionali ‘anticoloniali’ nell’Africa portoghese, e della ‘liberazione rivoluzionaria’, praticata da gruppi come il Fronte di Liberazione Eritreo e l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA)”.
Sulle cifre sborsate da Tripoli per gli aiuti ai rivoluzionari ci fu sempre mistero. Una stima pubblicata dal Times nel 1972 le collocava sopra i 150 milioni di sterline: al valore degli anni Settanta, era l’equivalente di tre miliardi di sterline oggi, cioè quasi tre miliardi e mezzo di euro. Lo stesso quotidiano londinese sottolineava che, al di là delle preoccupazioni per i musulmani di Israele, Ciad e Filippine, il regime libico sicuramente non aveva interessi vitali nell’Irlanda del Nord. Ma “dare sostegno e rifugio ai terroristi rafforzava lo status internazionale di Paesi altrimenti poco importanti, facendo sentire i loro governanti influenti e sembrava valere la spesa”.
L’aiuto ai gruppi militanti conquistò a Gheddafi l’antipatia di Ronald Reagan: appena arrivato alla Casa Bianca, il presidente americano volle sfidare il leader di Tripoli a casa sua, contestando il diritto libico al golfo della Sirte. Nell’agosto 1981 i caccia F-14 Tomcat,decollati dalla portaerei Nimitz,abbatterono due jet libici Su-22che li avevano ingaggiati mentre le forze USA erano impegnate in un’esercitazione della VI flotta chiamata, non a caso, Freedom of Navigation.
Dopo gli attacchi terroristici negli aeroporti di Roma e Vienna nel dicembre 1985, con 19 morti, la Libia fu considerata corresponsabile per l’offensiva, rivendicata da una fazione palestinese radicale guidata da Abu Nidal. Il gruppo era uscito dall’OLP, che da poco aveva ufficialmente rinunciato alle azioni armate fuori dal territorio di Israele e dei Territori occupati. Secondo fonti di intelligence, Tripoli aveva fornito le armi per gli assalti. Il gruppo era già stato protagonista di una serie di attentati, alcuni forse rivendicati senza reale coinvolgimento, ma aveva conquistato l’apprezzamento di Gheddafi, che nel 1986 decise di accogliere i militanti in Libia, divenendo poi amico del leader.
Tripoli aveva da poco schierato i missili terra-aria sovietici S-200e insisteva a voler usare ogni mezzo per difendere la sovranità sulla Sirte. Quando, nella primavera del 1986, la Marina americana oltrepassò quella che Gheddafi chiamava “linea della morte” con tre squadre navali e 225 aerei, lo scontro fu inevitabile e si concluse con robuste ma non dichiarate perdite da parte libica e nessuna perdita nelle forze statunitensi. Ma, appena due settimane dopo, una bomba esplose nella discoteca berlinese La Belle, frequentata da militari USA: due di essi morirono nell’attentato, assieme a una donna turca, altre duecento persone restarono ferite.
Washington sostenne di avere le prove di un coinvolgimento di Tripoli nell’attentato, e ordinò un massiccio bombardamento della Libia in cui morirono un centinaio di persone. Fra queste c’era – secondo il governo libico – anche la figlia adottiva del colonnello, Hana. Questa versione fu contestata da diverse fonti, secondo cui la giovane era viva e lavorava come dentista.
Il 21 dicembre 1988 il Boeing 747del volo Pan Am 103, partito da Francoforte per Detroit, esplose in volo, causando la morte di 243 passeggeri, in prevalenza americani e britannici, 16 membri di equipaggio e 11 residenti di Lockerbie, la cittadina scozzese su cui caddero i rottami dell’aereo. Dopo tre anni di indagini gli inquirenti scozzesi e americani emisero i mandati di cattura per due cittadini libici, ma la Jamahiriya accettò di consegnare alla giustizia scozzese i due accusati solo nel 1999. Uno di loro, Abdelbaset al Megrahi, fu considerato colpevole e condannato all’ergastolo, per essere poi rilasciato nell’agosto 2009 perché ammalato di tumore. La liberazione anticipata fu collegata da molti osservatori al ritorno in Libia della britannica BP con un contratto da 900 milioni di dollari per esplorazioni su 54.000 chilometri quadrati nella parte Ovest del Paese e nelle acque del golfo della Sirte. La compagnia petrolifera negò di aver preso parte alle trattative, ma ammise di aver fatto pressioni sul governo scozzese.
Gheddafi aveva negato di aver ordinato l’attentato al 747, ma accettò la responsabilità libica e stabilì di pagare un forte risarcimento alle famiglie delle vittime – 2,7 miliardi di dollari –, precisando però che questo era un atto necessario per interrompere l’isolamento internazionale della Libia. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU votò la fine delle sanzioni nel settembre 2003.
L’anno dopo, Tripoli concordò un risarcimento anche per le famiglie delle 170 vittime del volo UTA 772, caduto nel deserto del Ténéré nel settembre 1989 dopo l’esplosione di una bomba a bordo. L’attentato, in cui era coinvolto, secondo gli investigatori, anche il capo dell’intelligence di Tripoli Abdullah Senussi, fu forse una rappresaglia contro la Francia per il sostegno al Ciad contro i progetti libici di espansione verso sud, o il tentativo fallito di eliminare un esponente di opposizione. Nell’agosto 2004 fu il turno delle vittime della discoteca La Belle, risarcite con 35 milioni.
L’isolamento internazionale e, probabilmente, anche la coscienza di quello che era successo all’Iraq con il pretesto delle armi di distruzione di massa spinsero Gheddafi a rinunciare formalmente, nel dicembre 2003, ai programmi di armamento nucleare e chimico. La strategia diede i suoi frutti: a gennaio del 2005 la prima asta per licenze di ricerca di gas e petrolio vide il ritorno in Libia delle compagnie americane, assenti da oltre un ventennio. E nel maggio dell’anno successivo, gli Stati Uniti ristabilirono relazioni diplomatiche con la Jamahiriya.
Persino Amnesty International riconobbe che la mano di ferro usata dal regime nei decenni precedenti si era in parte allentata, anche se restavano senza soluzione – e senza colpevoli – “centinaia di casi di sparizioni forzate e gravi violazioni dei diritti umani commesse negli anni ’70, ’80 e ’90”.
Nel 2008 il Paese ricoprì per un mese la presidenza – a rotazione – del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: si chiudeva definitivamente il periodo in cui il regime veniva trattato da paria. A settembre Gheddafi ricevette a Tripoli il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, in una visita storica. La Rice parlò di “nuova fase” nei rapporti fra Tripoli e Washington: un incontro a quel livello non avveniva dal 1953.
Il sogno panafricano
Durante l’isolamento internazionale dovuto al sostegno di Tripoli a gruppi armati di mezzo mondo e alle accuse di finanziare il terrorismo, anche gli Stati arabi avevano voltato le spalle al colonnello. Le Nazioni sorelle avevano accettato senza reagire le sanzioni alla Libia, e Gheddafi si era sentito tradito. Gradualmente il sogno panarabo lasciò spazio a un progetto ancora più ambizioso: l’idea di un’unità stretta fra gli Stati dell’Africa, a partire da Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Gambia che avevano deciso di ignorare l’embargo e rompere l’isolamento di Tripoli.
L’idea del panafricanismo, nata dalla coscienza comune dei popoli che avevano subìto lo schiavismo, aveva avuto risvolti politici articolati già nel secolo XIX, e aveva dato origine all’Organizzazione dell’Unità Africana, poi divenuta Unione Africana proprio su iniziativa della Libia, al vertice di Sirte del 1999.
Gheddafi aveva raccolto il testimone dal ghanese Kwame Nkrumah, sposando in pieno la necessità di un processo che portasse agli “Stati Uniti d’Africa”, con un punto d’arrivo che vedesse una sola valuta, un unico esercito, un passaporto comune. All’impegno ideologico il leader libico affiancò i fatti, attingendo con abbondanza alle casse di Stato, in aiuto ai Paesi più poveri (dalle donazioni di trattori al Gambia alla rete di telecomunicazioni finanziata nel Ciad e nei Paesi vicini attraverso la libica Al Madar), sostenendo direttamente l’UA con milioni di dollari, e spesso pagando anche le quote di iscrizione dei Paesi più poveri. Ma non tutti i leader del continente erano animati dalla stessa visione e, a causa delle tendenze centrifughe e degli interessi particolaristici, il progetto rallentò e divenne qualcos’altro.
Per il presidente tanzaniano Julius Nyerere, militante anticolonialista e “padre della nazione”, l’organismo era solo “un comitato di dittatori che non proteggeva i diritti degli africani”. Altrettanto duro il giudizio dell’economista del Malawi, Thandika Mkandawire, secondo il quale “una delle principali debolezze del panafricanismo è stata l’incapacità di proteggere gli africani dai tiranni locali. Il panafricanismo non è stato visto come garanzia dei diritti delle persone. La solidarietà in suo nome ha gettato un velo di oscurità sulle azioni orrende dei dittatori africani, dalla corruzione al genocidio”.
Una moneta per sfidare il dollaro
Nel 2009, Gheddafi era presidente dell’Unione Africana. Da essere fra i Paesi più poveri La Libia era diventata la nazione più ricca del continente. Il colonnello decise di proporre agli altri Paesi dell’Unione di adottare una valuta comune, per sganciare dalle banche americane i ricavi del sottosuolo. L’idea di abbandonare il dollaro per le proprie transazioni internazionali e passare a quello che, secondo le proposte libiche, si sarebbe potuto chiamare dinaro d’oro, significava che le ricchezze del sottosuolo africano non sarebbero più state sottoposte a un controllo dell’Occidente, ma sarebbero confluite in fondi gestiti dagli Stati africani.
All’inizio, la prospettiva di affiancare un personaggio imprevedibile come il colonnello in un progetto così significativo sembrava poco proponibile. Ma la gestione accurata dei proventi petroliferi aveva permesso alla Banca Centrale della Libia di accumulare massicce riserve auree: oltre 143 tonnellate, secondo quello che filtrò attraverso i documenti resi pubblici da WikiLeaks, e altrettanto valore in argento, per un valore stimato superiore ai sette miliardi di dollari.
La garanzia aurea avrebbe permesso stabilità al valore delle estrazioni petrolifere, dato che nel 1971 il dollaro, sotto la presidenza di Richard Nixon, era stato sganciato dall’oro e subiva gli effetti dell’inflazione. E questi non erano trascurabili: ai tempi del dollaro convertibile, un’oncia d’oro (misura standard nel mondo anglosassone, pari a 28,35 grammi) valeva poco più di 40 dollari, nel 2009 sfiorava i mille, e durante il 2024 ha superato i 2.500.
Diversi Paesi sembravano pronti, fra essi Nigeria, Tunisia, Egitto e Angola. Nel 2009, al Primo Congresso degli economisti africani, tenuto a Nairobi sotto l’egida dell’Unione Africana, l’adozione di una moneta unica fu esaminata e sostanzialmente approvata, anche se con qualche riserva e molte raccomandazioni di gradualità. Poi la rivolta in Libia costrinse a sospendere ogni iniziativa. Ma l’idea che fosse stata proprio la minaccia per la valuta statunitense a far decidere l’offensiva occidentale contro Gheddafi rimase in piedi, tanto più quando fra le email del segretario di Stato USA Hillary Clinton, rese pubbliche da WikiLeaks, comparve un messaggio del suo controverso consigliere, Sid Blumenthal, che secondo molti confermava i peggiori sospetti. In questa email il collaboratore della Clinton citava un’“alta fonte” per sottolineare quelli che secondo i critici erano i motivi per cui era necessario eliminare Gheddafi. “Secondo informazioni sensibili a disposizione di questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile di argento... Questo oro è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e avrebbe dovuto essere utilizzato per stabilire una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco CFA”. L’oro sarebbe stato spostato dalle casse della Banca Centrale di Tripoli a Sebha, non lontano dal confine con il Niger e il Ciad.
Blumenthal citava altre generiche fonti, secondo le quali l’offensiva al franco CFA sarebbe stata uno dei fattori fondamentali per la decisione del presidente francese Nicolas Sarkozy di attaccare la Jamahiriya. Secondo queste fonti, gli obiettivi di Parigi sarebbero stati: “a) ottenere una quota maggiore della produzione petrolifera della Libia; b) aumentare l’influenza francese nel Nord Africa; c) migliorare la sua situazione politica interna in Francia; d) fornire all’esercito francese un’opportunità per riaffermare la sua posizione nel mondo; e) affrontare la preoccupazione dei suoi consiglieri sui piani a lungo termine di Gheddafi di sostituire la Francia come potenza dominante nell’Africa francofona”.
In realtà, l’email non sottolineava in termini espliciti quale pericolo potesse costituire il dinaro d’oro per il dollaro, anche se questo scenario non poteva che apparire implicito. Sul tema si confrontarono parecchi osservatori, senza però che nessuno fosse in grado di stabilire un nesso preciso fra la minaccia alla valuta americana e il cambiamento di regime imposto con la forza. Al di là della ricerca di un collegamento inequivocabile, l’esame della politica estera statunitense e occidentale in genere – soprattutto se l’intervento in Libia si confronta con altre situazioni di Paesi autoritari, per le quali non fu mai invocata la teoria della R2P, la Responsibility to Protect – lascia la strada aperta a molti dubbi sulle motivazioni umanitarie.

Giampaolo Cadalanu, a lungo inviato speciale del quotidiano “la Repubblica”, si è occupato per oltre trent’anni di crisi e conflitti in tutto il mondo, dal Medio Oriente ai Balcani, dal Sudan all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina, dallo Sri Lanka al Libano. Come defense correspondent ha seguito i soldati italiani nelle diverse missioni all’estero. Gli sono stati conferiti, tra l’altro, il premio Boerma della FAO e la Colomba d’oro dell’Archivio Disarmo. Per Laterza è autore di La guerra nascosta. L’Afghanistan nel racconto dei militari italiani (con Massimo de Angelis, 2023).


Venerdì 13 giugno alle 18.30 la libreria GRIOT, via Santa Cecilia 1a. Roma (tel. 06.58334116) ospita la presentazione di “Sotto la sabbia. La Libia, il petrolio, l’Italia” di Giampaolo Cadalanu, pubblicato da Laterza. Insieme all’autore partecipa Francesco Fossa, giornalista di Mediaset

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