Kanoko Okamoto
LA GRU, LO STAGNO, IL KIMONO
traduzione di Marcello Rotondo
prefazione di Marcello Rotondo
Lindau
collana Senza Frontiere
giugno 2025
pp. 112, euro 16
ISBN 9791255842422
«Sono sempre le donne ad avere un ruolo dominante nelle storie
di questa scrittrice, donne con un fuoco nel corpo e nell’anima». (Dacia Maraini)
Nei tre racconti che compongono questo volume – La gru inferma, Sogno di una notte di mezza estate, Storia di una vecchia geisha – Okamoto Kanoko, una delle più significative scrittrici giapponesi del ’900, esplora le vite di tre donne degli anni ’20 e ’30, tra passioni, illusioni e rinascite. Yōko rievoca il suo legame con un celebre scrittore, sospesa tra ammirazione e disincanto; Saiko, promessa sposa, sfiora l’amore proibito in un’estate di libertà; Kosono, geisha ormai anziana, trasmette a un giovane inventore il coraggio di cambiare.
Nel suo stile raffinato e visionario, Okamoto ritrae con straordinaria intensità l’anima femminile, tra memorie struggenti, desideri proibiti e ricerca di sé, rivelando il potere del desiderio e la forza silenziosa della trasformazione.
Prefazione di Marcello Rotondo
Ricordo che la mattina di alcuni anni fa in cui portai a termine la traduzione inglese di Letture di vita buddista uscii di casa senza una meta precisa. Per alcuni mesi, la traduzione di questo saggio di Okamoto Kanoko (1889-1939), appartenente alla sua produzione filosofico-religiosa, era stata per me un esercizio quotidiano. Sentivo il bisogno di staccare prima di cimentarmi in qualcosa di nuovo. Decisi così di andare a visitare il Museo di Arte Popolare Giapponese a nord di Osaka. Il mio interesse per la sua opera era stato richiamato inizialmente dalla sua capacità di incarnare un’approfondita conoscenza teorica e storica del buddismo con l’esperienza concreta del quotidiano, rendendo così entrambe accessibili a qualsiasi lettore. L’opera mi appariva ricca di intuizioni profondamente originali, ma con mia sorpresa, quando menzionavo il suo nome ad amici giapponesi, solo pochi – generalmente i più anziani – ne avevano sentito parlare. Anche loro, tuttavia, non conoscevano la Okamoto Kanoko che avevo conosciuto io. Al suo nome rispondevano: «Ah sì, non fu la madre di Okamoto Tarō, l’artista?». Mi parve curioso che una figura così originale, capace di guadagnare con merito la stima e l’ammirazione del mondo letterario a lei contemporaneo, fosse ormai ricordata debolmente, e prima di tutto per essere madre di un altro artista. Al tempo stesso, considerando la sacralizzazione operata da Okamoto della figura materna, da lei glorificata come la più alta incarnazione terrena di Kannon (il bodhisattva della compassione che ascolta i gemiti del mondo), pensai che lei stessa vi avrebbe forse visto proprio una celebrazione del suo ideale e, lungi dal considerarla come una sua riduzione a un’ombra del figlio, ne sarebbe stata onorata. Giunto al parco in cui si trovava il museo, vidi un’immane scultura di cui ignoravo la fama, la cosiddetta «Torre del Sole». L’autore, naturalmente, era proprio Okamoto Tarō. La sorprendente sincronicità dell’evento mi fece promettere di ritornare prima o poi a lavorare su Okamoto Kanoko per una nuova traduzione, e sono felice di averne avuta qui la possibilità. La raccolta Frotte di pesci rossi (Lindau, 2018), opera meritoria di aver reso finalmente accessibile anche al pubblico italiano la penna di Okamoto, contiene in appendice un saggio della traduttrice Fujimoto Yūko che ritengo un capolavoro di erudizione. Traccia molto puntualmente la parabola della vita privata e letteraria di Okamoto, fornendo della donna e dell’autrice un quadro dettagliato che invito caldamente il lettore a consultare. In queste poche righe, non posso sperare né voglio tentare, di ripetere o espandere quanto già detto in quell’occasione. Sarei invece soddisfatto appena di inquadrare i tre racconti qui tradotti alla luce di alcuni elementi caratteristici di Okamoto. I tre racconti appartengono agli ultimi tre anni di vita dell’autrice, anni caratterizzati da una serrata produzione di racconti rimasti per lo più oscuri anche alla fama patria, e per la maggior parte pubblicati postumi dal marito Ippei. Sebbene in essi non si faccia riferimento esplicito alla dottrina buddista (se non per un uso appena accennato di qualche termine dal doppio significato laico e religioso, che ho tuttavia preferito non marcare nella traduzione), si tratta di testi evidentemente pregni degli sforzi compiuti dall’autrice negli anni immediatamente precedenti alla sua prematura morte per chiarire sé stessa e affrontare finalmente alla radice, senza più evasioni, la travagliata sofferenza che puntellò di drammi familiari la sua storia personale. Dei tre racconti, La gru inferma (1936) si distingue per la sua rilevanza storica. Fulgido esordio di Okamoto come novellista, si tratta di un «racconto in chiave» in cui l’autrice descrive il suo incontro ravvicinato con Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927), considerato il padre del moderno racconto breve giapponese; un incontro avvenuto durante un soggiorno estivo con tutta la famiglia Okamoto a Kamakura nel 1923. Il testo, pur riflettendo ancora quella certa vanità quasi infantile e quel dovizioso naturalismo psicologico spesso a lei rimproverati dai critici dell’epoca, possiede un’innegabile potenza introspettiva. Nel successivo Sogno di una notte di mezza estate (1937), Okamoto sembra tornare a rielaborare uno dei dilemmi centrali della sua vita, il conflitto tra reale e ideale nel rapporto sentimentale: una giovane donna, la cui realtà è quella di essere stata promessa come sposa dal fratello a un amico di lui, in una serie di evasioni notturne ha modo di divincolarsi dalle aspettative sociali verso un mondo di sogno in cui conosce il fascino misterioso dell’ideale nella figura di un eccentrico vicino, anch’egli amico di gioventù del fratello. Infine, in Storia di una vecchia geisha (1938) assistiamo all’iniziazione alla vita adulta del giovane Yuki, aspirante inventore, da parte di Kosono, una geisha ormai giunta a fine carriera ma che non smette di reinventare sé stessa per stare al passo coi tempi. Kosono cerca di aiutare il giovane Yuki nel travagliato passaggio a una vita indipendente che possa far fiorire il suo vero potenziale sia nella sfera sociale che in quella emotiva. A una lettura non ponderata, i tre racconti potrebbero mostrare solo la propria eterogeneità. Senza volerne forzare la lettura, il lettore potrà tuttavia scorgere un filo conduttore che lega le tre figure femminili di Yōko la letterata, Saiko la promessa sposa e Kosono la vecchia geisha. Esse forniscono l’ordito, per così dire, di una trama data da corrispettive figure maschili: Asagawa il genio letterario, Makise lo studioso d’architettura e Yuki l’inventore. I loro intessuti danno corpo a tre racconti d’amore, in cui possiamo ravvisare, intrecciate tra loro, le tre forme classiche di philia, eros e agape. È l’ideale a cui essi richiamano i protagonisti a far emergere i conflitti che ciascuno di essi è chiamato a risolvere. Ricorre il topos della vita e dell’opera di Okamoto: il dolore che sferza la vita a realizzare il proprio significato e a sbocciare di passione. Okamoto Kanoko è stata letta soprattutto sotto la luce della lampada del femminismo, specialmente a partire dagli anni ‘60. E questo con buone ragioni: temi ricorrenti sia nella sua produzione letteraria (si pensi all’esaltazione sacrale della figura materna, la donna che con caparbietà rigetta le aspettative imposte da una società patriarcale che non riconosce le sue più genuine e inalienabili passioni) che nella sua vita (le relazioni poliamorose e la rivendicata libertà di parti extramatrimoniali, l’ideale familiare di un «paradiso matriarcale», gli stretti contatti con autrici che divennero poi astri della prima avanguardia femminista giapponese) certamente ben riflettono la luce di quella lampada. Essa, tuttavia, non è la sola luce che il suo corpo fu capace di riflettere, e limitarsi a essa soltanto (escludendo dalla propria lettura ad esempio certi suoi commenti nei confronti del genere femminile o un certo uso del linguaggio) genererebbe soltanto ombra laddove altra luce sarebbe riflessa. Ci renderebbe una Okamoto più facile da comprendere, ma meno completa; si perderebbe l’interezza di un’autrice che, quando dette, davvero dette tutta sé stessa, senza farsi voce di alcuna ideologia, fosse essa femminista, socialista o buddista, pur predicando valori che riconosceva in ciascuna. Ciò è specialmente vero per la produzione degli ultimissimi anni, quella cioè rappresentata in questi tre scritti; anni nei quali Okamoto parve d’aver raggiunto un punto della sua vita in cui, quasi presagendo la fine, sentì di potersi finalmente voltare sui suoi passi e raccontarsi non in divenire, ma in quanto compiuta. È con questa speranza di interezza, di una luce bianca che rischiara tutto dall’interno, che desidero offrire questa seconda traduzione di Okamoto alla vostra lettura.
Okamoto Kanoko (1 marzo 1889 - 18 febbraio 1939), nata in un’agiata famiglia di notabili e possidenti, cominciò molto presto a dedicarsi alla scrittura, stimolata anche dalla frequentazione con autori emergenti del livello di Tanizaki Jun’ichirō. Collaborò con le più importanti riviste letterarie giapponesi e trascorse lunghi periodi in Europa e negli Stati Uniti. Esordì come prosatrice con il racconto Tsuru wa Yamiki («L’airone infermo», 1936), ispirato agli ultimi giorni dello scrittore Akutagawa Ryūnosuke, cui fecero seguito in rapida successione alcune delle novelle più celebri della moderna narrativa nipponica: Boshi Jojō («Idillio materno», 1937), Kingyo Ryōran («Frotte di pesci rossi», 1937), Rōgishō («Ritratto di vecchia geisha», 1938), Kawa Akari («Fiume di luce», 1938), oltre all’ambizioso romanzo psicologico Shōjō Ruten («La ruota della vita», postumo, 1939).
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