mercoledì 12 marzo 2025

Armanda Guiducci - LA MELA E IL SERPENTE - Nottetempo

Armanda Guiducci
LA MELA E IL SERPENTE
Autoanalisi di una donna

a cura di Eloisa Morra
Nottetempo
Collana Cronache
marzo 2025
pp. 396, euro 19.50
ISBN 9791254801734

 
“Non sono autobiografia, sono un campione d’esistenza al femminile”. Così si presentava ai lettori alla sua uscita, nel 1974, La mela e il serpente, un libro decisivo per chiunque si interessi della condizione delle donne. Attraverso questo incrocio tra memoir e referto analitico, trattato d’antropologia e reportage diventato un classico del femminismo, Armanda Guiducci – scrittrice, traduttrice, critica – fruga “dietro le istituzioni sociali, dietro i tabù del sesso, nell’inconscio maschile. Ma frugo anche nel mio inconscio che pullula di immagini compiacenti, deformate, della Femminilità”.
Con tocco felice e irruente l’io narrante, oggetto e soggetto dello sguardo, traccia una mappa del diventare donna, così evocato in una precedente poesia: “Diventare donna è un nascere per strappi / reiterati, per lacerazioni / là, ai margini, / dove l’erba dirada”. Ma dove la Storia ha ferito, Guiducci cuce riferimenti, disegnando la serie di passaggi obbligati della sua generazione: dalla prima mestruazione alla coscienza della disuguaglianza, dall’“entrata nel ruolo” di moglie e madre al ripensamento, verso la libertà di scelta.
Essere donna è al contempo sfida, pungolo, destino: l’avventura conoscitiva che porta alla scoperta dei pregiudizi cristallizzati in miti e leggende di varie culture, letti con la lente dell’antropologa, ma pure alla rivelazione dell’altro da sé, attraverso esperienze di donne diverse per età e provenienza che entrano nel corpo del racconto. Perché, come evidenzia Eloisa Morra nella sua prefazione, “scrivere per Guiducci è pratica identitaria che spinge a muoversi di continuo dentro di sé e verso l’altro, senza che le due istanze entrino mai in contraddizione”.

Ciò che posso fare è demistificarmi come donna, creatura etichettata; liberarmi della mia stessa, più profonda, repressione – che non è già l’ombra dell’uomo su di me, ma la mitologia che è in me stessa, che amo e di cui vivo. Questa non è una rivolta, è una estirpazione. Molto sotto le cicatrici della pelle stanno le radici dell’inconscio. E tutta la mia mitologia femminile, dopo tanti anni, tanta infanzia passata, deve essersi ormai sedimentata là, deve essere divenuta una mitologia inconscia.”

L'incipit

Ricordo quel gabinetto stretto e lungo, con le pareti a stucco scrostato a tratti, la vasca alta di ghisa ingombra di panni al macero, la corda che l’attraversava di sbieco curva sotto il peso dei pannolini umidi, la finestretta verticale sull’assenza di luce del cortile. Ne strisciava un grigiore bisbigliante omertà, e rimproveri – quand’io stavo là, piegata sul mio corpo colpevole. Che nessuno potesse mai sorprendermi in quella posa, in quell’orrore. Spiavo le ombre dietro i vetri smerigliati, sul corridoio. Era un atto da consumare come un vizio solitario, una tara. Da cancellare con l’acqua e il silenzio. Perché nessuno si accorgesse, dovevo sbrigarmi il più rapidamente possibile. Tiravo la catena adagio, in modo che l’acqua non scrosciasse come una denuncia. Nella stanza in disordine, in un angolo, stava la mia ultima bambola – massacrata. A tutte, regolarmente, avevo strappato gambe e braccia. Infine, con un irresistibile moto di voluttà, la testa. Gettato sul letto doveva stare il libro delle fiabe dei Grimm – con quella meravigliosa copertina in cui una rana eccezionalmente verde e maestosa affiora da una fontana. Un giorno di primavera mi trovai costretta sulla tazza sciacquante del water, fra i barbagli porcellanati di un primo pomeriggio. Ricordo come Giosuè quel sole fisso sulla mia paura. Mentre stavo a gambe allargate, in piedi, per non toccare l’orlo del water che era gelido, mi faceva ribrezzo e “forse era meglio non toccare”, sentii una contrazione profonda, lontana. E, di colpo, le cosce furono rigate di sangue. Restai immobile, come uno colpito a tradimento – e guardavo, con spavento indicibile. Fissavo il sangue lento, inesorabile, strisciarmi verso le ginocchia, striandomi di tepore. Mi chinai, e vidi la tazza bianca chiazzata di vivo sangue scuro. Ero ferita a morte. Ma da chi? E perché? Quel fiotto implacabilmente lento, forse inarrestabile, che avanzava subdolo, non era il medesimo che avevo visto tante volte colare dalle mie ginocchia ferite. Non proveniva dalle mie ginocchia. Verso le ginocchia andava, strisciava; alla loro altezza si arrestava un attimo, come raccogliendosi nelle leggere cavità nell’interno delle gambe, poi si rimetteva lentamente in marcia in lunghe righe rosse verso le caviglie. Guardavo senza la forza di muovermi. Il sangue, ora giunto quasi alle caviglie, colava dentro le calze corte di filo bianco. Dove si disegnava il malleolo, aguzzo e teso, traspariva una grumosità più rossa. Sentii un’altra contrazione, e nuovo calore rubino strisciò giù lungo le cosce, sopra le tracce seccate del primo sangue, deviando in nuovi sentieri. Scendeva da recessi indominabili, da profondità sconosciute del corpo. Mi sentii perduta. Abbassai il grembiule sulla mia rovina e mi gettai fuori della stanza gridando. Così il grido risuonò per tutta la casa: “Sono ferita, mamma! Aiuto, sono ferita!” Ed ecco mia madre venirmi incontro – e sorride. Ecco la madre di mio padre: e sorride. E sorridevano, mentre mi adagiano sul letto matrimoniale di mia madre, e fendono con carezze il mio pianto dirotto e “non è nulla,” dicono, “non aver paura, doveva capitare”. Le guardo smarrita: l’una vicina all’altra, alte, tranquille, con le chiavi del mondo alla cintura. Mi guardano con dolcezza e con pietà. A me sembra pietà. C’è un inconsueto venirmi incontro, nei loro occhi. Ma io continuo a singhiozzare, in preda allo choc dell’incomprensibile. Anche la loro pietà mi riesce incomprensibile. Ecco, dice mia madre, ho già qui pronti i pannolini. Si volge all’armadio, si china su un cassetto, ne tira fuori dei piccoli panni bianchi, spessi ed oblunghi, a forma di losanga, e me li mostra come si mostra una sorpresa da tempo in serbo. Fisso senza alcun sollievo quei pannolini che non ho mai veduti. Sprofondo nel guanciale la mia faccia piena di lagrime secche, giaccio fra le mie gambe divaricate, venate di sangue secco e di altro ancora umido, sotto il grembiulino irrimediabilmente sporcato. Ho l’impressione di un’orgia di sangue, di una perdita irreparabile di vita – come devono aver provato, un tempo, gli agnelli o gli uomini sgozzati sugli altari. E, come loro, il senso panico di una divinità misteriosa e crudele che abita l’esistenza. La nonna entra, reggendo un catino d’acqua calda e, con un tampone di ovatta, che inumidisce e strizza, sfrega e lava le mie gambe imbrattate. La mamma mi insegna come mettere i piccoli panni. Io sono annichilita. Ho la testa confusa. Non capisco nulla. Loro, si muovono da quel mio sangue spaventoso al catino, con tale naturalezza, tale disinvoltura. Il senso d’un pericolo mortale incomincia ad attenuarsi. Appena mi sono calmata, la grande rivelazione. Con voce calma, normale la mamma mi dice: “Adesso sei signorina”. Ma io non voglio, voglio essere come prima. Non voglio sangue che esce dal mio corpo a tradimento. Non voglio sentirmi imbrattata, vittima. “In effetti,” commenta la nonna, “è stata molto precoce. È ancora una bambina”.

Armanda Guiducci (1923-1992) è stata autrice, traduttrice e critica. Direttrice della rivista Ragionamenti ed esperta di antropologia, si è occupata per decenni della condizione delle donne, scrivendo opere decisive nel panorama del femminismo italiano. Oltre a La mela e il serpente, ricordiamo Due donne da buttare (Rizzoli, 1976, romanzo riproposto da Mondadori nel 2024) e La donna non è gente (Rizzoli, 1977). Ha tradotto Virginia Woolf e ne ha scritto una biografia, Virginia e l’angelo (Longanesi, 1991).


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