sabato 22 marzo 2025

Sébastien Dulude - AMIANTO - La Nuova Frontiera

 
Sébastien Dulude
AMIANTO
(titolo originale Amiante, 2024)
traduzione di Camilla Diez
La Nuova Frontiera
collana Liberamente
marzo 2025
pp. 192, euro 17.50
ISBN 9788883734809


Thetford Mines, 1986. Una città forgiata dall’industria dell’amianto, dove la polvere si deposita ovunque, persino nei destini di chi ci vive.
Steve Dubois ha nove anni, un’indole timida e una passione per i libri e la musica. Suo padre, severo e autoritario, vuole farne un uomo a sua immagine, forte, virile, insensibile. Sua madre trascorre gran parte delle giornate a letto, in preda a mal di testa inspiegabili e suo fratello maggiore, Daniel, è tutto ciò che Steve non è: indipendente, sicuro di sé, adorato dal padre.
Poi arriva Poulin, un ragazzino di dieci anni pieno di vita e immaginazione, e tutto cambia. Insieme esplorano i boschi in sella alle loro bmx, costruiscono capanne sugli alberi e collezionano ritagli di giornale per il loro inquietante “album delle catastrofi”, un quaderno pieno di disastri e tragedie. E il 1986 di catastrofi ne ha molte da offrire: lo Space Shuttle Challenger esplode in diretta mondiale e Chernobyl avvelena l’aria. Sarà però un evento molto più vicino a segnare per sempre la vita di Steve, costringendolo a confrontarsi con il lato più oscuro dell’infanzia.
Un romanzo intenso e struggente che cattura la fragilità della giovinezza e racconta l’amicizia come unico rifugio, la paura come ombra incombente e il momento in cui l’innocenza si spezza per cedere il passo all’età adulta.
 
Un estratto
D’estate, nel terreno incolto tra lo chemin du Lac Noir e la foresta, boschetti pieni di cicale offrivano grappoli di fiorellini che noi chiamavamo uva. Erano vecce. Non eravamo sicuri che fossero commestibili, ma le masticavamo. La piccola polpa ci esplodeva in bocca rinfrescandoci i musi per alcuni secondi, ubriachi di nulla, poi la risputavamo. La sabbia e il brecciolino su cui camminavamo ci si infilava tra le dita lisce e i sandali di pelle color nocciola come le cartelle di scuola. La polvere fibrosa della città d’amianto si sollevava ai nostri passi, appiccicandosi al sudore in una pellicola grigia e gessosa. Avevamo i polpacci coperti di quel talco che dicono cancerogeno – paese dell’oro bianco. Io e il piccolo Poulin convolavamo verso la nostra nuova capanna camminando fianco a fianco, con le piccole corporature quasi identiche sfocate dall’aria danzante degli afosi miraggi mattutini, che avviluppava le nostre conversazioni costanti sotto la sua cupola conf idenziale. Poi, dal terreno incolto, ci addentravamo nella pineta fresca. Questa si estendeva ai piedi delle discariche della King-Beaver, almeno da rue Alfred fino alle aree di sosta e ai capannoni vicini alla sbarra dei camion. Passava un centinaio di metri dietro casa mia e il terreno adiacente, formando una massa tampone tra lo chemin du Lac Noir e i chilometri di recinti metallici della miniera. La maggior parte delle nostre capanne l’avevamo costruita dietro casa mia, ma quell’estate avevamo adottato un grande pino appartato, più vicino all’immenso parcheggio della miniera che a casa. A grandi mali, grandi rifugi. Era una pineta bastarda, un braccio di foresta in lotta costante e immobile, una foresta di un rosso miele, sempre cangiante, che aveva perso terreno a beneficio di una flora più caotica. I grandi pini erano rassicuranti. Tra loro crescevano piccoli fiori coriacei e si dispiegavano spettacolari spiagge di felci. Qui e là, grandi massi, canaletti minuscoli, buche di fango, ceppi marci. Grossi funghi arancioni sui tronchi, lumache, muschio a ricoprire ogni cosa. Zanzare, non troppe, tranne al calar della sera. Animaletti: tamia, marmotte, moffette, porcospini, gatte del vicinato che partorivano negli anfratti delle rocce. Ho già visto una volpe, e diversi caprioli in inverno. A primavera, tra i lastroni di neve che si ritiravano e il letto di aghi rossiccio, c’erano cespugli di giunchiglie selvatiche. Resistevo all’impulso di cogliere troppi fiori. Ne prendevo uno alla volta, e lo lasciavo essiccare senza dare nell’occhio. Avrei adorato avere un mazzolino in camera mia, per qualche giorno, ma Mom affermava che non era sano respirare i fiori di notte, especially daffodils, they’re poison, e Dad invece avrebbe detto che un mazzo di giunchiglie era un po’ una roba da finocchi, o che mica è morto qualcuno ah ah ah, che sarà pieno di formiche. Formiche ad aprile. Scegliere il luogo di una capanna era frutto di un’attenta ispezione. Bisognava innanzitutto individuare un pino che offrisse un lungo paio di rami a V, il più orizzontali possibile – e idealmente un altro, simile, un po’ più in alto. Pavimento e soffitto. Poi deporre ai piedi dell’albero la legna ammassata: assi, di preferenza, o altrimenti rami, lunghi e regolari. Avevamo un’accetta ciascuno, e anche un seghetto. Martelli e chiodi di tutte le lunghezze nelle cinture per gli attrezzi. Coltellini, corda, spago, fascette, un telone di plastica salvato dal marciume che un tempo era stato una tenda da doccia. Poi montare una puleggia e passarci la corda. Portare su la legna, scegliere e fissare i pezzi dai più piccoli ai più lunghi, perpendicolarmente alla V, di larghezza crescente, formata dai rami che sostenevano il pavimento. Poi, inchiodare. La linfa sanguinava, sembrava facesse colare quasi con tenerezza la sua gomma accogliente che non si secca mai del tutto. Stessa tecnica per il soff itto, ma lì cominciavamo col fissare il telone: una parte sotto il legno del soffitto, contro la pioggia; il resto penzolava in base alla lunghezza a disposizione, parete allestita a seconda della direzione da cui le nostre dita appiccicose sentivano provenire il capriccio del vento dominante.

Sébastien Dulude è nato a Montréal nel 1976 ed è cresciuto a Thetford Mines. Dopo aver studiato Giurisprudenza, si dedica alla letteratura, conseguendo un dottorato in Lettere all’Università del Québec a Trois-Rivières. Ha pubblicato le raccolte di poesie Chambres (2013), Ouvert l’hiver (2015) e Divisible par zéro (2019), ed è noto per le sue performance che mescolano poesia e arte visiva. Nel 2024 ha pubblicato il suo primo romanzo, Amianto, ispirato alla sua giovinezza a Thetford Mines. È direttore letterario delle Éditions La Mèche e molto attivo nella scena letteraria del Québec.


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