Giusy Sciacca
VIRITA'
femminile singolare-plurale
Kalos
collana Fili e trame
2021
pp. 224, euro 14
ISBN 9791280198112
Qual è la verità? Domanda sbagliata. La verità non è mai solo singolare, ma di certo è femminile.
Così le protagoniste di questi venti racconti, stanche di essere spesso dimenticate o travisate, prendono la parola per narrare loro la storia e spiegare al lettore la propria versione dei fatti. Alcune abitano sull’Isola dai tempi del mito, altre sono partite per poi ritornare, altre ancora sono arrivate in epoche più moderne, fino a giungere agli albori del Novecento. Sono dee, artiste, nobildonne, talvolta sante, ma anche rivoluzionarie, eretiche, scienziate. In una parola, donne. E non aspettano altro che essere ascoltate. Il volume – che è il risultato dell’intreccio di queste singole voci, scelte e filtrate dalla scrittura dell’autrice – diventa così plurale. Come la parola virità, femminile singolare-plurale.
Un estratto
L’omicidio della giovane nobildonna Laura Lanza di Trabia, nota come Baronessa di Carini, è una delle vicende noir siciliane che ha avuto più successo letterario e cinematografico in Italia e all’estero. A partire dal poemetto anonimo tardo-cinquecentesco, che raccoglie in forma scritta ciò che a Carini e nel palermitano già si tramandava oralmente, e da quello di Salvatore Salomone Marino di fine Ottocento, si contano più di cinquecento versioni dell’omicidio. Tutti – compreso il testo che segue – condiscono a piacimento con personaggi e dettagli un crimine realmente accaduto, ma i cui laceri contorni sfumano nel mistero del tempo e in ogni tentativo degli eredi di cancellare questa triste pagina del Castello di Carini. Laura era la primogenita di Cesare, barone di Trabia e conte di Mussomeli, che con i successi militari aveva inseguito il sogno di diventare un ricco e potente possidente. Le sue ricchezze ammontavano a così tanto da potersi permettere prestiti alla stessa famiglia reale. La sfrenata ambizione di Cesare si riversò sulla figlia, che promise in sposa all’età di quattordici anni all’erede di una famiglia blasonata, Vincenzo II La Grua Talamanca. La baronessa lasciò così la casa paterna di Palermo per trasferirsi nello storico castello di proprietà La Grua.
L’isolamento, l’assenza di figli per ben sette anni e l’indifferenza di un marito che non amava fecero di donna Laura l’ennesima malmariée della storia siciliana. Causa di conforto e poi della sua tragica fine fu l’amore vero e duraturo per un parente, Ludovico Vernagallo di Montelepre, di origini toscane e di rango inferiore. Affascinante e virtuoso, Ludovico intrattenne con l’amata una relazione della durata di circa quattordici anni, durante la quale la donna ebbe ben otto figli. Laura e Ludovico furono protetti dalla servitù che tacque sulla relazione dei due e dalle dicerie dei corteggiamenti di Ludovico alle nobildonne siciliane per distogliere i pettegolezzi. Traditi da un delatore, saranno sorpresi nella camera da letto, dove il padre Cesare, giunto apposta da Palermo, ucciderà entrambi d’accordo con il genero e con la complicità aragonese (e quindi pontificia) nell’insabbiare il tutto. Si è molto dibattuto per capire se a macchiarsi di questo atroce delitto fosse stato Cesare, barone di Trabia e conte di Mussomeli, oppure Vincenzo II La Grua Talamanca. Forse per l’urgenza di salvare l’onore o per meri motivi economici, l’ipotesi più plausibile è che sia stato proprio il padre e non lo stesso marito a colpire per godere della tutela della legge1 del tempo. Secondo questa, infatti, il padre che lavava l’onta di una figlia adultera colta in flagrante tra le mura domestiche aveva il diritto di uccidere entrambi gli amanti. Ogni traccia dell’esistenza di Laura fu rimossa perf ino dall’albero genealogico. Nel 2014, dopo circa 447 anni, pare sia stato individuato il luogo della sua sepoltura nella chiesa di San Mamiliano a Palermo, dove giace vicino al nonno e allo stesso padre. Laura Lanza di Trabia fu punita nel peggiore dei modi: con il sangue, il disonore e il ripudio. La memoria della Baronessa di Carini, romanzata o meno, e la leggenda della sua mano insanguinata sulla parete sopravvivono a quanti la odiarono tanto. Il delitto d’onore oggi può apparire crudele e distante nel tempo, ma fu depennato dal Codice civile italiano solo nel 1979 senza estinguersi mai del tutto dalle pagine di cronaca.
L’omicidio della giovane nobildonna Laura Lanza di Trabia, nota come Baronessa di Carini, è una delle vicende noir siciliane che ha avuto più successo letterario e cinematografico in Italia e all’estero. A partire dal poemetto anonimo tardo-cinquecentesco, che raccoglie in forma scritta ciò che a Carini e nel palermitano già si tramandava oralmente, e da quello di Salvatore Salomone Marino di fine Ottocento, si contano più di cinquecento versioni dell’omicidio. Tutti – compreso il testo che segue – condiscono a piacimento con personaggi e dettagli un crimine realmente accaduto, ma i cui laceri contorni sfumano nel mistero del tempo e in ogni tentativo degli eredi di cancellare questa triste pagina del Castello di Carini. Laura era la primogenita di Cesare, barone di Trabia e conte di Mussomeli, che con i successi militari aveva inseguito il sogno di diventare un ricco e potente possidente. Le sue ricchezze ammontavano a così tanto da potersi permettere prestiti alla stessa famiglia reale. La sfrenata ambizione di Cesare si riversò sulla figlia, che promise in sposa all’età di quattordici anni all’erede di una famiglia blasonata, Vincenzo II La Grua Talamanca. La baronessa lasciò così la casa paterna di Palermo per trasferirsi nello storico castello di proprietà La Grua.
L’isolamento, l’assenza di figli per ben sette anni e l’indifferenza di un marito che non amava fecero di donna Laura l’ennesima malmariée della storia siciliana. Causa di conforto e poi della sua tragica fine fu l’amore vero e duraturo per un parente, Ludovico Vernagallo di Montelepre, di origini toscane e di rango inferiore. Affascinante e virtuoso, Ludovico intrattenne con l’amata una relazione della durata di circa quattordici anni, durante la quale la donna ebbe ben otto figli. Laura e Ludovico furono protetti dalla servitù che tacque sulla relazione dei due e dalle dicerie dei corteggiamenti di Ludovico alle nobildonne siciliane per distogliere i pettegolezzi. Traditi da un delatore, saranno sorpresi nella camera da letto, dove il padre Cesare, giunto apposta da Palermo, ucciderà entrambi d’accordo con il genero e con la complicità aragonese (e quindi pontificia) nell’insabbiare il tutto. Si è molto dibattuto per capire se a macchiarsi di questo atroce delitto fosse stato Cesare, barone di Trabia e conte di Mussomeli, oppure Vincenzo II La Grua Talamanca. Forse per l’urgenza di salvare l’onore o per meri motivi economici, l’ipotesi più plausibile è che sia stato proprio il padre e non lo stesso marito a colpire per godere della tutela della legge1 del tempo. Secondo questa, infatti, il padre che lavava l’onta di una figlia adultera colta in flagrante tra le mura domestiche aveva il diritto di uccidere entrambi gli amanti. Ogni traccia dell’esistenza di Laura fu rimossa perf ino dall’albero genealogico. Nel 2014, dopo circa 447 anni, pare sia stato individuato il luogo della sua sepoltura nella chiesa di San Mamiliano a Palermo, dove giace vicino al nonno e allo stesso padre. Laura Lanza di Trabia fu punita nel peggiore dei modi: con il sangue, il disonore e il ripudio. La memoria della Baronessa di Carini, romanzata o meno, e la leggenda della sua mano insanguinata sulla parete sopravvivono a quanti la odiarono tanto. Il delitto d’onore oggi può apparire crudele e distante nel tempo, ma fu depennato dal Codice civile italiano solo nel 1979 senza estinguersi mai del tutto dalle pagine di cronaca.
Giusy Sciacca, nata a Lentini, vive tra Roma e Siracusa. È controllora del traffico aereo, autrice di racconti, romanzi e testi teatrali. Scrive di libri per diverse testate giornalistiche – «La Sicilia», «SicilyMag» e «La Voce di New York» – e ha fondato il blog Parola di Sikula, dedicato ai libri e alla cultura. È inoltre ideatrice e curatrice del Premio Nazionale di Poesia Sonetto d’Argento Jacopo da Lentini.
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