RACCONTO D’INVERNO
Minimum fax
Collana Classics
pp.156, settembre 2019, Euro 12,00, brossura
L’incipit
“Tommaso entrò e chiuse la
porta. Dopo la camminata col freddo notturno, nello stanzone gli sembrava di
soffocare, l’aria era viziata da un tanfo di sudicio, di corpi e di panni non
lavati, un odore di miseria e di rassegnazione. Sulle travi del soffitto
bruciava il riverbero rosso della stufa, il lume a petrolio agonizzava appeso
ad una trave, in quella luce incerta e fumosa i corpi degli altri, seduti sulle
panche, intorno alla stufa, si disegnavano oscuri ed animaleschi. «Buonasera
ragazzi», disse Tommaso, era contento di essere al valico, dopo di avere
creduto che la strada non dovesse più finire, sugli ultimi passi aveva pesato
come una paura il frusciare degli abeti. Una delle ombre si alzò, venne avanti.
Era Attilio, e Tommaso si avvertiva riconoscente per quell’incontro, per quel
saluto. «Come va?», disse Attilio, «come va con l’amore?» Tommaso aveva buttato
il berretto sulla branda, si tolse la giacca grigioverde, poi batté ancora i
piedi per liberare le suole dalla neve. Si mise a sedere sulla panca: «Non è
niente», disse, «proprio non avevo niente, è stata soltanto paura. Il risultato
di tanti mesi senza uno straccio di donna». Gli altri ridevano, sentiva il riso
di Federico, di Luciano; e si eccitava, come se provasse gioia nel ritrovarsi
tra loro dopo una giornata di assenza. Attilio era chinato su di lui, gli
porgeva una tazza di smalto, «La zuppa», diceva, «ti ò preso la zuppa. Ormai è
fredda, saprà d’acido, ma pensa che è stata lei a cucinartela». «Tutta
invidia», diceva lui, «mi invidiate perché mi sono fatto la donna, lo so come
siete». Il freddo della notte gli si scioglieva di dosso, vicino alla stufa,
stese le mani verso lo sportello socchiuso. Le vede diventare rosse, come
intrise di sangue, e chiude gli occhi, vorrebbe abbandonarsi a questo torpore.
Ma lui è prigioniero, e prigionieri sono gli altri, questa è soltanto una
storia di soprusi e miseria, le nostre sensazioni, i nostri sentimenti sono
ancorati ad una triste passività. «Pensate ragazzi», dice Tommaso e gli
piacerebbe inventarsi una storia, crearsi una figura, mentre riposa le membra
affaticate nel calore del fuoco, «pensate ragazzi», dice, «che lei è arrivata
l’altro ieri, e ieri sera era tutto già fatto, stamani mi è toccato andare dal
dottore. Uno non fa niente e poi ingentilisce. Quando ieri sera mi sono visto
quel sangue sulle mutande, ò chiesto a Attilio: possibile che lei sia vergine?
E il sangue era mio. Uno arriva a dubitare, a dimenticarsi di certe cose».”
Il libro
Il campo è quello di
Gerlospass, sulle Alpi austriache. Tommaso, insieme a un gruppo di prigionieri
polacchi, ucraini e italiani, lavora alla creazione di una linea elettrica tra
il Tirolo e il Salisburghese. Tirano su i pali del telegrafo nella neve, sotto
un cielo livido e inclemente. Le giornate hanno l’odore asprigno dei mantelli
bagnati, le scarpe sono basse e rotte, le labbra dolenti come i muscoli. Alla
sera, gli stanzoni si riempiono del fumo delle stufe. Fuori dai vetri corre
l’urlo delle abetaie lungo i pendii lisciati dalle tormente e di notte si sente
il tonfo delle imposte. Ogni tanto del pane raffermo e una tazza di caffè di
ghiande danno un po’ di sollievo alle gambe stroncate. Ma non si aspetta più
nulla. Si guarda soltanto l’assurdo candore della neve e si pensa che
l’inverno non sia più una stagione, ma uno stato dell’anima, una sorte chiusa, come
se la prigionia durasse da sempre e la vita, ormai, fosse stata recisa.
Oreste Del Buono è tra i primi in Italia a raccontarci l’esperienza del lager, con una lingua ruvida e urgente ma di grande espressività, e quasi in presa diretta: Racconto d’inverno, scritto sulla base di una breve novella, uscì alla fine del 1945. Ma la sua testimonianza trascende la Storia e finisce per illuminare una condizione umana universale, quel senso di smarrimento che allora fu avvertito da molti scrittori europei: l’assistere stranieri al muto dolore del mondo e alla sua insensatezza; l’impossibilità di tornare alle parole di prima, dopo l’esperienza della guerra e della deportazione; il tradimento di tutte le attese e di tutte le speranze.
Oreste Del Buono è tra i primi in Italia a raccontarci l’esperienza del lager, con una lingua ruvida e urgente ma di grande espressività, e quasi in presa diretta: Racconto d’inverno, scritto sulla base di una breve novella, uscì alla fine del 1945. Ma la sua testimonianza trascende la Storia e finisce per illuminare una condizione umana universale, quel senso di smarrimento che allora fu avvertito da molti scrittori europei: l’assistere stranieri al muto dolore del mondo e alla sua insensatezza; l’impossibilità di tornare alle parole di prima, dopo l’esperienza della guerra e della deportazione; il tradimento di tutte le attese e di tutte le speranze.
L’autore
Oreste Del Buono (1923 –
2003), nato all’isola d’Elba, è stato tra gli scrittori più eclettici e atipici
del Novecento italiano. Per oltre mezzo secolo, firmò un gran numero di opere
di narrativa e di saggistica, e svolse un’incessante attività editoriale, di
traduttore e di pubblicista presso le più importanti case editrici e testate
nazionali. Dal 1971 al 1981 diresse il mensile Linus, contribuendo a
diffondere in Italia i fumetti dei Peanuts e il genio poetico di
Charles Schulz. Racconto d’inverno fu il suo esordio letterario.
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