GRAMMATICA
DI UN ESILIO
(La
Ballade du calame. Portrait intime, 2015)
Traduzione
di Ester Borgese
Bottega Errante Edizioni
Collana Estensioni
2
pp. 176, febbraio 2018, Euro 13, brossura
Il libro
Attraverso la scrittura di ricordi, riflessioni e, talvolta per sopperire alle parole, di lettere e disegni, Atiq Rahimi propone un racconto intimo e poetico, una meditazione su ciò che resta delle nostre vite quando si perde la terra dell’infanzia. L'autore afghano evoca i suoi esili in un libro che, più che un’autobiografia, è un'erranza che attraversa scritture diverse. "Ho parlato molto della mia terra natia, delle donne biasimate, della guerra che si è presa mio fratello e ha disperso la mia famiglia ai 4 angoli del mondo… Ma non ho mai evocato il mio esilio. Non appena mi appresto a descriverlo sono disarmato, muto, come davanti a un buco nero. L'esilio è una strada senza ritorno. Una volta dentro non si riesce più a disfarsene. Si diventa per sempre un essere errante, da quel momento si è intessuti. Sono come la callimorphe, questa farfalla migratrice dalle ali nere zebrate di bianco che dopo aver lasciato il suo bruco è condannata a volare notte e giorno".
L’autore
Atiq Rahimi nato a Kabul nel 1962, ha ottenuto l’asilo politico e attualmente vive a Parigi. Il suo romanzo del 2000, Terra e cenere, scritto nella lingua persiana dell’Afghanistan, è diventato un immediato best seller in Europa e in Sud America. Un film tratto dal libro, diretto dallo stesso Rahimi, ha vinto il Prix du Regard vers l’Avenir al Festival di Cannes 2004. Presso Einaudi ha pubblicato: Terra e cenere (2002 e 2010), Le mille case del sogno e del terrore (2003), L’immagine del ritorno (2004), Pietra di pazienza (2009 e 2011), scritto direttamente in francese, con cui ha vinto il Goncourt 2008. Nel 2012, sempre per Einaudi, ha pubblicato Maledetto Dostoevskij.
L'incipit
Si fa notte. E il verbo è sempre assente. Questo mi dà una strana sensazione, un’angoscia forse, quella di raggiungere l’abisso di uno spazio-tempo in cui s’incrociano solitudine e desiderio, come la condizione degli dèi divorati dai tormenti del nulla prima della Creazione. Sono nel mio studio, un territorio intimo dove si ritirano i miei desideri incompiuti; uno scrittoio a intermittenza dove si annotano silenziosamente i miei sogni e i miei incubi prima che diventino ricordi lontani, volatili. Davanti a me, sulla parete, una galleria di fotografie e di riproduzioni pittoriche che mostrano esseri immortalati nella loro erranza. Corpi banditi, scacciati, perduti… L’esilio è lasciarsi alle spalle il proprio corpo, diceva Ovidio. E con il corpo, le parole, i segreti, i gesti, lo sguardo, la gioia… Quelle immagini, che ho raccolto e appeso da un anno, compongono un mosaico di visi e corpi – noti o ignoti, immaginari o no –, tutti, come me, condannati dalla Storia all’incertezza dell’esilio. Ogni sguardo sospeso è un romanzo; ogni passo perduto, un destino. Questi esseri migratori, dispersi ai margini della terra, sospesi nella nebulosa spirale del tempo, mi guardano mentre cerco disperatamente le parole, i respiri, per poter descrivere i loro sogni, raccontare i loro peripli, riportare le loro grida… Il disastro, che li ha cacciati dalla loro terra natia, rifiuta di darsi un nome… Colpevolizza la voce, porta via le parole. La parola è errante. E il libro, sua terra promessa, si rifiuta di accoglierla. Quelle immagini del disastro hanno il potere soffocante di una cicatrice che ogni volta che la si guarda ravviva il dolore provato nell’attimo del ferimento. Una sensazione strana, impossibile da esprimere con aggettivi e avverbi. Essa lascia lo schermo del mio computer vuoto. Come vuota è la mia testa. Osservo quelle foto e quei quadri come fossero mie cicatrici. Ostracizzato come loro, ho lo stesso passato, lo stesso destino incerto, le stesse ferite… Eppure manca un’immagine lì, sulla parete. Che però ossessiona la mia anima vagabonda. Un’immagine, una sola. Quella di una distesa deserta, ammantata di neve, uno spazio sospeso nel tempo; un momento cardine nella mia vita che racconto sempre, ovunque. Instancabilmente. E ogni volta mi sembra di riferirlo per la prima volta, mentre lo rimastico con gli stessi vocaboli, le stesse frasi, gli stessi particolari… È il mio salmo.
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