LA PENSIONE
(Pensjonat, 2009)
Traduzione dal polacco di Alessandro Amenta
Mimesis
Collana Elit
pp. 176, febbraio 2016, Euro 12, brossura
Il libro
Tornato nella pensione fuori Varsavia dove, da bambino, trascorreva le vacanze insieme alla nonna, un ragazzo ripercorre la storia della propria famiglia e quella degli ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah. Gli incontri con i vecchi ospiti della pensione, luogo dei ricordi immerso in un’atmosfera onirica, diventano un viaggio nella memoria dal quale riaffiorano i fantasmi del passato.
L'autore
Piotr Paziński (Varsavia, 1973) è scrittore, saggista e giornalista. Ha pubblicato diversi saggi su James Joyce, tra cui Labirynt i drzewo. Studia nad Ulissesem Jamesa Joyce’a (Il labirinto e l’albero. Studi sull’Ulisse di James Joyce, 2005). Il romanzo Pensjonat (La pensione, 2009) ha vinto il Premio Letterario dell’Unione Europea nel 2012, oltre a numerosi riconoscimenti in patria. Le atmosfere nostalgiche del libro ritornano nella raccolta di racconti Ptasie ulice (Le vie degli uccelli, 2013).
L'incipit
In principio erano i binari della ferrovia. Immersi nel verde, tra il cielo e la terra. Le stazioni erano come perline in una collana, talmente vicine che il treno non faceva in tempo a prendere velocità e già doveva rallentare prima della stazione successiva. Le banchine in calcestruzzo, strette e traballanti, dotate di scalette e ripidi gradini, spuntavano direttamente dalla sabbia, come se fossero state costruite sulle dune. I padiglioni delle stazioni assomigliavano a chioschi vecchio stile: la tettoia allungata e ricurva, alle due estremità alcune lettere azzurre che sembravano fluttuare nell’aria. Mi era sempre piaciuto osservarle di nascosto, a partire dalla prima stazione suburbana, quando la compatta architettura cittadina si dissolveva rapidamente e il mondo iniziava a espandersi fino a raggiungere dimensioni inaspettate. Per fortuna i binari erano rimasti come li avevo lasciati. Correvano dritti davanti a sé, a passo deciso, per fondersi con l’orizzonte appena visibile, nascosto dalla natura, o, al contrario, per scomparire in un tunnel segreto scavato nel cielo e proseguire dall’altra parte, in un mondo completamente diverso e sconosciuto. I binari erano fiancheggiati da un sentiero sabbioso che serpeggiava tra i cespugli di erica e poi 6 diventava una normale strada di periferia. Fuori dal finestrino balenava una terra di autofficine, tavole calde e insegne sgargianti dipinte su pezzi di lamiera. Gli edifici in mattoni dall’intonaco scrostato e le roccaforti lungo la strada prevalevano sull’architettura in legno. Si erano messi a proprio agio, sicuri del loro successo, liberi dal peso della vecchiaia. Alcuni ruderi resistevano ancora. Accovacciati sopra i binari, scusandosi per il solo fatto di esistere, si aggrappavano spasmodicamente all’erba, che tuttavia non poteva impedire la loro inevitabile rovina. Qua e là spuntava una colombaia solitaria. Gli uccellacci grigi erano ammassati sulle tettoie spioventi, stretti l’uno all’altro, si toccavano e si spingevano con le ali, anche se intorno c’era molto spazio che si prestava altrettanto bene a essere sporcato con i loro escrementi. Spaventati dal frastuono dei vagoni, si alzavano in volo per volteggiare nervosamente sopra un groviglio di cavi da trazione e tornare alle loro occupazioni quando il convoglio scompariva in lontananza.
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