GIU' LA PIAZZA NON C'È NESSUNO
a cura di Giorgio Zampa
notizia sull'autrice e sul testo di Elena Frontaloni
Quodlibet
Collana Bloom 194
pp. XXXVIII-634, 2016, Euro 26, in ottavo grande
quarta edizione riveduta e corretta
Il libro
«Sono
nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva
sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: “Rimandala a
sua madre, non vedi che ci muore in casa?”.
Ambiente non
c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun
significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori
della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e
richiuderlo.»
«Alla
Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo,
gratissima. […] Lei ha sempre amato questo libro, con quelle
manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come
se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi
mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di
scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione
tutte e due». Sono alcune righe scritte da Dolores Prato nel
1980 al direttore dell’«Espresso», in risposta a un articolo in
cui veniva definita «rabbiosa» nei confronti di Natalia Ginzburg.
Alle spalle di questa precisazione c’è una vicenda editoriale
divenuta pubblica: le oltre millecinquecento cartelle di Giù la
piazza non c’è nessuno consegnate nel 1979, di fretta,
dall’ottantenne Dolores Prato a Natalia Ginzburg, vennero ridotte,
per esigenze editoriali, a sole trecento pagine, pubblicate da
Einaudi nel giugno 1980. L’autrice, scontenta dell’edizione
parziale, continuò a rivedere il testo e preparò un nuovo
dattiloscritto, il quale venne pubblicato nel 1997 da Giorgio Zampa,
nella versione integrale che qui riproduciamo.
Giù la piazza non
c’è nessuno racconta di un’infanzia primonovecentesca
trascorsa ai bordi d’Italia (tra case e volti di Treia, un borgo
dell’entroterra marchigiano), insieme a una miriade di oggetti e
parole disperse, a uno zio mezzo prete, mezzo pittore, mezzo
alchimista e a una zia nubile dalle strane acconciature, sorpresa a
leggere e rileggere Madame Bovary. La bambina che guida la penna
della vegliarda non ha mai saputo, non sa perché ha una madre che
non si comporta da madre, essendo tale funzione esercitata da una zia
che all’ufficio materno mal s’adatta. Lo zio fa da padre,
manifestando un amore quieto e misterioso per la piccola che gli
cresce accanto scostante, chiusa, restia a chiedere come e perché
venisse allevata da quasi estranei.
A base del lavoro sta una
serie smisurata di appunti e brogliacci accumulati dall’autrice nel
corso di tutta la vita. La forma prescelta è quella della «lassa»
narrativa: una serie di tessere che mimano l’andamento divagante,
occasionale degli appunti, ma s’incastrano l’un l’altra grazie
a sottili riprese. La prosa così dimessa, feriale, aperta alle
vivide suggestioni del parlato, è il risultato di una testarda
disarticolazione delle strutture retoriche della tradizione italiana,
quei «ponti levatoi mai abbassati», quei «miei difetti» a cui
Dolores Prato non fu mai disposta a rinunciare.
Come leggere
questo libro autenticamente fine secolo, questo capolavoro a rischio
di oblio? Esso non è nato dal proposito di creare un organismo
narrativo, di compiere «l’opera»; non è letteratura da azienda
editoriale o da laboratorio universitario; meno che mai vuole
riuscire gradito a chi guarda volentieri all’indietro o agli
analisti del presente. Forse il modo appropriato per intenderlo, come
annotava Giorgio Zampa, è considerarlo l’avvio di un’istruttoria
contro ignoti. Nessuna commiserazione nei propri confronti, nei
confronti di un’esistenza di reietta, di creatura venuta al mondo
contro il volere del mondo, ma giudizi asciutti, magari duri, spesso
ironici, su persone vicine; e dichiarazioni di amore illimitato. Se
si volesse arrivare ad ogni costo a una definizione prossima alle
motivazioni profonde della scrittrice, si potrebbe parlare di uno
sterminato soliloquio, destinato a rimanere inascoltato.
L'autore
Dolores Prato nasce a Roma da una relazione tra Maria Prato e un avvocato calabrese. Viene registrata all’anagrafe il 12 aprile 1892 come «Dolores Olei», nata il 10 aprile di quell’anno da «madre che non consente di essere nominata». Dopo pochi giorni Maria Prato torna sui suoi passi e le dà il proprio cognome. Messa a balia a Sezze, in Ciociaria, la bambina è poi affidata a due zii di Treia, una piccola città del maceratese. Qui vive fino al 1912, istruita prima dagli zii e poi presso l’Educandato Salesiano delle visitandine. Si trasferisce quindi a Roma, e si laurea presso la facoltà di Magistero nel 1918.
Nemica del fascismo e decisa a non prendere la tessera del partito, insegna lettere in alcune scuole statali fino al 1927 (a Sansepolcro in Toscana, poi a Macerata e San Ginesio nelle Marche). Dopo un breve periodo d’insegnamento a Milano, presso la Libera Scuola di Cultura e d’Arte di Vincenzo Cento, si stabilisce a Roma. Nei primi anni Trenta prende a occuparsi di una ragazza afflitta da gravi problemi psichici. Finita la guerra collabora con articoli di cultura a diversi quotidiani, tra cui «Paese Sera», e pubblica due libri, Sangiocondo (1963) e Scottature (1967), entrambi in autoedizione. Nel 1980 esce per Einaudi una versione parziale del romanzo Giù la piazza non c’è nessuno. Muore il 13 luglio 1983 in una clinica di Anzio.
Presso Quodlibet sono apparsi Scottature (1996), Giù la piazza non c’è nessuno (versione integrale a cura di Giorgio Zampa, 2009; prima edizione Mondadori 1997) e Sogni (2010).
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