mercoledì 14 maggio 2025

Diane di Prima - MEMORIE DI UNA BEATNIK - Quodlibet

 
Diane di Prima
MEMORIE DI UNA BEATNIK
(titolo originale Memoirs of a Beatnik, Last Gasp Press, San Francisco, 1988)
traduzione di Ilide Carmignani
Quodlibet
collana Storie
maggio 2025
pp. 200, € 16,00
ISBN 9788822923615

A lungo considerato un classico underground per i toni crudi e i contenuti sfacciatamente erotici, Memorie di una beatnik (1969) è un’autobiografia al confine tra storia e invenzione, arte e pornografia, confessione e fantasia. Con piglio ironico e spietata lucidità, Diane di Prima ripercorre una pagina cruciale della cultura statunitense a partire dai comportamenti e dalle vicissitudini quotidiane dei suoi protagonisti. New York, primi anni Cinquanta: Diane ha diciotto anni quando abbandona l’università e si trasferisce a Manhattan, là dove il Lower East Side si fa labirinto di miseria, rabbia e bellezza. Il suo appartamento diventa presto un punto d’incontro per amici, artisti erranti e figure irregolari di ogni sorta. Siamo in uno dei primi esperimenti di vita collettiva, in uno spazio di libertà assoluta, nel quale le relazioni affettive, il sesso, le droghe, ma anche la musica, la scrittura e la creazione artistica vengono esplorati con urgenza autentica e radicale. Intorno a lei, nella città di Charlie Parker e Miles Davis, assistiamo allo sbocciare euforico dell’amicizia, fatta di notti insonni e di ingegnosi espedienti per sopravvivere. I nomi di Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac e Allen Ginsberg si intrecciano alla trama viva del racconto, mentre i ricordi di Diane – diretti, intensi, senza filtri – ci restituiscono il senso di quella febbre esplorativa, di quella stagione irripetibile che è stata la Beat Generation.
 
Un estratto
I – Febbraio
Mi svegliai per i rumori mattutini nel West Village. Per il frastuono del traffico. Fuori passavano camion e la strada era bagnata. Gli autisti erano nervosi: suonavano il clacson e inveivano uno contro l’altro. La finestra era aperta, e la tendina avvolgibile, svolazzando, vi sbatteva contro con un ritmo irregolare. Aprii gli occhi, mi girai supina nel letto, e mi guardai intorno. La stanza era di un giallo brillante che compensava la luce grigiastra di un’alba piovosa. A parte il nostro letto basso, tutti i mobili erano fatti di scivoli rubati alle vicine cartiere, e dipinti di un nero uniforme. Servivano sia da sedie che da tavoli; nessun cuscino violava l’austerità dell’arredamento, né c’erano, drappeggiate qua e là, stoffe indiane fantasia o vecchi velluti come quelli a cui ci siamo abituati negli anni Sessanta. Una grande piattaforma, collocata contro il muro di fronte al letto, sosteneva una candela di almeno trenta centimetri di diametro, alta come minimo un metro e venti. Ivan era particolarmente orgoglioso di quella candela. Appena arrivati da lui me l’aveva indicata, spiegandomi che c’erano voluti ben diciassette dollari di cera per farla. Ci era servita da illuminazione durante le pratiche notturne. Anche se eravamo solo al secondo piano, l’appartamento era stato «decorato» con una specie di false gronde. Scendevano leggermente sulle finestre e lasciavano il letto nell’ombra. Era un ambiente spazioso, e le pareti dipinte da poco, assieme al pavimento impeccabilmente lucidato, lo facevano sembrare una mansarda piuttosto lussuosa. Come se la gente della Bohème si fosse ritrovata con un po’ di soldi e avesse ridipinto tutto, pensai con un sorriso. Al di là di un arco potevo intravedere la cucina, grande come un armadio, che splendeva di utensili nuovi. Sulla destra sapevo che c’era un bagno altrettanto minuscolo, impeccabilmente rivestito di piastrelle ed equipaggiato con soffici asciugamani di spugna pesante, in colori scuri e fastosi, e con una grande varietà di carissimi olî da bagno. Una miniatura perfetta, una casa di bambola; e qualcuno ci si trastullava, di sicuro. Be’, eccomi qua, pensai. Allungai le gambe, inarcando i piedi e sospirando solo un pochino, per non svegliare il ragazzo ancora addormentato accanto a me. Eccomi qua e, riflettei beffarda, questo è solo il primo dei molti appartamenti sconosciuti in cui mi sveglierò. Avevo i muscoli delle cosce indolenziti, e passandovi sopra le dita sentii le tracce granulose delle secrezioni, ormai asciutte, di cui erano impiastricciate qua e là. Poi feci scivolare una mano tra le gambe, e tastai piano le labbra della vagina. Quando infilai le dita dentro, esplorando delicatamente l’interno, avvertii l’irritazione della pelle. Era davvero grosso, pensai. Era una bella cosa se te ne capitava uno grosso la prima volta. Mentre perlustravo quel terreno familiare, fui percorsa da un brivido di piacere, e le braccia mi si coprirono di pelle d’oca. Adesso, riflettei con un sorrisetto cinico e voluttuoso, sicuramente non avrò più problemi a usare i Tampax. Ivan stava ancora dormendo, con le spalle voltate. Pian piano feci scivolare via il lenzuolo dai nostri corpi, e confrontai la sfumatura rosea, quasi lilla, della mia carne, con il pallido riflesso olivastro della sua. Stavamo bene insieme. Era piacevole restare lì, a letto, leggermente eccitata, ad accarezzarsi la pelle liscia dei seni e del ventre, sapendo che in qualsiasi momento potevo iniziare la danza che avrebbe soddisfatto il mio desiderio, e deliziato la creatura distesa accanto a me. Mi girai sul fianco e gli posai la bocca sulla schiena, leccandogli l’incavo della colonna vertebrale. In fondo al dorso, subito prima che la spina si incurvasse tra le natiche, aveva un’unica, grossa vertebra. La esplorai accuratamente con la bocca, seguii la colonna fino alla fine, e poi ricominciai da capo, questa volta anche con le dita, sfiorandogli i f ianchi e i lati del torace, e sollevando la fine peluria che gli copriva la pelle olivastra. Ivan era ormai completamente sveglio, e cominciava a muoversi sotto il mio tocco; mentre gli ravviavo i capelli sulla nuca con la lingua, si voltò verso di me e mi coprì la bocca con la sua. Feci scivolare il braccio sotto le sue spalle, notando quanto fossero esili per la sua altezza, esili come quelle di una ragazza. Per qualche oscura ragione questo mi eccitò ancora di più, e mi spostai in modo da giacere per metà su di lui, dedicando tutta la mia attenzione al nostro bacio. Ci sono tanti tipi di baci quante persone sulla terra, e quanti scambi e combinazioni di queste persone. Non esistono due persone che bacino nello stesso modo – come non esistono due persone che scopino nello stesso modo –, ma in un certo senso il bacio è ancora più personale, più individualizzato di una scopata. Ci sono quelli che baciano con grande attenzione, seri, le labbra rigide, tese, le lingue dure, infilate con ferma determinazione il più a fondo possibile nella bocca dell’altro; ci sono quelli che baciano con indolenza, noncuranti, languidi, le bocche molli che ti sfiorano appena, le lingue quasi incapaci dello sforzo di avventurarsi in avanti. Ci sono quelli astuti, il cui bacio all’inizio sembra casuale, ma poi ti coglie alla sprovvista con grandi esplosioni di piacere. Ci sono quelli subdoli, il cui bacio è così libidinoso che ti lascia leggermente disgustata, come se ti fossi appena fatta una sveltina sul pavimento del bagno; e i baciatori virginali, che mentre in pratica ti rovesciano la bocca, sembra che ti stiano castamente prendendo per mano. Ci sono quelli che baciano come se stessero scopando: la lingua frenetica che pompa avanti e indietro tra le labbra dell’altro a un ritmo mozzafiato. E poi ci sono molti, molti altri fondamentali tipi di bacio, così su due piedi me ne vengono in mente almeno una dozzina. Elencate qui sotto quelli che preferite: Il nostro bacio cominciò sulle labbra, le bocche molli, rilassate, giocherellando, sfiorandoci piano, cercando di fonderci, di diventare una sola bocca, ma senza troppa fretta. L’eccitazione crebbe per gradi, finché le labbra non furono selvaggiamente schiacciate contro i denti ancora chiusi. Ci fu un allentarsi, la sua lingua uscì fuori e cominciò a esaminare l’interno del mio labbro inferiore, pungolando, e insinuandosi negli angoli, sfregandosi contro le gengive e incurvandomi il labbro verso il basso; poi si ritirò, e la mia si mosse per fare altrettanto, per cimentarsi nello stesso gioco, ma in modo più completo, scivolando anche all’interno del labbro superiore, e giù ai lati della bocca, spingendo in fuori prima una, e poi l’altra delle sue guance scarne. Quando mi stancai, presi a mordicchiargli l’interno del labbro inferiore. Allora la sua lingua spuntò fuori di nuovo, tesa e coscienziosa, cercandomi il palato e la pelle sotto la lingua. Ci spostammo per far aderire le bocche e i corpi più strettamente, e la mia mano trovò il suo cazzo, grande e bello, e cominciò ad accarezzarlo e a coccolarlo, interrompendosi di tanto in tanto per fare coppa col palmo intorno al glande rigonfio. (...)

Nata a Brooklyn nel 1934 da una famiglia di origini italiane (il nonno materno era l’anarchico Domenico Mallozzi), Diane di Prima iniziò a scrivere da bambina ed ebbe giovanissima una corrispondenza con Ezra Pound. A diciotto anni si stabilì nel Greenwich Village dove fu tra i protagonisti della Beat Generation. Venne arrestata nel 1961 con l’accusa di essere «sovversiva» per alcune poesie dal contenuto erotico, e fu bersaglio di feroci critiche per il suo attivismo politico e femminista. Alla fine degli anni Sessanta si trasferì in California, stabilendo un legame tra avanguardia newyorkese e controcultura di San Francisco, e vi rimase fino alla sua morte, nel 2020. Autrice di una quarantina di libri tra poesia e prosa, fu anche fotografa e artista, docente di letteratura, editrice, cofondatrice di una rivista letteraria («The Floating Boat») e del New York Poets Theatre. In italiano è disponibile anche il volume Lettere rivoluzionarie (Le Lettere, Firenze 2021).

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