con un contributo critico di Maria Vittoria Vittori
8tto edizioni
maggio 2025
pp. 240, euro 18
ISBN 9788831263580
Nella Roma umbertina di fine Ottocento, Leona, amazzone e acrobata del Circo Alhambra, è una donna indomabile, capace di incantare chiunque con la sua bellezza e il suo spirito ribelle. Eppure, il suo cuore si lega al conte Paolo Cappello, un uomo egoista e incapace di amare davvero. A Roma Paolo arriva persino a rischiare la vita pur di impressionarla, finendo per conquistare il suo amore. Ma l’idillio dura poco: dopo essersi trasferiti a Napoli, tra difficoltà economiche e differenze sociali, la passione si raffredda e Paolo non esita a cederla al suo ricco amico Gabriele Caligaris.
Con lui Leona sembra trovare nuova vita. Il destino, però, non tiene i due ex amanti separati troppo a lungo. Quando si rincontrano, Leona accende di nuovo in Paolo un’ossessione distruttiva. Lei ritorna al suo fianco, muta e devota, mentre il conte viene risucchiato in una spirale di inganni e tradimenti che culminano in un matrimonio di convenienza finché Leona, spezzata ma non doma, trova il coraggio di vendicarsi e di riprendersi ciò che è suo: la libertà. Un romanzo che esplora il lato più crudo dei rapporti umani, tra mondanità decadente, vendetta e il riscatto di una donna che non smette mai di combattere.
8tto edizioni
maggio 2025
pp. 240, euro 18
ISBN 9788831263580
Nella Roma umbertina di fine Ottocento, Leona, amazzone e acrobata del Circo Alhambra, è una donna indomabile, capace di incantare chiunque con la sua bellezza e il suo spirito ribelle. Eppure, il suo cuore si lega al conte Paolo Cappello, un uomo egoista e incapace di amare davvero. A Roma Paolo arriva persino a rischiare la vita pur di impressionarla, finendo per conquistare il suo amore. Ma l’idillio dura poco: dopo essersi trasferiti a Napoli, tra difficoltà economiche e differenze sociali, la passione si raffredda e Paolo non esita a cederla al suo ricco amico Gabriele Caligaris.
Con lui Leona sembra trovare nuova vita. Il destino, però, non tiene i due ex amanti separati troppo a lungo. Quando si rincontrano, Leona accende di nuovo in Paolo un’ossessione distruttiva. Lei ritorna al suo fianco, muta e devota, mentre il conte viene risucchiato in una spirale di inganni e tradimenti che culminano in un matrimonio di convenienza finché Leona, spezzata ma non doma, trova il coraggio di vendicarsi e di riprendersi ciò che è suo: la libertà. Un romanzo che esplora il lato più crudo dei rapporti umani, tra mondanità decadente, vendetta e il riscatto di una donna che non smette mai di combattere.
Un estratto dal contributo critico di Maria Vittoria Vittori
Contessa Lara: evadere dalla mitologia dello scandalo Ancora oggi Contessa Lara, lo pseudonimo di vaga origine byroniana con cui è conosciuta Evelina Cattermole, risuona di echi particolari, capaci di rievocare atmosfere lontane quanto fascinose. E, prima di tutto, l’atmosfera fortemente ibrida di quella Roma umbertina di fine Ottocento descritta in tanti suoi articoli e racconti, caratterizzata da radicati pregiudizi sociali ma con velleità di estrema raffinatezza culturale, brulicante di redazioni giornalistiche e di feste mondane, risonante di lavori in corso, scandali politici e pettegolezzi. Più di ogni altra, la sua figura, affidata a fotografie e ritratti suggestivi ma ancor di più alle parole dei suoi contemporanei, ci è arrivata fortemente romanzata all’interno di una parabola discendente che, partendo dall’artistico paragone fatto dal giornalista Ugo Pesci con le vaporose creature di Watteau e dall’ammirato commento: “Pare una visione” di Federigo Verdinois, passa attraverso la morbosa immaginazione erotica di Gabriele D’Annunzio che nell’ode Sta Lady Phoebe Cynecythere la rende creatura splendida quanto perversa, per approdare al velenoso compatimento post mortem espresso da Matilde Serao: “Questa sirena ammaliatrice che non aveva più né bellezza né eleganza”. Perfino quel colpo di pistola che mise fine prematuramente alla sua esistenza, pur suscitando grande indignazione e dolore, contribuì a intensificare e a rendere definitivo quell’alone di scandalo che ormai da tempo l’accompagnava. Ma qual è la storia di Evelina Cattermole, prima che decida di diventare Contessa Lara? Questa donna intelligente, bella e raffinata che da Firenze arrivò in quella Roma umbertina che le avrebbe dato notorietà artistica, era ancora giovane – era nata a Firenze il 26 ottobre 1849 dal professore scozzese William Cattermole e dalla pianista Elisa Sandusch – ma già molto chiacchierata a livello sociale. Evelina, che aveva ricevuto un’educazione letteraria piuttosto accurata, si era sposata giovanissima, come allora era d’uso, con l’ufficiale Francesco Saverio Mancini, che apparteneva a una delle famiglie f iorentine più in vista. Dopo il matrimonio si erano stabiliti a Milano, dove facevano vita di società frequentando uno dei più celebri salotti, quello della contessa Clara Maffei e, sebbene l’unione si fosse precocemente guastata per il disinteresse e i tradimenti di lui, tutto precipitò quando fu Evelina a iniziare una relazione con il giovane aristocratico Giuseppe Bennati di Baylon. La scoperta del tradimento provocò un duello tra i due uomini, avvenuto il 27 maggio 1875, in seguito al quale Bennati morì. Nel clima dell’epoca vennero addebitate a lei tutte le colpe e dopo la separazione da Mancini fece ritorno a Firenze con l’impellente problema di procurarsi da vivere e, come scrive Biancamaria Frabotta, “per sottrarsi alla miseria e al biasimo pubblico che l’aveva sprofondata nei piani bassi della società ella impersonò, con estro e metodo, il più raffinato prototipo dell’italica selfmade woman”. Nel 1883 Evelina, che aveva iniziato precocemente a comporre, riuscì a pubblicare con l’editore Angelo Sommaruga Versi, una raccolta di sonetti che racchiudevano in forme classiche una nuova sensibilità. Il grande successo dell’opera favorì anche l’incremento dell’attività giornalistica, con il suo nuovo nome di Contessa Lara, a partire per l’appunto dalla collaborazione con la rivista di Sommaruga Cronaca bizantina e poi con il Nabab, Il Fanfulla della Domenica, Roma letteraria, La Tribuna illustrata, Il Corriere di Roma, il Capitan Fracassa e altre ancora. Scrivere articoli e racconti appagava la sua innata curiosità, metteva alla prova il suo acuto spirito di osservazione nei confronti di persone e situazioni e la capacità di coglierne i tratti salienti in descrizioni incisive. Progressivamente, quindi, si sviluppò un’intensa attività letteraria, che comprende un altro volume di versi, due narrazioni destinate a un pubblico infantile, tre raccolte di novelle e due romanzi, La scalata alla fortuna e L’innamorata. Com’era da aspettarsi, la sua fama artistica ravvivò i malevoli commenti intorno alle sue vicende private e alla presunta licenziosità delle sue opere: ma a lei non mancava l’ironia per smontarli. Soltanto qualche esempio, ma eloquente, come la terzina finale del sonetto I miei versi che, colpendo satiricamente l’ipocrisia borghese, funge da congedo all’intera raccolta: “La casta dama che fin dietro i letti/bianchi de’ bimbi i frolli amanti cela,/scandalizzar faranno i miei sonetti”. Oppure, nel racconto Un soldato pubblicato su La Domenica letteraria il 22 luglio del 1883, lo stesso anno di Versi, quest’irridente stoccata indirizzata a tutti quei lettori maliziosi che, abituati a ricercare in tutto ciò che scrive tracce di scandalosa autobiografia, avrebbero certamente equivocato sull’invito rivoltole da un misterioso colonnello: “Animucce buone, linguine pietose, è tempo ch’io vi dichiari che il colonnello Mellini ha più di novant’anni (...). Animucce buone, linguine pietose, avete preso un bel granchio a secco, come ne prendeste parecchi leggendo i miei sonetti”. Tuttavia, nonostante il suo spirito brillante e questa sua innegabile ironia, era incline a riporre aspettative eccessive in relazioni amorose che si rivelavano insoddisfacenti, e talvolta soffocanti. Era troppo intelligente per non rendersene conto, e spesso questa dolorosa consapevolezza traspare, oltre che nella scrittura privata, anche nelle pieghe di alcuni dei suoi racconti e del suo romanzo L’innamorata, ma allo sguardo sociale mai stanco di seguirla non arrivava alcun retroscena, e ogni sua scelta – in quanto compiuta da donna libera e non riconducibile ai tre ordini canonici di moglie, madre, zitella – assumeva invariabilmente un carattere d’irregolarità.
Il 30 novembre 1896, nella sua casa in via Sistina, Evelina venne gravemente ferita dal partner Giuseppe Pierantoni; morì in conseguenza delle ferite il giorno dopo e fino all’ultimo continuò a ripetere all’amica Olga Ossani che Pierantoni l’aveva uccisa perché lei voleva lasciarlo. Questo brutale assassinio venne a suggellare, nell’interpretazione dei suoi contemporanei, un’esistenza al di fuori di ogni canone: e se già si è citato il necrologio di Matilde Serao, merita attenzione anche quanto scrive il giornalista Vincenzo Morello, firmandosi Rastignac, sulle pagine della Tribuna: “Piena di ingegno, bella, ardente di animo, ricca anche di gusto e di cultura, si gettò nella battaglia giornalistica e letteraria, non come una lottatrice in cerca di un mondo da conquistare, ma come una zingara: soddisfatta di essere e rimanere donna così nella vita come nell’arte”. Significativo risulta qui l’accostamento a una zingara, risorsa ultima di chi vorrebbe a tutti i costi attribuire un’etichetta ad artiste irriducibili a categorie e che, per inciso, verrà adoperato ancora in riferimento ad altre scrittrici. Prima nei confronti della vivace e cosmopolita Annie Vivanti, poi, a distanza di parecchi anni, da Elio Vittorini nel suo suggestivo quanto ingannevole fermo immagine di Anna Maria Ortese nelle vesti di zingara assorta in un sogno. Ma, tornando a Contessa Lara, bisognerà aggiungere che, accanto a letture interpretative attente ed equilibrate come quelle di Biancamaria Frabotta, Manola Ida Venzo, Carlotta Moreni, nella bibliografia che la riguarda ci si imbatte non solo in vecchi titoli gridati come “Una vita in fiamme” ma anche in più recenti descrizioni enfaticamente eseguite su una squillante marcia di conquista: “Tra le signore ammodo e i salotti buoni dell’Italia umbertina irrompe impudente e intrepida, eccessiva e impertinente, bellissima e pronta all’oltranza più trasgressiva la Contessa Lara” o su una mesta melodia patetica: “Ripudiata, errabonda e ormai senza più pace, fra le macerie dei suoi sogni infranti”. Viene da pensare che, quando ci si trova davanti a personalità complesse e a scelte anticonformiste, sia quasi istintivo ricorrere ai toni interpretativi più enfatici e coloriti, cercare di imbrigliare la coesistenza delle diversità nelle polarizzazioni: ammirazione o compassione, femme fatale o creatura sventurata, angelo o demone. E ci si ricorda, per contrasto, della sagacia e dell’ironia dimostrate dalla scrittrice nella descrizione di un suo personaggio dalle controverse sfumature, la marchesa Teodora protagonista del racconto Apertura di caccia, pubblicato su La Domenica letteraria il 30 agosto 1885: “Non dirò che paresse né un angelo né un demonio tentatore: pareva una donna elegante qual è e basta”. Ma, per quanto sfuggente alle catalogazioni, non è questo il personaggio più innovativo creato dalla scrittrice: occorrerà attendere ancora qualche anno per la comparsa in scena di Leona, protagonista di L’innamorata, che è al tempo stesso amante della libertà e prigioniera di un amore oppressivo.(...)
Evelina Cattermole Mancini, poetessa e
narratrice, è stata anche una brillante giornalista che ha
collaborato con le principali riviste del tempo quali Cronaca
bizantina, Fanfulla della Domenica, La Tribuna illustrata.
Nota con lo pseudonimo byroniano di Contessa Lara, era nata a
Firenze il 26 ottobre 1849 e, dopo una vita inquieta e avventurosa
tra Firenze, Milano e Roma, morì nella capitale il 30 novembre 1896,
uccisa con un colpo di pistola dal suo compagno Giuseppe Pierantoni,
che lei aveva denunciato per violenza. Le particolari e drammatiche
vicende della sua vita, che l’hanno resa personaggio pubblico
affascinante, hanno sicuramente condizionato la ricezione critica
della sua ricca ed eclettica produzione letteraria.
Contessa Lara: evadere dalla mitologia dello scandalo Ancora oggi Contessa Lara, lo pseudonimo di vaga origine byroniana con cui è conosciuta Evelina Cattermole, risuona di echi particolari, capaci di rievocare atmosfere lontane quanto fascinose. E, prima di tutto, l’atmosfera fortemente ibrida di quella Roma umbertina di fine Ottocento descritta in tanti suoi articoli e racconti, caratterizzata da radicati pregiudizi sociali ma con velleità di estrema raffinatezza culturale, brulicante di redazioni giornalistiche e di feste mondane, risonante di lavori in corso, scandali politici e pettegolezzi. Più di ogni altra, la sua figura, affidata a fotografie e ritratti suggestivi ma ancor di più alle parole dei suoi contemporanei, ci è arrivata fortemente romanzata all’interno di una parabola discendente che, partendo dall’artistico paragone fatto dal giornalista Ugo Pesci con le vaporose creature di Watteau e dall’ammirato commento: “Pare una visione” di Federigo Verdinois, passa attraverso la morbosa immaginazione erotica di Gabriele D’Annunzio che nell’ode Sta Lady Phoebe Cynecythere la rende creatura splendida quanto perversa, per approdare al velenoso compatimento post mortem espresso da Matilde Serao: “Questa sirena ammaliatrice che non aveva più né bellezza né eleganza”. Perfino quel colpo di pistola che mise fine prematuramente alla sua esistenza, pur suscitando grande indignazione e dolore, contribuì a intensificare e a rendere definitivo quell’alone di scandalo che ormai da tempo l’accompagnava. Ma qual è la storia di Evelina Cattermole, prima che decida di diventare Contessa Lara? Questa donna intelligente, bella e raffinata che da Firenze arrivò in quella Roma umbertina che le avrebbe dato notorietà artistica, era ancora giovane – era nata a Firenze il 26 ottobre 1849 dal professore scozzese William Cattermole e dalla pianista Elisa Sandusch – ma già molto chiacchierata a livello sociale. Evelina, che aveva ricevuto un’educazione letteraria piuttosto accurata, si era sposata giovanissima, come allora era d’uso, con l’ufficiale Francesco Saverio Mancini, che apparteneva a una delle famiglie f iorentine più in vista. Dopo il matrimonio si erano stabiliti a Milano, dove facevano vita di società frequentando uno dei più celebri salotti, quello della contessa Clara Maffei e, sebbene l’unione si fosse precocemente guastata per il disinteresse e i tradimenti di lui, tutto precipitò quando fu Evelina a iniziare una relazione con il giovane aristocratico Giuseppe Bennati di Baylon. La scoperta del tradimento provocò un duello tra i due uomini, avvenuto il 27 maggio 1875, in seguito al quale Bennati morì. Nel clima dell’epoca vennero addebitate a lei tutte le colpe e dopo la separazione da Mancini fece ritorno a Firenze con l’impellente problema di procurarsi da vivere e, come scrive Biancamaria Frabotta, “per sottrarsi alla miseria e al biasimo pubblico che l’aveva sprofondata nei piani bassi della società ella impersonò, con estro e metodo, il più raffinato prototipo dell’italica selfmade woman”. Nel 1883 Evelina, che aveva iniziato precocemente a comporre, riuscì a pubblicare con l’editore Angelo Sommaruga Versi, una raccolta di sonetti che racchiudevano in forme classiche una nuova sensibilità. Il grande successo dell’opera favorì anche l’incremento dell’attività giornalistica, con il suo nuovo nome di Contessa Lara, a partire per l’appunto dalla collaborazione con la rivista di Sommaruga Cronaca bizantina e poi con il Nabab, Il Fanfulla della Domenica, Roma letteraria, La Tribuna illustrata, Il Corriere di Roma, il Capitan Fracassa e altre ancora. Scrivere articoli e racconti appagava la sua innata curiosità, metteva alla prova il suo acuto spirito di osservazione nei confronti di persone e situazioni e la capacità di coglierne i tratti salienti in descrizioni incisive. Progressivamente, quindi, si sviluppò un’intensa attività letteraria, che comprende un altro volume di versi, due narrazioni destinate a un pubblico infantile, tre raccolte di novelle e due romanzi, La scalata alla fortuna e L’innamorata. Com’era da aspettarsi, la sua fama artistica ravvivò i malevoli commenti intorno alle sue vicende private e alla presunta licenziosità delle sue opere: ma a lei non mancava l’ironia per smontarli. Soltanto qualche esempio, ma eloquente, come la terzina finale del sonetto I miei versi che, colpendo satiricamente l’ipocrisia borghese, funge da congedo all’intera raccolta: “La casta dama che fin dietro i letti/bianchi de’ bimbi i frolli amanti cela,/scandalizzar faranno i miei sonetti”. Oppure, nel racconto Un soldato pubblicato su La Domenica letteraria il 22 luglio del 1883, lo stesso anno di Versi, quest’irridente stoccata indirizzata a tutti quei lettori maliziosi che, abituati a ricercare in tutto ciò che scrive tracce di scandalosa autobiografia, avrebbero certamente equivocato sull’invito rivoltole da un misterioso colonnello: “Animucce buone, linguine pietose, è tempo ch’io vi dichiari che il colonnello Mellini ha più di novant’anni (...). Animucce buone, linguine pietose, avete preso un bel granchio a secco, come ne prendeste parecchi leggendo i miei sonetti”. Tuttavia, nonostante il suo spirito brillante e questa sua innegabile ironia, era incline a riporre aspettative eccessive in relazioni amorose che si rivelavano insoddisfacenti, e talvolta soffocanti. Era troppo intelligente per non rendersene conto, e spesso questa dolorosa consapevolezza traspare, oltre che nella scrittura privata, anche nelle pieghe di alcuni dei suoi racconti e del suo romanzo L’innamorata, ma allo sguardo sociale mai stanco di seguirla non arrivava alcun retroscena, e ogni sua scelta – in quanto compiuta da donna libera e non riconducibile ai tre ordini canonici di moglie, madre, zitella – assumeva invariabilmente un carattere d’irregolarità.
Il 30 novembre 1896, nella sua casa in via Sistina, Evelina venne gravemente ferita dal partner Giuseppe Pierantoni; morì in conseguenza delle ferite il giorno dopo e fino all’ultimo continuò a ripetere all’amica Olga Ossani che Pierantoni l’aveva uccisa perché lei voleva lasciarlo. Questo brutale assassinio venne a suggellare, nell’interpretazione dei suoi contemporanei, un’esistenza al di fuori di ogni canone: e se già si è citato il necrologio di Matilde Serao, merita attenzione anche quanto scrive il giornalista Vincenzo Morello, firmandosi Rastignac, sulle pagine della Tribuna: “Piena di ingegno, bella, ardente di animo, ricca anche di gusto e di cultura, si gettò nella battaglia giornalistica e letteraria, non come una lottatrice in cerca di un mondo da conquistare, ma come una zingara: soddisfatta di essere e rimanere donna così nella vita come nell’arte”. Significativo risulta qui l’accostamento a una zingara, risorsa ultima di chi vorrebbe a tutti i costi attribuire un’etichetta ad artiste irriducibili a categorie e che, per inciso, verrà adoperato ancora in riferimento ad altre scrittrici. Prima nei confronti della vivace e cosmopolita Annie Vivanti, poi, a distanza di parecchi anni, da Elio Vittorini nel suo suggestivo quanto ingannevole fermo immagine di Anna Maria Ortese nelle vesti di zingara assorta in un sogno. Ma, tornando a Contessa Lara, bisognerà aggiungere che, accanto a letture interpretative attente ed equilibrate come quelle di Biancamaria Frabotta, Manola Ida Venzo, Carlotta Moreni, nella bibliografia che la riguarda ci si imbatte non solo in vecchi titoli gridati come “Una vita in fiamme” ma anche in più recenti descrizioni enfaticamente eseguite su una squillante marcia di conquista: “Tra le signore ammodo e i salotti buoni dell’Italia umbertina irrompe impudente e intrepida, eccessiva e impertinente, bellissima e pronta all’oltranza più trasgressiva la Contessa Lara” o su una mesta melodia patetica: “Ripudiata, errabonda e ormai senza più pace, fra le macerie dei suoi sogni infranti”. Viene da pensare che, quando ci si trova davanti a personalità complesse e a scelte anticonformiste, sia quasi istintivo ricorrere ai toni interpretativi più enfatici e coloriti, cercare di imbrigliare la coesistenza delle diversità nelle polarizzazioni: ammirazione o compassione, femme fatale o creatura sventurata, angelo o demone. E ci si ricorda, per contrasto, della sagacia e dell’ironia dimostrate dalla scrittrice nella descrizione di un suo personaggio dalle controverse sfumature, la marchesa Teodora protagonista del racconto Apertura di caccia, pubblicato su La Domenica letteraria il 30 agosto 1885: “Non dirò che paresse né un angelo né un demonio tentatore: pareva una donna elegante qual è e basta”. Ma, per quanto sfuggente alle catalogazioni, non è questo il personaggio più innovativo creato dalla scrittrice: occorrerà attendere ancora qualche anno per la comparsa in scena di Leona, protagonista di L’innamorata, che è al tempo stesso amante della libertà e prigioniera di un amore oppressivo.(...)
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