Al Salone del Libro di Torino quest’anno c’è gente, c’è cura, c’è un’ottima organizzazione. Eppure si respira qualcosa che potremmo chiamare intellectual fatigue, ossia l’esaurimento della capacità di pensiero critico, di elaborazione intellettuale e di impegno cognitivo dopo un lungo periodo di sforzo mentale senza risultati. Una stanchezza che ha colonizzato lo sguardo della sinistra italiana, e che ha tutto il sapore della resa.
Non è la normale fatica dopo giorni di presentazioni e incontri. È un esaurimento più profondo, esistenziale, che il Salone semplicemente svela. Lo si legge negli occhi dei protagonisti della cultura mentre svolgono le proprie funzioni con la meccanicità di chi ha ripetuto lo stesso gesto troppe volte. Presentano libri, partecipano a dibattiti, firmano copie, ma lo fanno come automi programmati per simulare un impegno in cui non credono più.
Il punto è che non ci crede fino in fondo più nessuno. Hanno perso più o meno tutti la convinzione che si possa davvero cambiare qualcosa, e questo ha generato una Grande Stanchezza che non è solo degli intellettuali ma dell’intero ecosistema culturale progressista. Chi ascolta è esausto quanto chi parla. Chi legge è disilluso quanto chi scrive. C’è una complicità nella rassegnazione, un patto non scritto in cui l’intellettuale finge di credere ancora fortemente nelle proprie parole, e il pubblico finge di trovarvi una luminosissima scintilla di speranza.
Questa svogliatezza ha una radice precisa: la sensazione di impotenza. Dopo decenni di analisi, denunce, mobilitazioni culturali, la sinistra si trova di fronte a un mondo che ha accelerato nella direzione opposta. L’avanzata delle destre, il trionfo del capitalismo più predatorio, lo smantellamento dello stato sociale, la crisi ecologica ignorata: di fronte a questo panorama la sensazione prevalente è: a che serve? A che serve scrivere il solito saggio critico? A che serve organizzare l’ennesimo dibattito? A che serve denunciare l’ennesima ingiustizia? Tanto non cambierà niente. Serve, perlomeno, a rassicurarci che siamo ancora i buoni, malgrado tutto e a differenza loro. Non è poco, si dirà, ma di sicuro non è abbastanza. Perché la montagna di parole prodotta negli ultimi decenni sembra non aver spostato di un millimetro il corso degli eventi.
Aleggia un cinismo diffuso che si esprime nella scissione tra quanto detto in pubblico e i commenti sussurrati nei corridoi, tra le tesi sostenute (con sempre meno foga) nel dibattito e le battute scambiate al bar (con sempre meno vergogna). Questa condizione genera una forma di depressione culturale, una malinconia che pervade gli ambienti intellettuali. Si continua a discettare ma con lo stesso entusiasmo con cui si parlerebbe di un amico morto da tempo: con rispetto e nostalgia, consapevoli che non tornerà mai dall’aldilà.
In questo panorama di esaurimento intellettuale la destra ha gioco fin troppo facile con il suo mix elementare ma efficace di risentimento e opportunismo. Risentimento accumulato in decenni di irrilevanza nei circuiti culturali mainstream, e opportunismo nel cogliere il momento di debolezza dell’avversario per occupare più spazi di potere possibile.
La destra che avanza nella cultura italiana non propone visioni alternative articolate o nuove sintesi intellettuali come vorrebbe far credere. Non c'è un pensiero forte, un’elaborazione originale, una proposta culturale che vada oltre la rivendicazione di identità e tradizioni idealizzate. C'è soltanto una fame boriosa di rivincita che si traduce in una corsa ad occupare poltrone, direzioni, commissioni, giurie, cattedre – tutti quei luoghi di potere culturale a lungo controllati dall’intellighenzia progressista.
E così ci aggiriamo per il Salone come i sopravvissuti di un naufragio che ancora non hanno realizzato che la nave è affondata. Continuiamo a parlare di navigazione mentre annaspiamo tra i relitti. E nel frattempo, sulle coste, i predoni già si dividono il bottino.
Che fare?
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