Niccolò Scaffai
SOTTO L'INESAURIBILE SUPERFICIE DELLE COSE
Il paradigma della profondità nell’immaginario dell’Antropocene
Aboca edizioni
collana Saggi
2025
pp. 180, euro 24
ISBN 9788855233255
La profondità è un motivo ricorrente nell’immaginario contemporaneo; la rappresentazione degli spazi sotterranei e sottomarini è diventata sempre più frequente nella letteratura, nel cinema, nelle arti figurative. In particolare, risaltano sempre più spesso elementi e oggetti materiali che emergono dalla profondità: rocce, fossili, ossa, scorie, petrolio. L’attrazione esercitata dal mondo sotterrano è sempre stata forte: la scoperta di tesori sepolti o sommersi, i viaggi al centro della Terra e le discese negli inferi sono archetipi che hanno sempre avuto grandissima fortuna nel mito e nella religione, nella letteratura e perfino nella scienza. Ma la profondità nella cultura contemporanea ha un carattere specifico, che consiste nel legame con l’Antropocene, l’epoca cioè in cui l’attività umana è diventata così intensa da incidere sui processi geologici, alterando clima e struttura del pianeta.
Nell’immaginario classico e moderno, lo spazio profondo era un territorio di scoperta o di conquista, in senso materiale o morale: dalla catabasi l’eroe torna dopo aver raggiunto uno status diverso e migliore, come in un rito iniziatico. La profondità era un luogo d’eccezione, obiettivo di un passaggio temporaneo, funzionale al tempo dell’avventura e del rito. È lo spazio “notturno”, concepito come immagine contraria di quello “diurno” della superficie in cui si riflette e da cui si dipende, che garantisce al protagonista un più saldo possesso di entrambi i regni, quello sotterraneo e quello di superficie. In questo senso, l’immagine che restituisce è quella dell’uomo che ha superato pericoli e ostacoli: il trionfo dell’antropocentrismo, insomma. Il paradigma che si instaura, invece, nell’immaginario contemporaneo ha caratteristiche diverse se non opposte. Lo spazio non viene conquistato ma piuttosto rivelato; la sua manifestazione non è temporanea ma permanente, preesiste all’umano e perdura oltre di lui, nel tempo profondo. La sua funzione non è quindi quella di esaltare la virtù dell’eletto, ma di relativizzarne la sua condizione in rapporto alle altre specie e alla materia stessa. “Profondità” diventa così una parola chiave dell’Antropocene e del pensiero ecocritico.
In questo libro sorprendente e ricchissimo, con esempi tratti dalla letteratura, dalla scrittura scientifica, dal cinema, dalle arti figurative, Niccolò Scaffai definisce il “paradigma della profondità” illuminando tutta la cultura contemporanea, analizzandola attraverso i cardini del testo e delle sue strutture, cioè il tempo e lo spazio, e spiegandoci come la letteratura e le altre forme dell’immaginario riescono a collegare gli spazi profondi con gli ambienti di superficie in cui si svolge la nostra esistenza. Perché conoscere, cioè accedere alla profondità, è la condizione per portare alla luce e indicare l’esempio virtuoso di una forma di vita non antropocentrica.
un estratto dalla parte terza,
Il racconto degli ambienti profondi, come accesso alla comprensione delle dinamiche ambientali o proiezione in scenari predittivi, è una delle modalità che si stanno diffondendo e radicando con maggior forza nelle storie culturali degli ambienti fisici e sociali, e di conseguenza nella riflessione ecologica. Sul piano critico e teorico letterario, questa tendenza si rispecchia per esempio negli studi di geologia e letteratura. Le profondità geologiche sono il tema e lo sfondo di opere recenti in cui le esistenze dei personaggi e la vita nei rispettivi ambienti sono condizionate o raffigurate emblematicamente dal sottosuolo. Quelle opere richiamano spesso avvenimenti storici del Novecento italiano, raccontati con un grado di elaborazione simbolica e stilistica che trascende il livello documentale. Tra questi eventi, uno in particolare s’impone per il suo legame diretto con la dimensione della profondità: il terremoto, specialmente quello che colpì il Friuli nel 1976.
“Fu in quel momento che il boato
arrivò, senza preavviso e con alcuni secondi di anticipo sullo
scossone vero e proprio. Un basso profondo dalle tonalità infernali,
emesso da un esercito di tromboni, fagotti, oboi e corni inglesi,
passò dal terreno direttamente ai miei polmoni attraversandomi il
corpo”. Così descrive il rombo del terremoto lo scrittore e
giornalista Paolo Rumiz, all’inizio di un libro in cui racconta il
suo viaggio attraverso l’Italia, risalendo da Sud a Nord (quasi
rovesciando l’alto e il basso della tradizionale geografia
dell’Italienische Reise), in ascolto della “voce dal Profondo”
(questo il titolo) che risuona dai vulcani e nelle zone sismiche del
territorio italiano.
Lo stesso evento fa da contesto a Rombo, romanzo della scrittrice tedesca Esther Kinsky. Uscito in Germania nel 2022 e pubblicato l’anno seguente in Italia, ha vinto il Premio Kleist ed è stato candidato al Premio Strega europeo. Il titolo allude appunto al rumore che precede e accompagna il sisma: “In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. Con cui è iniziato. Con cui tutto è cambiato, come dicono, in un colpo solo, anche se forse era piuttosto una spinta, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano. Quel rumore si è inscritto nella memoria di ciascuno, sotto nomi diversi. […] Nessuno mette in dubbio che salisse dalla profondità della Terra e non rotolasse giù dalle pareti della montagna, anche se è stato seguito da una sorta di prolungato fragore non appena la massa rocciosa della montagna – a più riprese in quella prima sera – si è staccata per effetto delle scosse ed è precipitata a valle.”
Ma Kinsky non fa la cronaca dell’evento, riuscendo invece a raccontare le implicazioni tra personaggi, animali, oggetti, fiumi, montagne, connessi nella profondità del tempo e soprattutto dello spazio da cui scaturisce la forza del terremoto: “Giù in fondo, nella gola irraggiungibile da qualsiasi lato, giacciono i frammenti di roccia, e nessuno, nemmeno con il più potente dei binocoli, riesce a intravedere se in mezzo non vi siano anche resti di esseri viventi, uomini o animali, creature che si sono mosse attraverso il tempo e lo spazio finché non hanno trovato lì la loro fine”.
Il libro è scandito in ‘quadri’ narrativi o descrittivi; quest’articolazione favorisce l’accostamento di brani di diverso tenore in cui si alternano immagini della natura (piante, animali, elementi del paesaggio), memorie individuali, riferimenti puntuali al sisma. È proprio grazie a questa forma che il racconto distribuisce anche al non umano – per esempio l’acqua – una parte nella storia e una sorta di facoltà ‘narrativa’ prodotta dal legame con le tradizioni del luogo e dalla stessa capacità di modificare il territorio. La materia, l’inorganico possono imprimere così un diverso andamento alle vicende degli abitanti e modulare il racconto della comunità: “Da ogni crepaccio e gola e da ogni incisione nelle montagne sgorga un corso d’acqua che a giudicare dal nome è nero, bianco, secco, freddo, torbido o impetuoso, denominato in base a pascoli, cacciatori, animali, personaggi leggendari, confini, alberi, la posizione del sole. Qui ogni chiazza di terra e ogni metro d’acqua ha un nome e insieme al nome una storia o la storia di una storia. L’acqua detta i luoghi e determina le strade”. Del resto, il confine tra organico e inorganico si attenua nella profondità del tempo in cui gli strati rocciosi si sedimentano e le rocce emergono dai fondali marini per diventare montagne. La stessa pietra calcarea del Carso “è una roccia derivata da esseri viventi, un accumulo di materia morta e di tracce di vita divenuto una massa compatta, che fa da sfondo e sottofondo alla vita”.
Di fronte al sisma, o meglio al di sopra delle profondità da cui provengono l’urto e il rombo del terremoto, la società terrestre formata dagli umani e dalle altre specie è esposta ai medesimi fenomeni. Certo, la gravità del trauma che segna le vite delle persone e colpisce le comunità non è annullabile nell’indistinzione della natura vivente, o addirittura della materia geologica. Non è questo l’obiettivo del romanzo di Kinski, che suggerisce un’idea molto diversa: quella cioè che il terremoto abbia un impatto ecologico proprio perché sconvolge il sistema attraverso il quale individui e ambiente, vita organica e materia (acqua, rocce, terreni), manufatti ed elementi del paesaggio stanno in equilibrio. In questo senso si può dire che il sisma collega e trascende i confini tra organico e inorganico, e riconfigura i rapporti di spazio (tra sottosuolo e superficie) e di tempo (tra il presente dell’emergenza e il tempo geologico durante il quale si sono accumulati i sedimenti e l’energia rilasciata sotto forma di scosse). Il terremoto è perciò uno dei più drammatici dispositivi per mezzo dei quali la profondità si rende esplicita; ci obbliga, in modo particolarmente violento, a considerare in una prospettiva diversa e straniante la geografia sociale e naturale che abitiamo, la cronologia delle nostre esistenze, le categorie culturali e ideologiche a cui facciamo riferimento.
Ha origine dalla profondità almeno un altro dispositivo capace di simili effetti, anche se agisce in una scala temporale molto maggiore rispetto ai pochi terribili secondi di una scossa sismica: il petrolio. Nessuna materia più del petrolio richiama la profondità non solo nello spazio (i giacimenti sotterranei) ma anche nel tempo: il combustibile fossile, infatti, non è altro che biomassa depositata e decomposta nel corso di milioni di anni. «Ogni anno due milioni di tonnellate di greggio sono estratti dalla crosta terrestre che le conservava da milioni di secoli nelle pieghe delle rocce sepolte tra strati di sabbia e di argilla»: così Italo Calvino, in uno scritto del 1974 poi entrato nella raccolta postuma Prima che tu dica pronto, richiamava la storia profonda del petrolio. Una storia che parte dalle epoche più remote, in cui la Terra era popolata dai dinosauri, e arriva fino al presente in cui noi automobilisti riempiamo il serbatoio delle nostre auto. Il racconto di Calvino s’intitola appunto La pompa di benzina: mentre spinge sull’acceleratore, continua lo scrittore, il piede «diventa cosciente che alla sua più lieve pressione gli ultimi sprazzi dell’energia accumulata dal nostro pianeta si vanno bruciando». Alle preoccupazioni sul prossimo esaurimento delle risorse, il narratore alterna l’astrazione nella memoria planetaria, collegando la propria «situazione nello spazio e nel tempo» alle «ore meridiane del Cretaceo», quando gli esseri viventi di quel tempo «ridotti a una pioggia leggera di detriti vegetali e animali si depositano sui bassi fondali e s’impastano nel fango, e col trascorrere dei cataclismi vengono masticati dalle mascelle delle rocce calcaree».[1] «Il denaro e il mondo sotterraneo mantengono un vecchio legame di parentela»,[2] ha scritto ancora Calvino.
Il petrolio è anche il tema di un filone di narrazioni – petrofiction o oil fiction – che intreccia storia e politica al racconto degli ambienti in cui le comunità subiscono gli effetti economici e sociali dello sfruttamento esercitato dall’industria petrolifera. S’intitola appunto Petrofiction uno scritto del 1992 di Amitav Ghosh, incluso nella raccolta Circostanze incendiarie. Ghosh comincia riflettendo sulla scarsa fortuna letteraria del tema del petrolio:
In inglese, per esempio, a parte qualche modesto esempio di letteratura di viaggio e una mole di effimeri scritti accademici, ha prodotto ben poco, nulla di paragonabile alla qualità e alla sottigliezza intellettuale dei diari di viaggio e delle narrazioni di scrittori portoghesi del sedicesimo secolo quali Duarte Barbosa, Tomé Pires e Caspar Correia. Quanto a un poema epico, neanche a pensarci. Per i suoi maggiori protagonisti (che in sostanza significa gli Stati Uniti e il loro popolo da un lato, e i popoli della penisola Arabica e del golfo Persico dall’altro), la storia del petrolio costituisce un motivo di imbarazzo che sconfina nell’indicibile, nel pornografico. È forse l’unico terreno culturale sul quale le due parti si trovano in completo accordo.[3]
A determinare questa sorta di rimozione non sarebbe però soltanto una forma di ritegno etico-ideologico, ma anche la complessità del sistema che presiede allo sfruttamento delle risorse petrolifere, tale da richiedere uno sguardo capace di attraversare i confini tra lingue e nazioni diverse: «Il territorio petrolifero» scrive Ghosh «è di uno sconcertante multilinguismo, per esempio, mentre il romanzo, con le sue convenzioni di dialogo naturalistico, si trova più a suo agio all’interno di comunità monolingue (vale a dire nazioni-stato)».[4] Sono questi i fattori che spiegherebbero l’assenza di un «Grande Romanzo Petrolifero Americano», come lo chiama ironicamente Ghosh.
È legato al tema del petrolio un libro recente, che già si avvia a diventare un classico nella ‘biblioteca dell’Antropocene’: L’età del fuoco (2023) dello scrittore canadese John Vaillant. Il libro è incentrato sul gigantesco incendio che nel 2016 raggiunse la città di Fort McMurray, nello stato canadese dell’Alberta, sorta in una delle aree petrolifere più importanti del Nord America. Sotto le foreste che circondano Fort McMurray si trova un enorme giacimento di bitume, «grande quanto lo stato di New York»[5], da cui l’industria locale estrae il petrolio. Il libro racconta l’evento – tra i più distruttivi di un’epoca che è stata definita appunto ‘Pirocene’[6] – dando il ruolo di vero protagonista proprio alle fiamme. Vaillant infatti racconta il fuoco rappresentandolo come un’entità non umana ma ciononostante dotata di una agency e di una sorta d’istinto di autoconservazione, quasi come se fosse un animale. Il fuoco di un incendio «ha uno scopo che è facile scambiare per volontà, e spesso gli umani lo aiutano, anche se non intenzionalmente»;[7] la sua forza e i suoi effetti dipendono infatti dalla capacità di interagire con gli elementi organici e inorganici dell’ambiente di cui entra a far parte. Per questo, spiega, alcuni esperti in materia hanno imparato a «immedesimarsi nell’incendio».[8] Si può perfino considerarlo come un soggetto, interpretando paradossalmente gli equilibri ambientali dalla sua prospettiva: «Senza il fuoco e i suoi cicli di ricomparsa – all’apparenza casuali ma in realtà regolari – la foresta boreale collasserebbe. In questa ciclicità c’è una sorta di dipendenza reciproca che, dal punto di vista del fuoco, ribalta l’idea di cosa sia la foresta, e a chi serva».[9] Se assumiamo l’ottica straniante dell’incendio, e cogliamo il legame con la crescita della vegetazione su cui interviene e che quasi ‘coltiva’ con mutuo vantaggio, a rivelarsi come elemento dissonante, fattore di squilibrio e innesco dei processi distruttivi non è il fuoco, ma siamo noi, la specie umana.
Note
[1] Italo Calvino, La forza delle cose, “Corriere della sera”, 21 dicembre 1974, p. 3; poi con il titolo La pompa di benzina, in Id., Prima che tu dica pronto (1993), in Romanzi e racconti, vol. III, Mondadori, Milano 1994, pp. 261-267 (i brani citati sono alle pp. 261-263).
[2] Italo Calvino, La pompa di benzina, p. 265.
[3] Amitav Ghosh, Circostanze incendiarie (Incendiary Circumstances: A Chronicle of the Turmoil of Our Times, 2005), trad. it. Neri Pozza, Vicenza 2006, p. 283.
[4] Ivi, p. 287.
[5] John Vaillant, L’età del fuoco. Una storia vera da un mondo sempre più caldo (Fire Weather: A True Story from a Hotter World, 2023), trad. it. Iperborea, Milano 2024, p. 31.
[6] La definizione è di Stephen J. Pyne, storico ambientale e massimo esperto mondiale della ‘ecologia del fuoco’, autore di Pirocene. Viaggio nell’età del fuoco, tra passato e futuro (The Pyrocene: How We Created an Age of Fire, and What Happens Next, 2021), trad. it. Codice edizioni, Torino 2022.
[7] Vaillant, L’età del fuoco, p. 124.
[8] Ivi, p. 275.
[9] Ivi, p. 136.
Lo stesso evento fa da contesto a Rombo, romanzo della scrittrice tedesca Esther Kinsky. Uscito in Germania nel 2022 e pubblicato l’anno seguente in Italia, ha vinto il Premio Kleist ed è stato candidato al Premio Strega europeo. Il titolo allude appunto al rumore che precede e accompagna il sisma: “In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. Con cui è iniziato. Con cui tutto è cambiato, come dicono, in un colpo solo, anche se forse era piuttosto una spinta, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano. Quel rumore si è inscritto nella memoria di ciascuno, sotto nomi diversi. […] Nessuno mette in dubbio che salisse dalla profondità della Terra e non rotolasse giù dalle pareti della montagna, anche se è stato seguito da una sorta di prolungato fragore non appena la massa rocciosa della montagna – a più riprese in quella prima sera – si è staccata per effetto delle scosse ed è precipitata a valle.”
Ma Kinsky non fa la cronaca dell’evento, riuscendo invece a raccontare le implicazioni tra personaggi, animali, oggetti, fiumi, montagne, connessi nella profondità del tempo e soprattutto dello spazio da cui scaturisce la forza del terremoto: “Giù in fondo, nella gola irraggiungibile da qualsiasi lato, giacciono i frammenti di roccia, e nessuno, nemmeno con il più potente dei binocoli, riesce a intravedere se in mezzo non vi siano anche resti di esseri viventi, uomini o animali, creature che si sono mosse attraverso il tempo e lo spazio finché non hanno trovato lì la loro fine”.
Il libro è scandito in ‘quadri’ narrativi o descrittivi; quest’articolazione favorisce l’accostamento di brani di diverso tenore in cui si alternano immagini della natura (piante, animali, elementi del paesaggio), memorie individuali, riferimenti puntuali al sisma. È proprio grazie a questa forma che il racconto distribuisce anche al non umano – per esempio l’acqua – una parte nella storia e una sorta di facoltà ‘narrativa’ prodotta dal legame con le tradizioni del luogo e dalla stessa capacità di modificare il territorio. La materia, l’inorganico possono imprimere così un diverso andamento alle vicende degli abitanti e modulare il racconto della comunità: “Da ogni crepaccio e gola e da ogni incisione nelle montagne sgorga un corso d’acqua che a giudicare dal nome è nero, bianco, secco, freddo, torbido o impetuoso, denominato in base a pascoli, cacciatori, animali, personaggi leggendari, confini, alberi, la posizione del sole. Qui ogni chiazza di terra e ogni metro d’acqua ha un nome e insieme al nome una storia o la storia di una storia. L’acqua detta i luoghi e determina le strade”. Del resto, il confine tra organico e inorganico si attenua nella profondità del tempo in cui gli strati rocciosi si sedimentano e le rocce emergono dai fondali marini per diventare montagne. La stessa pietra calcarea del Carso “è una roccia derivata da esseri viventi, un accumulo di materia morta e di tracce di vita divenuto una massa compatta, che fa da sfondo e sottofondo alla vita”.
Di fronte al sisma, o meglio al di sopra delle profondità da cui provengono l’urto e il rombo del terremoto, la società terrestre formata dagli umani e dalle altre specie è esposta ai medesimi fenomeni. Certo, la gravità del trauma che segna le vite delle persone e colpisce le comunità non è annullabile nell’indistinzione della natura vivente, o addirittura della materia geologica. Non è questo l’obiettivo del romanzo di Kinski, che suggerisce un’idea molto diversa: quella cioè che il terremoto abbia un impatto ecologico proprio perché sconvolge il sistema attraverso il quale individui e ambiente, vita organica e materia (acqua, rocce, terreni), manufatti ed elementi del paesaggio stanno in equilibrio. In questo senso si può dire che il sisma collega e trascende i confini tra organico e inorganico, e riconfigura i rapporti di spazio (tra sottosuolo e superficie) e di tempo (tra il presente dell’emergenza e il tempo geologico durante il quale si sono accumulati i sedimenti e l’energia rilasciata sotto forma di scosse). Il terremoto è perciò uno dei più drammatici dispositivi per mezzo dei quali la profondità si rende esplicita; ci obbliga, in modo particolarmente violento, a considerare in una prospettiva diversa e straniante la geografia sociale e naturale che abitiamo, la cronologia delle nostre esistenze, le categorie culturali e ideologiche a cui facciamo riferimento.
Ha origine dalla profondità almeno un altro dispositivo capace di simili effetti, anche se agisce in una scala temporale molto maggiore rispetto ai pochi terribili secondi di una scossa sismica: il petrolio. Nessuna materia più del petrolio richiama la profondità non solo nello spazio (i giacimenti sotterranei) ma anche nel tempo: il combustibile fossile, infatti, non è altro che biomassa depositata e decomposta nel corso di milioni di anni. «Ogni anno due milioni di tonnellate di greggio sono estratti dalla crosta terrestre che le conservava da milioni di secoli nelle pieghe delle rocce sepolte tra strati di sabbia e di argilla»: così Italo Calvino, in uno scritto del 1974 poi entrato nella raccolta postuma Prima che tu dica pronto, richiamava la storia profonda del petrolio. Una storia che parte dalle epoche più remote, in cui la Terra era popolata dai dinosauri, e arriva fino al presente in cui noi automobilisti riempiamo il serbatoio delle nostre auto. Il racconto di Calvino s’intitola appunto La pompa di benzina: mentre spinge sull’acceleratore, continua lo scrittore, il piede «diventa cosciente che alla sua più lieve pressione gli ultimi sprazzi dell’energia accumulata dal nostro pianeta si vanno bruciando». Alle preoccupazioni sul prossimo esaurimento delle risorse, il narratore alterna l’astrazione nella memoria planetaria, collegando la propria «situazione nello spazio e nel tempo» alle «ore meridiane del Cretaceo», quando gli esseri viventi di quel tempo «ridotti a una pioggia leggera di detriti vegetali e animali si depositano sui bassi fondali e s’impastano nel fango, e col trascorrere dei cataclismi vengono masticati dalle mascelle delle rocce calcaree».[1] «Il denaro e il mondo sotterraneo mantengono un vecchio legame di parentela»,[2] ha scritto ancora Calvino.
Il petrolio è anche il tema di un filone di narrazioni – petrofiction o oil fiction – che intreccia storia e politica al racconto degli ambienti in cui le comunità subiscono gli effetti economici e sociali dello sfruttamento esercitato dall’industria petrolifera. S’intitola appunto Petrofiction uno scritto del 1992 di Amitav Ghosh, incluso nella raccolta Circostanze incendiarie. Ghosh comincia riflettendo sulla scarsa fortuna letteraria del tema del petrolio:
In inglese, per esempio, a parte qualche modesto esempio di letteratura di viaggio e una mole di effimeri scritti accademici, ha prodotto ben poco, nulla di paragonabile alla qualità e alla sottigliezza intellettuale dei diari di viaggio e delle narrazioni di scrittori portoghesi del sedicesimo secolo quali Duarte Barbosa, Tomé Pires e Caspar Correia. Quanto a un poema epico, neanche a pensarci. Per i suoi maggiori protagonisti (che in sostanza significa gli Stati Uniti e il loro popolo da un lato, e i popoli della penisola Arabica e del golfo Persico dall’altro), la storia del petrolio costituisce un motivo di imbarazzo che sconfina nell’indicibile, nel pornografico. È forse l’unico terreno culturale sul quale le due parti si trovano in completo accordo.[3]
A determinare questa sorta di rimozione non sarebbe però soltanto una forma di ritegno etico-ideologico, ma anche la complessità del sistema che presiede allo sfruttamento delle risorse petrolifere, tale da richiedere uno sguardo capace di attraversare i confini tra lingue e nazioni diverse: «Il territorio petrolifero» scrive Ghosh «è di uno sconcertante multilinguismo, per esempio, mentre il romanzo, con le sue convenzioni di dialogo naturalistico, si trova più a suo agio all’interno di comunità monolingue (vale a dire nazioni-stato)».[4] Sono questi i fattori che spiegherebbero l’assenza di un «Grande Romanzo Petrolifero Americano», come lo chiama ironicamente Ghosh.
È legato al tema del petrolio un libro recente, che già si avvia a diventare un classico nella ‘biblioteca dell’Antropocene’: L’età del fuoco (2023) dello scrittore canadese John Vaillant. Il libro è incentrato sul gigantesco incendio che nel 2016 raggiunse la città di Fort McMurray, nello stato canadese dell’Alberta, sorta in una delle aree petrolifere più importanti del Nord America. Sotto le foreste che circondano Fort McMurray si trova un enorme giacimento di bitume, «grande quanto lo stato di New York»[5], da cui l’industria locale estrae il petrolio. Il libro racconta l’evento – tra i più distruttivi di un’epoca che è stata definita appunto ‘Pirocene’[6] – dando il ruolo di vero protagonista proprio alle fiamme. Vaillant infatti racconta il fuoco rappresentandolo come un’entità non umana ma ciononostante dotata di una agency e di una sorta d’istinto di autoconservazione, quasi come se fosse un animale. Il fuoco di un incendio «ha uno scopo che è facile scambiare per volontà, e spesso gli umani lo aiutano, anche se non intenzionalmente»;[7] la sua forza e i suoi effetti dipendono infatti dalla capacità di interagire con gli elementi organici e inorganici dell’ambiente di cui entra a far parte. Per questo, spiega, alcuni esperti in materia hanno imparato a «immedesimarsi nell’incendio».[8] Si può perfino considerarlo come un soggetto, interpretando paradossalmente gli equilibri ambientali dalla sua prospettiva: «Senza il fuoco e i suoi cicli di ricomparsa – all’apparenza casuali ma in realtà regolari – la foresta boreale collasserebbe. In questa ciclicità c’è una sorta di dipendenza reciproca che, dal punto di vista del fuoco, ribalta l’idea di cosa sia la foresta, e a chi serva».[9] Se assumiamo l’ottica straniante dell’incendio, e cogliamo il legame con la crescita della vegetazione su cui interviene e che quasi ‘coltiva’ con mutuo vantaggio, a rivelarsi come elemento dissonante, fattore di squilibrio e innesco dei processi distruttivi non è il fuoco, ma siamo noi, la specie umana.
Note
[1] Italo Calvino, La forza delle cose, “Corriere della sera”, 21 dicembre 1974, p. 3; poi con il titolo La pompa di benzina, in Id., Prima che tu dica pronto (1993), in Romanzi e racconti, vol. III, Mondadori, Milano 1994, pp. 261-267 (i brani citati sono alle pp. 261-263).
[2] Italo Calvino, La pompa di benzina, p. 265.
[3] Amitav Ghosh, Circostanze incendiarie (Incendiary Circumstances: A Chronicle of the Turmoil of Our Times, 2005), trad. it. Neri Pozza, Vicenza 2006, p. 283.
[4] Ivi, p. 287.
[5] John Vaillant, L’età del fuoco. Una storia vera da un mondo sempre più caldo (Fire Weather: A True Story from a Hotter World, 2023), trad. it. Iperborea, Milano 2024, p. 31.
[6] La definizione è di Stephen J. Pyne, storico ambientale e massimo esperto mondiale della ‘ecologia del fuoco’, autore di Pirocene. Viaggio nell’età del fuoco, tra passato e futuro (The Pyrocene: How We Created an Age of Fire, and What Happens Next, 2021), trad. it. Codice edizioni, Torino 2022.
[7] Vaillant, L’età del fuoco, p. 124.
[8] Ivi, p. 275.
[9] Ivi, p. 136.
Niccolò Scaffai è docente di Critica letteraria e letterature comparate all’Università degli Studi di Siena, dove dirige il Centro di ricerca «Franco Fortini». Dal 2010 al 2019 ha insegnato Letteratura contemporanea all’Università di Losanna, ed è membro del direttivo di Compalit – Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura. Tra i suoi libri recenti, ricordiamo per Carocci Il lavoro del poeta (2015) e Letteratura e ecologia (2017); per Mondadori i commenti alle opere di Montale La bufera e altro (2019) e Farfalla di Dinard (2021). Per Einaudi ha curato l’antologia Racconti del pianeta Terra (2022). Fa parte dei comitati direttivi e scientifici di varie riviste di studi letterari. Collabora con “Alias Domenica”, “Domenica del Sole 24 ore”, “Le parole e le cose”, “Doppiozero”.
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