Frida Kahlo
IMMAGINARE ERA UN GIOCO
Lettere d'arte e di passione
a cura di Francesca Neri
L'Orma editore
collana I Pacchetti
maggio 2025
pp. 64, euro 8,00
ISBN 9791254761212
«Sto quasi bene, per quanto riguarda piede, pancia ecc., quindi puoi stare tranquilla per la mia salute. Solo la mia testa è sempre un po’ sbilenca, ma non c’è nulla da fare: nata matta, matta morirò.»
Icona artistica e letteraria, oltre che simbolo di indipendenza e fierezza, Frida Kahlo (1907-1954) ha generato un immaginario unico e inconfondibile, segnando per sempre la pittura messicana e mondiale. Testimone dei suoi tormentati rapporti amorosi, dell’adesione al marxismo e dei travagli della creazione, l’epistolario ne restituisce la vita avventurosa e indomita, sempre immersa in quel mondo di colori che risplende nei suoi quadri.
dall'Introduzione
«Sono figlia della rivoluzione, non c'è dubbio, e di un vecchio dio del fuoco venerato dai miei antenati. Sono nata nel 1910. Era estate. Di lì a poco, Emiliano Zapata, il grande insorto, avrebbe sollevato il Sud.» Così annotò in una pagina di diario Frida Kahlo e così raccontò sempre a tutti, ma non era vero. Era venuta al mondo il 6 luglio 1907 a Coyoacán, allora una zona rurale alla periferia di Città del Messico, in un Paese che stava reinventando la propria identità. Mancavano tre anni all'inizio della rivoluzione messicana, che avrebbe messo in discussione l'eredità coloniale, ridefinito i rapporti sociali e portato al centro del discorso pubblico la cultura indigena come fondamento della nazione. Il padre, tedesco, fotografo, ateo e instancabile lettore, avrebbe voluto che la sua terza figlia si chiamasse «Frieda». Carl Wilhelm Kahlo Kaufmann - poi detto Guillermo -, nato nel Baden-Württemberg, in Germania, era emigrato in Messico a venť'anni e desiderava che il nome della figlia avesse un significato preciso: «fatelo precedere da cinque nomi di santi se necessario, [...] Friede, in tedesco, significa pace». Alla fine, la bambina fu battezzata Magdalena Carmen Frida. A essere cattolica invece era la madre, Matilde Calderón y González, di origini indigene e spagnole, ossia una mestiza. La famiglia abitava nella celebre Casa Azul costruita dal padre all'inizio del secolo, con le pareti blu cobalto che, secondo la tradizione, avrebbero scacciato gli spiriti maligni. La dimora divenne nel tempo rifugio, laboratorio e teatro di relazioni umane e comizi politici. Fin dalla più tenera età, Kahlo soffrì per la sua salute malferma, peggiorata drasticamente a diciotto anni in seguito a un incidente che la segnò per sempre nel fisico e nell'anima: l'autobus su cui tornava a casa si scontrò con un tram, e Kahlo riportò numerose fratture e ferite profonde. Cominciò una lunga serie di operazioni chirurgiche, mesi di vita allettata, busti ortopedici e sofferenze quotidiane. Fu in questa condizione di immobilità forzata che iniziò a dipingere in modo sistematico, con uno specchio posizionato sopra il letto e un cavalletto che le permetteva di lavorare da sdraiata. Prima ancora che un talento da coltivare, l'arte era un'urgenza espressiva, il bisogno di rappresentarsi, di guardarsi, di prendere il controllo di un corpo che era «un marasma». Nel 1929 sposò Diego Rivera. Un incontro che definì «l'altro grande incidente della mia vita». La loro relazione fu lunga, discontinua, esplosiva. Una storia fatta di stima, devozione e reciproci tradimenti. Nel 1939 si separarono per poi risposarsi appena un anno dopo. Per anni, Kahlo seguì Rivera negli Stati Uniti, accompagnandolo a San Francisco, a Detroit, a New York, ovunque gli fosse commissionato un nuovo murale. Se ne stava rinchiusa in camere d'albergo, nascondendosi da una società americana che aborriva, cercava di distrarsi con la pittura e provava una nostalgia infinita per il lento scorrere delle giornate di Coyoacán, «che sembrano così belle quando si è lontani». Cominciò anche a indossare gli abiti tehuana - tradizionali delle donne zapoteche di Tehuantepec, archetipo di un Messico immaginifico - con cui sarebbe stata consegnata alla leggenda. Li portava per rivendicare le sue origini mestize, ma tornavano utili anche per dissimulare le protesi, le fasciature, la costante ferita del corpo. Per tutta la vita rimpianse di non riuscire a portare a termine una gravidanza e sviluppò un ossessione per i feti in formalina di cui restano tracce oniriche e disturbanti nei suoi quadri. Dal letto di malata e dalla penombra delle camere d'albergo, le sue opere arrivarono infine nelle gallerie e nei musei, stregando, tra gli altri, Breton, Kandinskij e Picasso. Non era che l'inizio di una fama mondiale destinata a non affievolirsi mai e anzi a esplodere in una vera e propria «fridolatria» - tra frivola moda e culto appassionato - negli anni Novanta del Novecento. (...)
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