Jane Smiley
L'ETA' DEL DISINCANTO
(titolo originale The Age of Grief, pubblicato originariamente su The Quarterly, Vol.I, Spring 1987)
traduzione di Valentina Muccichini
La Nuova Frontiera
collana Liberamente
maggio 2025
pp. 128, euro
ISBN 9788883734892
“Vorrei che mia moglie mi amasse. Vorrei che i suoi occhi azzurri si posassero su di me con desiderio anziché con rimpianto. Mi chiedo se non sia sempre stato un po’ ai margini del suo sguardo. Una presenza necessaria nella vita che vuole condurre, ma pur sempre una presenza, solo una presenza.”
«Non sarò mai più felice» sussurra Dana dal sedile posteriore dell’auto. Sentendo quelle parole Dave, suo marito, capisce che qualcosa si è incrinato per sempre: il matrimonio, le giornate condivise insieme alle tre figlie, la clinica dentistica che gestiscono insieme. Tutto ciò che hanno costruito negli anni.
Convinto che Dana si sia innamorata di un altro uomo, Dave decide di mettere in atto una paradossale forma di resistenza: fingere di non sapere. In questo spazio sospeso prende forma una tensione crescente, un’ossessione silenziosa che si insinua nei pensieri più ordinari e nella routine domestica.
Il premio Pulitzer Jane Smiley mette magistralmente in scena la crisi di una coppia, restituendoci un potente ritratto dell’intimità familiare nel momento in cui un’emozione inattesa capovolge ogni equilibrio. Un testo essenziale e intenso, che ci mostra come la realtà possa deformarsi sotto il peso del sospetto, fino a ridisegnare completamente la nostra percezione dell’altro.
Smiley cattura con tale immediatezza e precisione i momenti più intimi da farci sentire parte della vita dei suoi personaggi. Soffriamo con loro quando tutto ciò che desiderano sembra sul punto di svanire. – The New York Times
Una straordinaria capacità di osservazione in grado di esprimere ciò che è accennato quanto ciò che è evidente. Da tutto questo è nato un capolavoro. – El Mundo
Un estratto
Dana era l’unica donna nella nostra classe al primo anno di odontoiatria, una delle due nell’intera facoltà. L’anno successivo le cose cambiarono: un quinto degli studenti erano donne, così forse il professor Perl, che insegnava biochimica, avrebbe perso l’abitudine di rivolgersi all’unica donna della classe dicendo: «Signorina McManus, ha capito?», come a dire che, se Dana avesse capito, allora lo avrebbero fatto anche tutti gli altri (maschi). In realtà Dana era laureata in biochimica, quindi il suo scontato cenno di assenso rappresentava un tradimento nei confronti di tutti noi, e la nostra classe finì per guadagnarsi la reputazione, tra i docenti, di essere particolarmente scarsa in biochimica: un’anomalia statistica, studenti che in qualunque altro anno sarebbero stati promossi, venivano invece bocciati. Com’è ovvio Perl non si ritenne mai responsabile. Gli studi dentistici sono immacolati e i dentisti si lavano le mani di continuo, per questo sono fresche e pulite, proprio sotto il naso, pronte per essere annusate. La gente si offenderebbe se non fossimo il più puliti possibile, eppure ce lo rinfaccia. In televisione ci dipingono sempre come maniaci dell’ordine e dell’igiene. Se viene commesso un omicidio e uno dei personaggi è un dentista, di sicuro sarà lui il colpevole, e con ogni probabilità avrà vissuto con la madre fino ai trent’anni. Gli attori che interpretano i dentisti sbattono le palpebre in continuazione. In televisione i dentisti non ricevono mai persone come l’uomo che venne da me quel giorno. Durante il fine settimana aveva avuto mal di denti, così aveva aperto la cassetta degli attrezzi, aveva tirato fuori una pinza e aveva iniziato a strapparseli via tutti, attenuando il dolore solo con un po’ di whisky. Estrarsi i denti richiede molta forza e una certa destrezza, e quell’uomo era dotato di una delle due e sprovvisto dell’altra. Dopo quindici anni senza mettere piede in uno studio dentistico, quel giorno era venuto da me perché aveva ventiquattro denti rotti, alcuni ridotti in frammenti sotto il bordo gengivale, altri semplicemente frantumati intorno alla corona. I denti sono importanti. Le popolazioni eschimesi abbandonavano gli anziani nella neve quando perdevano i denti, anche se per il resto erano in buona salute. Nella nostra cultura le persone godono di molti privilegi. Uno di questi è non avere più i denti. Dana frequentava con entusiasmo la facoltà di odontoiatria, o forse è più giusto dire che aveva un atteggiamento di sfida. Ogni giorno, entrando in aula, si fermava per un istante a osservare la stanza, tutti quei ragazzi, sfidandoli a respingerla, sfidandoli, anzi, a pensare di lei quello che volevano. Per me, invece, la facoltà di odontoiatria somigliava più a un pasto abbondante che dovevo consumare da solo. Le portate erano lì, allineate davanti a me, e così impugnai il cucchiaio e mi ci avventai con la massima concentrazione: biochimica, f isiologia, poi protesi dentaria e odontoiatria operativa, parodontologia, anestesiologia e gestione del dolore. Durante i laboratori ero felice, quando ci lasciavano liberi di lavorare sui pazienti. Entravano e si accomodavano nelle file di poltrone, poi si sdraiavano e noi gli applicavamo sulla bocca queste membrane di lattice e metallo. Si chiamavano dighe dentali. Fissavamo gli archetti metallici nella bocca del paziente e poi facevamo passare il dente interessato attraverso un foro stretto nel foglio di lattice. I professori ci dicevano che così il dente era più facile da vedere e da raggiungere. In realtà credo servissero a evitare che gli studenti facessero cadere qualcosa in gola, un dente o persino uno strumento. Inoltre facevano sì che i pazienti rimanessero in silenzio. Quella piccola barriera gli faceva capire che non dovevano parlare. I pazienti si sentono sempre in dovere di fare conversazione. Fatto sta che in quell’aula enorme calava il silenzio e ci si poteva concentrare su quel dente bianco contro il lattice scuro, e il tempo volava. Quella è stata l’ultima volta in cui mi è sembrato di potermi concentrare appieno sul mio lavoro. Per un dentista, la natura sociale della situazione è la cosa più difficile da gestire.
Jane Smiley è nata a Los Angeles nel 1949 ed è autrice di una ventina di opere di narrativa e saggi. Ha ricevuto il Premio Pulitzer e il National Book Critics Circle Award per il romanzo Erediterai la terra. Tra le sue opere, The Greenlanders (1988), The Age of Grief (1987) e, negli ultimi anni, la trilogia composta da Some Luck (2014), Early Warning (2015) e Golden Age (2015). Dal 2001 è membro dell’American Academy of Arts and Letters.
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