domenica 4 maggio 2025

Daniela Stefanutto - E PRESE FRA LE DITA LA NOTTE - Lindau

 
Daniela Stefanutto
E PRESE FRA LE DITA LA NOTTE
Lindau
collana Contemporanea
aprile 2025
pp. 272, euro 18
ISBN 9791255842217


Questa è la storia di Giuseppe, ma è anche la storia di chi la narra; è la storia di un’istituzione (il manicomio prima di Basaglia) e di un periodo storico. È il racconto di una ricerca sul campo (una vera e propria inchiesta) e il diario di un’ossessione (quella dell’autrice per suo cugino internato a San Servolo, il manicomio di Venezia); è un romanzo corale in cui si intrecciano le voci di parenti e medici, internati, infermieri e testimoni involontari. Attraverso un’intensa narrazione polifonica, E prese fra le dita la notte ci restituisce i lineamenti, in apparenza sempre più a fuoco, ma nella realtà irrimediabilmente sfuggenti, di una vita perduta nel labirinto di una struttura concentrazionaria, specchio di una società repressiva.
 
Un estratto
L'isola
«L’isola di San Servolo fu convento di suore espulse e pro fughe da Creta; dal 1716 ospedale per la gente di mare, sulla cui attività Venezia aveva costruito il proprio impero com merciale mediterraneo; un po’ più tardi accanto ai mari nai comparvero a San Servolo i soldati, feriti e sofferenti, ammalati privilegiati, nell’isola trasformata in ospedale militare per tutte le persone che si erano distinte nell’at tività commerciale e nella difesa di Venezia e dei suoi territori. Accanto a questi furono collocati a partire dal 1725 alcuni, pochissimi gentiluomini diventati o ritenuti pazzi, nello stesso periodo in cui i pochi mentecatti poveri veni vano rinchiusi preferibilmente nelle fuste in laguna. I nobi luomini venivano portati a San Servolo per difendere le famiglie dagli scandali e soprattutto dallo sperpero del denaro accumulato con le attività mercantili. Più tardi ancora, i mentecatti poveri progressivamente cresciuti di numero furono avviati a San Servolo finchè dopo con tese e lotte si sostituirono alla gente di mare e ai soldati, diventando gli unici abitanti custoditi nell’isola. E così San Servolo divenne manicomio, poi morocomio o manicomio centrale del Veneto o delle province venete per maniaci furiosi – i tranquilli restando o ritornando nelle sezioni per mentecatti degli ospedali civili locali – e, dopo l’unità d’Italia, divenne manicomio provinciale di Venezia, allar gandosi poco dopo nell’isola di San Clemente e successiva mente in terraferma, a Marocco, a Mogliano Veneto, pro vocando la moltiplicazione e l’apparente differenziazione funzionale di altre strutture segreganti, pubbliche e mol tissime private, rette da religiosi o da laici, dove periodi camente si depositavano, per periodi lunghi o per tutta la vita, provenendo da San Servolo o da San Clemente oppure direttamente dal territorio, i giovani irregolari, i defi cienti, i ciechi, i sordi, i cerebropatici, gli epilettici, i pella grosi, i cosiddetti tranquilli ecc.» (H. Terzian, M. Galzigna, L’archivio della follia, Marsilio, 1980).
Ho messo piede sull’isola di San Servolo per la prima volta nel novembre del 1980. Frequentavo il corso di Storia Contemporanea all’Università di Bologna. Avevo sgomi tato, ricordo, perché mi fosse assegnato quel lavoro a cui tenevo particolarmente. Un docente dell’Università Cà Foscari di Venezia stava lavorando in quel periodo alla catalogazione di tutti i materiali dell’archivio. Sull’onda della rivoluzione che aveva portato avanti Basaglia era nato il progetto l’Archivio della follia. Era riemerso un immenso materiale fatto di cartelle cliniche, strumenti medici, regi stri di conti, che si era accumulato nel corso dei secoli, f ino all’agosto del 1978, quando era stato dimesso l’ultimo paziente e il manicomio era stato chiuso. Non so esattamente che cosa mi aspettassi di trovare. Di sicuro su quel posto pensavo di vantare una sorta di diritto. Già allora ci giravo intorno: giravo intorno a quella che sarebbe diventata la mia ossessione. Il ricordo era ancora fresco. La macchina da scrivere era ritornata a casa. Ci scambiavamo degli sguardi. La sfioravo, all’inizio, come se il fatto stesso di scriverci qualcosa avesse potuto cancel lare tutto quello di cui non era rimasta traccia. Avevo la convinzione che se avessi dovuto ricostruire una storia, la storia dovesse partire da lì. Da quell’oggetto che era pas sato di mano in mano per poi tornare a me. Quella mac china da scrivere continuava a spostarsi. L’avevo por tata con me a Bologna, nell’appartamento occupato in via Pietralata; era quindi tornata a casa per poi seguirmi di nuovo, continuando a spostarsi, da un trasloco all’altro, da un quartiere all’altro di Bologna. San Lazzaro, Casalecchio di Reno per poi tornare in centro, in via Irnerio, a ridosso della zona universitaria. Vivevo nel terrore di perderla. Di danneggiarla in modo irreparabile. Era la mia ancora di salvezza. Negli anni mi avrebbe seguito. Illuminato. Confortato. Era un oggetto che mi apparteneva. Avrei dipanato attraverso di lei un filo ingarbugliato, una memo ria che si era interrotta. Su quel vaporetto che doveva portarci a San Servolo in una giornata umida e nebbiosa eravamo in tre. Tre stu denti di storia sulle tracce di Mario Galzigna, il docente di Storia del pensiero scientifico moderno e contemporaneo dell’U niversità di Venezia, il massimo esperto in Italia di Michel Foucault. Eravamo convinti che lo avremo trovato lì, o forse erano la curiosità o l’ingenuità a spingerci verso quell’isola. Oltre a noi tre, non c’era nessun altro. Dai finestrini sporchi si vedevano le increspature grigie del mare che si infrangevano sulla prua. Mentre osservavo il vaporetto che si allontanava sono stata assalita da un senso di angoscia. Ho guardato gli orari, la tabella era arrugginita e le scritte erano quasi illeg gibili; il vaporetto sarebbe ripassato di lì a un’ora. I gab biani volteggiavano nella cappa grigia del cielo con il loro gracchiante stridio. L’umidità, come una patina invisibile, si appiccicava alla pelle e ai capelli. Non c’era segno di vita nell’isola. Oltre al muro si intra vedeva un complesso edificio di pianta rettangolare. L’impressione era che fosse stato abbandonato all’improv viso da chissà quanto tempo. Al centro svettavano due campanili con una strana cupola a cipolla. Intorno al fab bricato si estendeva un’imponente vegetazione, un grande parco in stato di abbandono, in cui si stagliavano alberi secolari dalla chioma inclinata. Il pesante portone d’in gresso, con la vernice scrostata, era ricoperto da un’edera infestante. A lato svettava una palma, alta e flessuosa, che sembrava aver trovato l’habitat ideale. A fatica abbiamo individuato il campanello, nasco sto dall’edera. Abbiamo suonato diverse volte, prima con paura, come se avessimo il timore di risvegliare i morti, poi con ostinazione. La prospettiva di passare un’ora lì fuori ad aspettare il vaporetto ci provocava un senso di smarrimento. Alla fine, si è affacciato un vecchio dall’aria scorbutica e accigliata. Sembrava infastidito che qualcuno avesse osato disturbarlo. Ho pensato subito a Igor, il mag giordomo del dottor Frankenstein nel film di Mel Brooks. Giusto il tempo per spiegare che cosa facevamo lì, che ci aveva già sbattuto il portone in faccia. Mario Galzigna non stava lì, ovviamente, dovevamo cer carlo altrove. Ricordo di essere stata io a impuntarmi per ché volevo a tutti i costi andare a San Servolo. Al ritorno, sul treno che ci riportava a Bologna, cercavo di giusti f icarmi e di dare un senso a quel viaggio. Galzigna non poteva che essere lì. Lì c’era l’archivio. Dove altro avremmo potuto trovarlo? Due settimane dopo abbiamo incontrato Mario Galzigna nella sede del dipartimento di Lettere e Filosofia, dopo aver f issato un appuntamento. È scoppiato a ridere quando gli abbiamo raccontato del nostro viaggio a San Servolo, dove avevamo immaginato di incontrarlo. E ha trovato ancora più divertente la storia un po’ romanzata del nostro incon tro con il custode scorbutico. (…)

Daniela Stefanutto si è laureata in Storia Contemporanea presso l’Università di Bologna con una tesi sul senso della morte nell’Ottocento. Ha continuato per alcuni anni a svolgere ricerca storica, dedicandosi poi all’insegnamento negli istituti superiori. Alcuni suoi racconti sono usciti in piattaforme e opere collettive. E prese fra le dita la notte, il suo romanzo d’esordio, è stato segnalato alla XXXVII edizione del Premio Calvino. Vive a Portogruaro.

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