domenica 4 maggio 2025

Nathan Greppi - LA CULTURA DELL'ODIO - Lindau

 
Nathan Greppi
LA CULTURA DELL'ODIO
Media, università e artisti contro Israele

Lindau
collana I Draghi
aprile 2025
pp. 422, euro 24
ISBN 9791255842163

 
Il 7 ottobre 2023 ha segnato una cesura nella storia d’Israele e del popolo ebraico: all’indomani del più grande massacro di ebrei avvenuto dopo la Shoah, in tutto il mondo si è fatto evidente un odio che fino a quel momento in molti non avevano voluto o non erano riusciti a vedere. Tra i principali focolai di questo sentimento vi sono ambienti che sarebbero preposti a contrastare il pregiudizio e l’intolleranza: i media, le università, il mondo dello spettacolo. Se in passato gli intellettuali e gli artisti si sforzavano di nascondere l’ostilità verso gli ebrei dietro la critica alle politiche israeliane, operando una distinzione tra antisionismo e antisemitismo, oggi l’odio fondato su basi etniche e religiose è assolutamente esplicito.
Nathan Greppi svolge una disamina puntuale ed esaustiva dei molti modi in cui esso si manifesta nel mondo della comunicazione e in quello accademico, nella musica e nella letteratura, nel cinema e nei fumetti, nella convinzione che solo svelandone le radici e la natura si può sperare di contrastarlo e di costruire un dibattito più serio e proficuo.

Un estratto dalla Premessa
Nell’estate 2018 i terroristi di Hamas attaccarono il territorio israeliano lanciando una grande quantità di aquiloni e palloni incendiari, che bruciarono innumerevoli ettari di terra al confine con Gaza e fecero strage di animali selvatici. Di fronte a tale disastro ambientale, in qualità di giornalista ripresi in un articolo una petizione apparsa sul sito Change.org per condannare questi atti. Tra i miei contatti all’interno della comunità ebraica il so stegno a questa e altre iniziative per denunciare tali fatti fu unanime, mentre tra i miei conoscenti non ebrei ci furono anche reazioni che mi delusero: per esempio, un attivista del WWF, al quale chiesi se volesse firmare la petizione, mi rispose che il WWF non poteva prendere posizione politica in merito al conflitto, ed espresse una generica condanna della violenza da entrambe le parti. Già allora questa posizione mi parve poco credibile: quando c’era da attaccare alcuni politi ci italiani, questa persona non si faceva scrupoli a prendere posizione. Invece, un mio ex-compagno in attività sportive, quando denunciai sui social lo scempio compiuto da Hamas, mi accusò di giustificare le politiche israeliane; lui stesso, che non aveva espresso alcuna condanna dei crimini ambientali dell’organizzazione terroristica, qualche anno dopo si candidò al consiglio comunale della sua città con il partito ambientalista Europa Verde. Questi due esempi non rappresentano casi isolati, ma rispecchiano un modo di pensare che da decenni è diventato sempre più pervasivo in Occidente, e che si è osservato a più riprese anche dopo i massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023. Infatti, nonostante quel giorno il movimento islamista abbia commesso la peggiore strage mai avvenuta in Israele dalla guerra d’indipendenza del 1948, nonché il più grande massacro di ebrei avvenuto in un solo giorno dai tempi della Shoah, in Occidente si è manifestata un’ondata di antisemitismo tra le più gravi dal secondo dopoguerra. Nel migliore dei casi, viene posta un’equidistanza che mette sullo stesso piano aggressore e aggredito; nel peggiore, c’è chi è arrivato a giustificare l’aggressore e a colpevolizzare l’aggredito. Fulcro di questa ondata d’odio non sono stati solo i movimenti neonazisti o neofascisti (la cui pericolosità non va comunque sottovalutata, come dimostra l’inchiesta di Fanpage Gioventù meloniana), ma anche e soprattutto l’estrema sinistra terzomondista. La ragione è legata al fatto che da decenni, forte degli insegnamenti di autorevoli pensatori del passato circa l’opportunità dell’instaurazione di un predominio culturale, quest’area politica ha sviluppato una forte presa soprattutto tra gli studenti e in tutti i settori della cultura: università, media, editoria, musica, produzioni cinematografiche e televisive. Più in generale, come ha spiegato il giornalista britannico Paul Johnson nel suo saggio Gli intellettuali, questi ultimi hanno sempre avuto, sin dai tempi di Rousseau, una forte propensione ad abbracciare ideologie violente e radicali. Figure che, secondo lui, tendono ad ostentare la propria militanza politica, convinte di comprendere la realtà meglio della gente comune. Se in passato gran parte degli intellettuali si sforzava maggiormente di nascondere l’odio per gli ebrei dietro la critica alle politiche israeliane, operando una distinzione tra antisionismo e antisemitismo e usando come «foglie di fico» alcuni intellettuali ebrei ostili a Israele, oggi l’odio fondato su basi anche etniche e religiose è molto più esplicito: lo provano i numerosi casi, avvenuti soprattutto negli Stati Uniti, di studenti ebrei che, per il solo fatto di essere ebrei e filoisraeliani, hanno subito minacce o vere e proprie aggressioni nei campus statunitensi. Secondo un rapporto dell’ADL (Anti-Defamation League), solo nei primi mesi dell’anno accademico 2023/2024, il 73% degli studenti ebrei negli atenei americani sono stati vittime o testimoni di episodi di antisemitismo. Questo odio non ha iniziato a diffondersi a partire dal 7 ottobre, ma possiede radici ben più profonde; infatti, da de cenni ad Israele vengono rivolte false accuse, come quella di aver applicato nei confronti dei palestinesi politiche paragonabili all’apartheid in Sudafrica, o addirittura di comportarsi con i palestinesi come la Germania nazista si comportò con gli ebrei. Se la prima accusa ha iniziato a venire gradualmente sdoganata a partire dal 2001, quando venne formulata durante la Conferenza contro il razzismo organizzata dall’UNESCO a Durban, la seconda è rintracciabile sui media italiani già dal 1967: dopo la guerra dei Sei Giorni, le sinistre occidentali si schierarono contro Israele perché era ciò che voleva l’Unione Sovietica. In Italia, in particolare, la nazificazione dello Stato ebraico esplose sui media e nel di battito pubblico nel 1982, durante la guerra in Libano. Queste tesi non tengono conto del fatto che in Israele i cittadini arabi hanno sempre avuto il diritto di voto e una rappresentanza politica nella Knesset, il parlamento, mentre i neri sudafricani non possedevano né l’uno né l’altro ai tempi dell’apartheid. E non tiene neanche conto del fatto che gli ara bi israeliani hanno avuto nel corso dei decenni un boom de mografico, passando dai 156.000 che erano nel 1948 agli oltre 2 milioni di oggi. Inoltre, ben due Primi Ministri israeliani, Moshe Katsav ed Ehud Olmert, sono stati condannati da ma gistrati arabi, rispettivamente George Karra e Salim Joubran. Chi scrive ha potuto constatare con i propri occhi, nel cor so di numerosi viaggi in Israele, che la realtà israeliana non ha nulla a che fare con i regimi ai quali viene paragonato: se in Sudafrica fino agli anni ’90 bianchi e neri non condivide vano nemmeno le stesse spiagge, in Israele si possono vedere bambini ebrei e arabi nuotare tranquillamente nella stessa piscina. E se laddove vigeva la segregazione razziale i neri non erano ammessi in certi locali, ogni volta che visito per ragioni famigliari il sud di Israele, noto beduini ed ebrei che mangiano negli stessi ristoranti. Anche se si volesse accettare il paragone con il caso sudafricano, sbandierato dalle sinistre filopalestinesi con un’enfasi che rasenta il dogmatismo religioso, il boicottaggio accade mico e culturale non otterrebbe comunque risultati positivi; come hanno spiegato nel 1995 gli studiosi F.W. Lancaster e Lorraine Haricombe, in un articolo realizzato per la rivista scientifica «Perspectives on the Professions» dell’Illinois In stitute of Technology, nel migliore dei casi il boicottaggio accademico del Sudafrica durante l’apartheid non ebbe un im patto rilevante, e nel peggiore danneggiò quegli accademici sudafricani che si battevano contro la segregazione. Nonostante ciò, gli attivisti filopalestinesi insistono con certi paragoni per fare leva sul risentimento e i sensi di colpa di chi ritiene l’Occidente il principale artefice di tutto ciò che è successo di sbagliato nel mondo, dal razzismo al colonialismo, dallo schiavismo all’imperialismo, mettendo in secondo piano gli errori e le colpe delle nazioni non occidentali. Esemplificativo in tal senso il pensiero del più importante poeta palestinese, Mahmoud Darwish, che in un’intervista del 1996 alla poetessa israeliana Helit Yeshurun, disse: «Sai perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi siete il no stro nemico. L’interesse per la questione palestinese deriva dall’interesse per la questione ebraica. Se fossimo in guerra con il Pakistan, nessuno avrebbe sentito parlare di me». Questo astio, assieme al falso paragone con l’apartheid sudafricano, ha portato nel 2005 alla nascita del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che mira ad isolare Israele sul piano internazionale tramite boicottaggi di tutti i suoi prodotti e delle sue istituzioni culturali, accademi che e sportive. Una campagna che in quasi un ventennio ha ottenuto vasti consensi, soprattutto nel mondo accademico e culturale anglosassone.

Nathan Greppi, giornalista, collabora con i media della Comunità Ebraica di Milano e con il quotidiano «La Ragione». Suoi articoli sono apparsi anche su «Il Giornale», «Il Foglio», «Il Post», «The Times of Israel» e «Tablet Magazine». Ha inoltre collaborato con Sorgente di vita, programma televisivo di Rai 3. È autore del volume «La stampa ebraica in Italia», edito da Giuntina nel 2024.

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