L’ex investigatore Marco Tanzi ha lasciato Milano da più di due anni. Nessun saluto, nessuna spiegazione, sua figlia e il suo migliore amico hanno provato invano a rintracciarlo, prima di rassegnarsi. Ora vive dall’altra parte del mondo: è capo scorta sulle navi mercantili in transito nel golfo di Guinea, che difende dagli attacchi dei pirati. Fino a quando una telefonata lo informa di qualcosa che è accaduto in Italia. Un evento che lo costringe a rievocare un episodio del passato, sepolto da oltre vent’anni in una stanza buia della sua coscienza. Ma i legami di sangue tornano sempre a reclamare i loro crediti, e per Marco non c’è altra scelta se non quella di tornare a Milano, dove dovrà combattere una guerra impari contro una pericolosa organizzazione criminale.
Luca Betti sta affrontando il periodo più nero della sua vita. Sospeso dal lavoro per aver condotto un’azione temeraria che ha messo a repentaglio la sua vita e quella di un collega, vive una profonda crisi nel rapporto con Sara, sua unica figlia. Fino a quando Marco Tanzi busserà alla sua porta per chiedergli aiuto. Per loro la città sta per trasformarsi in un territorio di guerra. Questa volta, però, la battaglia che li aspetta potrebbe essere l’ultima.
Un nuovo inizio per la premiata serie «Nero a Milano», un romanzo duro e avvincente che racconta una storia di amicizia e di vendetta. Il ritorno sontuoso di Romano De Marco, maestro del noir e dell’hard-boiled italiano.
Un estratto
Golfo di Guinea, cinquecento miglia al
largo di Lagos, Nigeria
Di fronte al mare aperto provo un senso di
desolazione. Questo deserto color cobalto mi ricorda Thomas Mann,
quando nel Doctor Faustus il protagonista chiede al diavolo di
spiegargli come è fatto l’inferno. La risposta non ha nulla a che
vedere con vulcani che eruttano lava e mostri che spingono dannati
lungo un sentiero di supplizi, pungolandoli con un forcone. Il
demonio racconta di un luogo remoto, isolato oltre l’umana
comprensione, lontano da tutto. Uno spazio afflitto da una solitudine
totale, senza redenzione né speranza. Ci penso mentre sono nella mia
cabina e cerco di riposare dopo un turno di notte. Prima che bussino
alla porta ho un presentimento su ciò che accadrà di qui a poco.
Guardo l’oceano attraverso il mio oblò, come se stessi osservando
l’inferno. E so che presto lo diventerà per davvero. Sono una
cinquantina le navi da guerra che pattugliano il golfo di Guinea, tra
marine militari dei paesi di bandiera, missioni nato e dell’Unione
Europea. Il loro scopo è prevenire gli attacchi dei pirati in un
tratto di mare che ha una superficie pari a otto volte quella
dell’Italia. Come se l’Italia intera fosse pattugliata da sole
sei volanti della polizia.
Tutte le navi da trasporto che percorrono questa rotta adottano misure passive standard: sbarramenti di filo spinato, aree di sicurezza blindate per il personale di bordo, rotte ad almeno duecentocinquanta miglia di distanza dalla costa, percorribili solo da barche attrezzate con tecnologia avanzata. Ma non basta. Lo scorso anno gli episodi di pirateria sono stati oltre duecento. Quando gli attacchi vanno a buon fine, gli equipaggi vengono presi in ostaggio e gli armatori sono costretti a pagare riscatti da due o tre milioni di dollari, senza contare le perdite per i ritardi nelle consegne e il fermo delle navi. I conti delle grandi compagnie internazionali iniziano a risentirne, la pirateria è diventata una voce di bilancio da sanare. Per questo sono entrati in campo i contractor privati. La Blackwing, colosso statunitense, offre soluzioni modulari, pattuglie di scorta da due fino a sei elementi dotate di armi da guerra. È un servizio che viola una decina di trattati internazionali e bypassa tutte le regole ufficiali di ingaggio, motivo per cui ogni cosa avviene in via ufficiosa. I mercenari vengono imbarcati con regolare contratto da marittimi e il loro armamento è celato dal doppio fondo di un container speciale. Il comandante della nave è al corrente, firma un accordo di riservatezza. Stessa cosa per i marinai anche se, a seconda del livello gerarchico, i particolari citati nell’accordo cambiano. Per tutti loro, comunque, è previsto un premio extra in denaro, in cambio del silenzio. Siamo su una immensa piazza d’acciaio, sferzata dal vento salmastro e arroventata dal sole. È occupata quasi interamente da parallelepipedi di metallo di diversi colori, impilati in blocchi alti fino a venti metri. È il ponte della Liparus, un mercantile tedesco con bandiera liberiana. Trecentosettanta metri di lunghezza per duecentomila tonnellate di metallo con un equipaggio di appena ventuno persone. Trasporta più di sedicimila container che in larga parte custodiscono auto di lusso per il mercato sudafricano. Jeff mi passa il binocolo. È un quarantaseienne ex marine, veterano della campagna americana in Afghanistan. Indossa anfibi, pantaloni della mimetica e un gilet tattico su una t-shirt verde militare, come me e gli altri due membri della squadra. «È a poco più di un miglio da noi e procede a circa venti nodi. Sembra un peschereccio d’alto mare che avranno dotato di radar, radiofaro, sonar per la navigazione a questa distanza dalla costa. Anche il motore è potenziato. Riesce a starci dietro senza problemi». «Stanno calando in acqua un gommone,» dico ripassandogli il binocolo. «Ha due motori fuoribordo da almeno quattrocento cavalli. A occhio e croce ci intercetteranno entro dieci o quindici minuti. Da questo momento attiviamo il protocollo first strike». Jeff se lo aspettava, ma vedo ugualmente i suoi lineamenti irrigidirsi. «Tu resta qui a monitorare la situazione. Diego, Alan, voi due recuperate l’equipaggiamento e portatelo alla piattaforma di tiro. Io vado in plancia a dare istruzioni». (...)
Tutte le navi da trasporto che percorrono questa rotta adottano misure passive standard: sbarramenti di filo spinato, aree di sicurezza blindate per il personale di bordo, rotte ad almeno duecentocinquanta miglia di distanza dalla costa, percorribili solo da barche attrezzate con tecnologia avanzata. Ma non basta. Lo scorso anno gli episodi di pirateria sono stati oltre duecento. Quando gli attacchi vanno a buon fine, gli equipaggi vengono presi in ostaggio e gli armatori sono costretti a pagare riscatti da due o tre milioni di dollari, senza contare le perdite per i ritardi nelle consegne e il fermo delle navi. I conti delle grandi compagnie internazionali iniziano a risentirne, la pirateria è diventata una voce di bilancio da sanare. Per questo sono entrati in campo i contractor privati. La Blackwing, colosso statunitense, offre soluzioni modulari, pattuglie di scorta da due fino a sei elementi dotate di armi da guerra. È un servizio che viola una decina di trattati internazionali e bypassa tutte le regole ufficiali di ingaggio, motivo per cui ogni cosa avviene in via ufficiosa. I mercenari vengono imbarcati con regolare contratto da marittimi e il loro armamento è celato dal doppio fondo di un container speciale. Il comandante della nave è al corrente, firma un accordo di riservatezza. Stessa cosa per i marinai anche se, a seconda del livello gerarchico, i particolari citati nell’accordo cambiano. Per tutti loro, comunque, è previsto un premio extra in denaro, in cambio del silenzio. Siamo su una immensa piazza d’acciaio, sferzata dal vento salmastro e arroventata dal sole. È occupata quasi interamente da parallelepipedi di metallo di diversi colori, impilati in blocchi alti fino a venti metri. È il ponte della Liparus, un mercantile tedesco con bandiera liberiana. Trecentosettanta metri di lunghezza per duecentomila tonnellate di metallo con un equipaggio di appena ventuno persone. Trasporta più di sedicimila container che in larga parte custodiscono auto di lusso per il mercato sudafricano. Jeff mi passa il binocolo. È un quarantaseienne ex marine, veterano della campagna americana in Afghanistan. Indossa anfibi, pantaloni della mimetica e un gilet tattico su una t-shirt verde militare, come me e gli altri due membri della squadra. «È a poco più di un miglio da noi e procede a circa venti nodi. Sembra un peschereccio d’alto mare che avranno dotato di radar, radiofaro, sonar per la navigazione a questa distanza dalla costa. Anche il motore è potenziato. Riesce a starci dietro senza problemi». «Stanno calando in acqua un gommone,» dico ripassandogli il binocolo. «Ha due motori fuoribordo da almeno quattrocento cavalli. A occhio e croce ci intercetteranno entro dieci o quindici minuti. Da questo momento attiviamo il protocollo first strike». Jeff se lo aspettava, ma vedo ugualmente i suoi lineamenti irrigidirsi. «Tu resta qui a monitorare la situazione. Diego, Alan, voi due recuperate l’equipaggiamento e portatelo alla piattaforma di tiro. Io vado in plancia a dare istruzioni». (...)
Romano De Marco esordisce nel 2009 nel Giallo Mondadori con Ferro e fuoco. Nel 2014 con Feltrinelli pubblica Io la troverò, il primo volume di «Nero a Milano», serie che proseguirà con Città di polvere (Feltrinelli, 2015) e Nero a Milano (Piemme, 2019). Tra le sue altre opere più note: L’uomo di casa (Piemme, 2017), Se la notte ti cerca (Piemme, 2018), La casa sul promontorio (Salani, 2022). Ha vinto numerosi premi letterari dedicati al giallo e al noir, tra cui il Premio Scerbanenco dei Lettori, prima con L’uomo di casa e poi con Nero a Milano. È responsabile della sicurezza di uno dei maggiori gruppi bancari italiani.
IN TOUR
7 maggio ore 18:30 Milano
Feltrinelli Buenos Aires
con Raul Montanari
7 maggio ore 18:30 Milano
Feltrinelli Buenos Aires
con Raul Montanari
8 maggio ore 18:30 Crema
Libreria Ubik
con Lorenzo Sartori
11 maggio ore 18:30 Ortona
Sala Eden del Comune di Ortona
con Antonio Tenisci
19 maggio ore 18:00 Modena
Libreria Ubik
con Fabiano Massimi
21 maggio ore 18:00 Bologna
Libreria Ubik
con Marilù Oliva


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