domenica 4 maggio 2025

Christiano Sacha Fornaciari - LA SEDIA DEL DRAGO - Lindau

 
Christiano Sacha Fornaciari
LA SEDIA DEL DRAGO
Violenza, tortura e morte nel Brasile dei generali

prefazione di Riccardo Noury
Lindau
collana I Leoni
con il patrocinio di Amnesty International
marzo 2025
pp. 272, euro 22
ISBN 9791255842170


Scritto con il rigore di un saggio storico e il ritmo incalzante di un romanzo, "La sedia del drago" racconta un Brasile poco noto e molto distante dallo stereotipo turistico «spiagge, calcio e samba», ancora oggi molto diffuso: è il Brasile dei generali e di una brutale dittatura che, nel quadro geopolitico disegnato dalla Guerra Fredda, a partire dal 1964 avrebbe governato il paese per oltre vent'anni, torturando e assassinando gli oppositori politici, perseguitando intellettuali e artisti, discriminando il mondo LBGTQ, ed esercitando una censura pervasiva su ogni mezzo di comunicazione. Facendo ricorso a fonti testimoniali, agli archivi dei quotidiani e delle riviste dell'epoca, a documenti originali reperiti negli archivi di Stato brasiliani e negli archivi digitali desecretati della CIA e del Dipartimento di Stato USA, nonché ai ricordi personali dell'autore, le pagine di questo libro descrivono con straordinaria efficacia eventi e atmosfere di quegli anni cupi, l'organizzazione e i principi dell'apparato repressivo, il coraggio dei dissidenti, le sofferenze delle vittime e la crudeltà dei loro carnefici. Un angosciante viaggio nel cuore di tenebra dell'uomo.
 
Prefazione

di Riccardo Noury

Ci sono più pentiti di mafia che di tortura. Di questi ultimi, in oltre quarant’anni di attività in favore dei diritti umani, ne ho conosciuto solo uno che, mentre era in servizio, decise di dire basta e fu costretto all’esilio dal suo paese, l’allora Zaire. Di persone che ammettono, accampando pretesti come l’aver agito secondo ordini di persone gerarchicamente superiori, ce ne sono, ma nei processi che spesso si celebrano anni o decenni dopo – se e quando si celebrano, perché le leg gi di amnistia sono dure da scalfire, tant’è che quella entrata in vigore in Brasile nel 1979 non è mai stata formalmente abolita. Perché ci sono pochi torturatori pentiti, dunque? Una prima risposta è che il processo di formazione del buon torturatore convince quest’ultimo di essere deposita rio di una missione salvifica (letteralmente: salvare la na zione da un pericolo, che nella seconda metà dello scorso secolo nelle Americhe è stato identificato nella sovversione comunista), di essere un prescelto, di far parte di un’élite cui è stato affidato un compito importante. Questo è il torturatore che crede nell’incarico affidatogli o viene convinto a crederci .
Ma la seconda risposta, a mio parere, è più convincente perché toglie al torturatore la percezione di avere una col pa, una responsabilità specifica. Egli (non è scorretto usare in questo testo il maschile sovraesteso, sebbene alla memo ria tornino i nomi di torturatrici come Lynndie England, la militare statunitense resa macabramente celebre dalle foto uscite dal carcere di Abu Ghraib, in Iraq, nel 2004) è solo un ingranaggio tra i tanti, svolge il suo lavoro seguendo delle procedure operative standardizzate, finisce il turno sapen do che gli subentrerà qualcun altro, lasciandolo libero di tornare a casa, salutare moglie e figli, portare fuori il cane, cenare, vedere un po’ di televisione e andare a dormire. Come emerge nitidamente dalle pagine che seguono, quello della tortura è un sistema, con le sue gerarchie, le sue regole, i suoi manuali, di cui in appendice sono riportati due esempi. Un sistema cui prendono parte in tanti ‒ mentre la persona che è torturata è sempre sola ‒, tenuto insieme da convenienze e complicità, dalla garanzia d’impunità, lungo una catena di comando che se è, sì, verticale perché il vertice superiore non può non sapere, ma si sviluppa anche orizzontalmente attraverso la partecipazione di un enorme numero di forze repressive. È un sistema che, se si prende delle licenze, si limita a esercitare fantasia e creatività nel dare un nome ai metodi di tortura: uno strumento per infliggere scariche elettriche viene battezzato «Brigitte Bardot», una tecnica è, con notevole competenza storica, denominata «corridoio di Danzica» (nell’Egitto di al-Sisi è la «cerimonia di benvenuto») e, per f inire, non manca la «giornata di pesca» (il detenuto legato viene ripetutamente immerso nell’acqua e tirato su appena prima che anneghi).
Infine, quello della tortura è un sistema internazionale: le tecniche di tortura vengono imparate all’estero e altrove, pur cambiando nome, e si replicano in epoche diverse. La tecnica del pau de arara brasiliano, nei regimi mediorienta li è chiamata del «pollo arrosto» o dello «spiedo»; il water boarding o annegamento simulato era praticato, prima che in Brasile, nell’Algeria francese e sarà praticato dai militari Usa a Guantánamo; la geladeira brasiliana richiama da vicino le cinque tecniche di privazione sensoriale applicate dal Regno Unito nelle carceri speciali nord-irlandesi; la cadeira do dragão che dà il titolo a questo libro, una rudimentale sedia elettrica collegata a un generatore a manovella, è l’antenata di innovativi modelli prodotti negli Usa su cui far sedere detenuti violenti o recalcitranti, mentre l’elettricità viene attivata da remoto attraverso un telecomando. Certo, quello della tortura è un sistema duro da scalfire. Non solo perché, come ho provato a spiegare sopra, nessuno dei torturatori parla. Ma anche perché non far parlare è il suo scopo finale. La tortura non uccide la persona (a quello pensano le squadre della morte, cui è dedicato un inquietante capitolo di questo libro), bensì la personalità: annichilisce e mostra come monito tale annichilimento. Eppure, le persone sopravvissute alla tortura parlano, si tolgono il tappo dalla bocca. Molte delle almeno 20.000 per sone torturate nei vent’anni di dittatura militare in Brasile hanno ripreso la parola anche se la memoria dolorosa non le abbandona. A quante è rimasto un ricordo come quello della diciannovenne giornalista televisiva Miriam Leitão, lasciata per un’intera notte nuda, al buio, in cella con un serpente, immobile senza neanche poter piangere perché «i serpenti sono attirati da ciò che si muove» ?
È questa, quella delle persone sopravvissute e di coloro che se ne prendono cura dal punto di vista fisico e psicologico, la potente sfida al sistema della tortura. Grazie a loro, alle loro dettagliatissime e coraggiose testimonianze, è stato possibile in Brasile ricostruire quel sistema. Il libro che vi apprestate a leggere si nutre di quel coraggio. Grazie a loro esistono da alcuni decenni convenzioni internazionali – come quelle delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa – che riconoscono la tortura come uno dei più gravi crimini di diritto internazionale e prevedono pene commisurate a tale gravità. Il reato di tortura è previsto in oltre cento legislazioni nazionali, compresa quella italiana, sebbene non manchi chi prova a «modificare» il suo testo (si legga: annacquarlo) o ad abolirlo del tutto: segnale, questo, che la legge funziona. La parola tortura, spesso considerata un tabù, compare in importanti sentenze di tribunali inter nazionali. Il sistema della tortura può dunque essere scalfito e iniziare a crollare. Chiudo questo breve testo permettendomi una sottolineatura personale: l’autore evidenzia che il primo rapporto sulle torture in Brasile, risalente al 1972, fu di Amnesty International.
Riccardo Noury
portavoce di Amnesty International Italia

Christiano Sacha Fornaciari, architetto, è nato a São Paulo del Brasile nel 1962. Si è laureato all’Istituto universitario di architettura di Venezia, dove è stato allievo di Massimo Cacciari per gli studi di estetica e di Franco Rella per gli studi di letteratura artistica. Componente della Consulta per l’arte sacra dell’arcidiocesi di Udine, si è perfezionato in Architettura e arte per la liturgia presso la Facoltà di sacra liturgia del Pontificio ateneo Sant’Anselmo in Roma.

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