Rosa Matteucci
CARTAGLORIA
Adelphi
collana Fabula / 418
aprile 2025
pp. 153, euro 18
ISBN 9788845939877
Torna Rosa Matteucci, «impietosa, feroce cantatrice del “nonostante”», come la definì una volta Carlo Fruttero, accostandola ai mani di Céline, Beckett e Thomas Bernhard. Questo nuovo romanzo, in bilico, come gli altri, sull’illusorio crinale fra comico e tragico, inizia con l’affannosa, tormentosa aspirazione di lei bambina a ricevere, come tutte le sue antenate e le sue simili, la Prima Comunione, per proseguire con la morte di un padre molto amato – sebbene molto scapestrato – e la sua sciamannata sepoltura. Nella scrittura, straziata e al tempo stesso grottesca, di Rosa Matteucci diventa comico perfino il viaggio, non solo interiore, che tale morte susciterà, alla ricerca di quell’antico Trascendente che il nostro tempo sembra aver smarrito: dall’India dei santoni ai Pirenei di Bernadette, dai gruppi di preghiera della Soka Gakkai a un’ardimentosa visita a un frate esorcista che, asserragliato in un eremo, vende messalini con audiorosario incorporato. Un vagabondaggio che culmina con la scoperta del rito tridentino, dove imparerà il protocollo delle genuflessioni, sempre rincorrendo una salvazione che pare rimessa in forse a ogni frase, a ogni respiro. Sino alla definitiva consapevolezza che è necessario accettare, e forse anche amare, la propria croce.
Un estratto
Sul filo dell’orizzonte della municipalità di Brno sta mio padre. Indossa un’attillata giacca blu monopetto, colletto rigido senza alette secondo le linee guida del prêt-à-porter maoista, tessuto di ottima lana pettinata, non certo modal misto a poliestere come si usa oggi. Aderentissimi pantaloni bianchi gli fasciano le gambette corte e scattanti, braghe candide non certo ingrigite da maldestri lavaggi in acqua fredda senza prelavaggio e sbiancante ottico: i suoi calzoni vengono bolliti in acqua di sorgente mista a cenere nel pentolone in uso al reggimento finché diventano abbacinanti. All’altezza del punto vita cinge il nobile ventre del padre mio un’aurea panziera contenitiva di spesso amoerro, non certo una di quelle pashmine sottili come carta da forno che svolazzano sugli usci dei bazar pakistani tra effluvi di incenso da poco prezzo ed esotici bastoncelli di palo santo. Dal fianco sinistro ammicca una nappa di seta che segnala la guerresca dotazione di uno spadino, ma l’arma è solo per bellezza e mai il padre mio la userebbe per offendere chicchessia. Il petto ampio e possente, sconfinato come l’altopiano del Tibet ove scorrazzarono Kipling e Gurdjieff, è attraversato da una cangiante fascia di seta rossa, non certo una di quelle fasce sintetiche in uso ai borgomastri che governano i comuni con meno di duemila anime. Stivali di finissima vacchetta tinta di nero modellano i vigorosi stinchi (questi ultimi segnati da due lunghe cicatrici verticali, sorelle minori del cheloide che taglia il suo busto dalla gola all’ombelico: nascosti ora, le une e l’altro, dagli abiti). Stivali di alta calzoleria, non certo gambali di equivoco pellame d’origine animale ammucchiati dentro un cesto e venduti a sette euro e novantanove centesimi al paio. Mio padre indossa un singolare copricapo d’antica foggia, blu ornato di una greca d’oro, che ricorda assai da vicino la forma del panzerotto pugliese, gravido di cime di rapa e mozzarella, bordato (il copricapo, non già il panzerotto) da una crestina di frange bianche erettili. Completano l’uniforme spalline con penero e polsini dorati. Sul petto s’ammucchia un’alluvione di decorazioni militari. Croci bretoni, medaglie, medagline, medaglioni, coccarde, nastri e nastrini, nonché le stellette da maresciallo. Il fazzoletto destinato a nettare le nobili narici del padre mio è ripiegato nel taschino secondo la moda pochette uomo. Immobile sulla collina di Preisnitz mio padre, munito di un binocolo da viaggio, scruta il panorama finché non individua una figurina incoronata da tralci di rovo che incespica sotto il peso di un basto. Mi ha riconosciuta. Sono spacciata. Mi concentro per diventare invisibile, complici gli sfilacci di nebbia che da due notti e due giorni ricoprono con plumbea mantiglia la piana, affinché il padre mio non mi convochi a rapporto sul cocuzzolo del modesto contrafforte che s’erge solitario e pretenzioso sul campo di battaglia, montarozzo di segatura e cartapesta da cui egli dirigerà le operazioni militari con il rigore e la possanza che ben s’addicono al suo status di aspirante aiutante di campo dell’Imperatore. Per una giornata intera mi sono illusa di scamparla, ho vagabondato nel macchione di rovi asfittici punteggiati di gramigna, fra canneti bruciati dal gelo, lande talmente inospitali che ormai nessuna salciaiola ci nidifica, c’ero soltanto io, la figlia intrufolatasi nella truppa dei soldati francesi che sta, secondo gli ordini di mio padre, ripiegando senza fretta sul fianco destro della montagnola perché i rinforzi partiti da Vienna, i cavalleggeri del maresciallo Davout, ancora non si vedono comparire e chissà quando arriveranno. I soldati si ritirano senza troppa convinzione, sognano di riscattare con una morte eroica la fatica e le illusioni di una malinconica campagna, ma a mio avviso meglio farebbero a riposare e starsene stravaccati dove sono, perché l’Imperatore sta negoziando l’armistizio.
Rosa Matteucci (Orvieto, 1960) è una scrittrice italiana laureata in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma, discutendo la tesi con Giuliano Amato.
Il suo romanzo d'esordio è Lourdes, pubblicato nel 1998, vincitore nel 1999 del Premio Bagutta nella sezione Opera Prima, e del Premio Grinzane Cavour nella sezione Giovane Autore Esordiente. Il libro è stato anche finalista al Premio Bergamo.Nel 2003 pubblica il romanzo Libera la Karenina che è in te, finalista al Premio Viareggio. Nel 2007 esce Cuore di mamma, vincitore del Premio Grinzane Cavour nella sezione Narrativa Italiana e del Premio Napoli. Nel 2007 vince il premio indetto dalla rivista "Lo Straniero" curata da Goffredo Foti con la seguente motivazione: é una delle voci più sicure, originali e necessarie del romanzo italiano, evocatrice di un mondo provinciale, di un'Umbria però universale per le sue solitudini e miserie, con una lingua di originale sottofondo dialettale, e dal punto di vista di un'alienazione senza riscatto, di tragicomica sofferenza. Nel 2008 pubblica India per signorine, un romanzo sull'esperienza indiana della scrittrice. Nel 2010 pubblica il romanzo Tutta mio padre col quale è finalista del Premio Strega e vince il Premio Brancati. Nel 2012 pubblica il romanzo Le donne perdonano tutto tranne il silenzio. Nel 2016 pubblica il romanzo Costellazione familiare,[6] "un teatrino degli affetti al tempo stesso struggente e grottesco, dove allo strazio si alterna continuamente il riso". Nel 2022 esce il libro La vita vince ancora una volta per Industria & Letteratura, in un'edizione italiana e ucraina (tradotta da Markian Prokopovych).
Ha recitato nei film Mi piace lavorare (Mobbing) (2004), diretto da Francesca Comencini, e La tigre e la neve (2005), diretto da Roberto Benigni.
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