Antonio Albanese
LA STRADA GIOVANE
Feltrinelli
collana I Narratori
aprile 2025
pp. 128, € 16
ISBN 9788807036521
Nino, giovane panettiere siciliano,
viene catturato dopo l’8 settembre. Dell’armistizio non ha capito
granché, credeva che i tedeschi lo rispedissero a casa dalla sua
famiglia, nelle Madonie, invece quel treno lo ha portato in un campo
di prigionia oltre le Alpi, a patire fame, freddo e paura.
Nino è un IMI, un internato militare, senza nemmeno i diritti di un prigioniero. Qualche conforto gli viene dall’amicizia con Lorenzo, un giovane toscano spigliato, che con lui lavora nelle cucine governate dal Piemontese, un gigantesco macellaio. Insieme, i tre colgono l’occasione dello scompiglio per i festeggiamenti di capodanno del ’44 per fuggire. Ma fuori il freddo, la fame e la paura non mordono meno: orientarsi non è semplice, trovare cibo e riparo è un’impresa, e la gente è terrorizzata e feroce. La Sicilia sembra irraggiungibile e Nino lascia sul terreno, chilometro dopo chilometro, innocenza e giovinezza.
Eppure, a sorreggerlo nel suo interminabile viaggio attraverso i territori occupati dai nazisti, dove combattono le bande partigiane e continuano i bombardamenti, e poi nella devastazione di un Sud martoriato dall’avanzata degli Alleati, c’è il ricordo della bellezza, il calore degli affetti. Mentre si nutre con le lumache rosse che emergono dal terreno dopo la pioggia, emergono anche le sue memorie: la festa del Santo a Ferragosto, il profumo di burro e vaniglia dei biscotti preparati dal padre, il sapore dei babbaluci in umido, l’emozione della Targa Florio, la celebre corsa automobilistica. E il calore dei baci di Maria Assunta che, forse, lo sta ancora aspettando e che lui desidera riabbracciare a ogni costo.
Ispirato a una storia familiare, La strada giovane è il primo romanzo di Antonio Albanese, che rivela un talento per la narrazione tesa, a tratti drammatica, venata di tenerezza. Nino è un protagonista struggente e vero, di cui è impossibile non innamorarsi.
Nino è un IMI, un internato militare, senza nemmeno i diritti di un prigioniero. Qualche conforto gli viene dall’amicizia con Lorenzo, un giovane toscano spigliato, che con lui lavora nelle cucine governate dal Piemontese, un gigantesco macellaio. Insieme, i tre colgono l’occasione dello scompiglio per i festeggiamenti di capodanno del ’44 per fuggire. Ma fuori il freddo, la fame e la paura non mordono meno: orientarsi non è semplice, trovare cibo e riparo è un’impresa, e la gente è terrorizzata e feroce. La Sicilia sembra irraggiungibile e Nino lascia sul terreno, chilometro dopo chilometro, innocenza e giovinezza.
Eppure, a sorreggerlo nel suo interminabile viaggio attraverso i territori occupati dai nazisti, dove combattono le bande partigiane e continuano i bombardamenti, e poi nella devastazione di un Sud martoriato dall’avanzata degli Alleati, c’è il ricordo della bellezza, il calore degli affetti. Mentre si nutre con le lumache rosse che emergono dal terreno dopo la pioggia, emergono anche le sue memorie: la festa del Santo a Ferragosto, il profumo di burro e vaniglia dei biscotti preparati dal padre, il sapore dei babbaluci in umido, l’emozione della Targa Florio, la celebre corsa automobilistica. E il calore dei baci di Maria Assunta che, forse, lo sta ancora aspettando e che lui desidera riabbracciare a ogni costo.
Ispirato a una storia familiare, La strada giovane è il primo romanzo di Antonio Albanese, che rivela un talento per la narrazione tesa, a tratti drammatica, venata di tenerezza. Nino è un protagonista struggente e vero, di cui è impossibile non innamorarsi.
Prologo
Nel letto che non smetteva di tremare, Nino pensava al calore del pane. Era certo che se ci avesse pensato abbastanza forte, sarebbe riuscito a sentirlo proprio sui palmi delle mani. Ma era difficile concentrarsi, se i denti battevano in quel modo.
Stringere Jean più di così non poteva: era tanto magro che gli avrebbe di sicuro fratturato qualche osso, e poi anche a lui dolevano le braccia. Gli facevano male sempre, la sera, poi la mattina capitava che si sentisse quasi in forze. Durava poco.
Provò a rimboccare meglio un lembo di coperta sotto al corpo dell’amico e così facendo si scoprì il sedere, immediatamente morso dal gelo. Ora aveva freddo dietro e caldo davanti perché Jean, sebbene tremasse, scottava. Non era il calore buono del pane, quello: era una febbre cattiva, velenosa. Nino sapeva che la febbre passava, l’aveva avuta anche lui, ma quella di Jean non voleva saperne.
“Devo andare in infermeria,” gli aveva fatto capire quel giorno fissandolo con gli occhi cavi, arsi.
“No, non andarci. Vai domani,” aveva insistito Nino. Dall’infermeria non si tornava, lo sapevano tutti.
Forse quella notte la febbre sarebbe calata.
La porta della baracca si spalancò di colpo.
“Strafübung! Raus! Alle raus!”
Il corpo di Nino scattò giù dal letto e fu in piedi prima ancora che la mente lo seguisse. Il corpo ubbidiva automaticamente a quelle voci urlate, agli ordini in tedesco, perché voleva sopravvivere. La mente di Nino, però, si ricordò di ammucchiare la sottile coperta e la sua giacca a coprire Jean, anche la testa. Nel buio e nella confusione, forse non si sarebbero accorti che era qualcosa più di un mucchietto di stracci.
Poi, anche lui corse fuori. Provò a incrociare gli occhi di qualche altro internato ma in quella baracca erano tutti francesi, non sapeva come comunicare. Tanto, si disse, era inutile cercare di capire il motivo di quella “esercitazione di punizione”. Forse qualcuno nel campo aveva fatto qualcosa, più probabilmente nessuno aveva fatto niente. Nel campo la prima a morire era stata la logica, tutti gli altri erano venuti dopo.
“Schnell!”
Il calcio di un fucile in mezzo alla schiena. Un dolore lancinante. Nino accelerò per tenere il passo di corsa. Non bastò.
“Schnell!!”
Altra botta in mezzo alla schiena, Nino perdette l’equilibrio. Un sasso, sotto il ghiaccio sottile e tagliente che copriva la melma del cortile. Quando si rialzò, sentì il sangue sulla faccia. Non si fermò a pulirselo, accelerò il passo per lasciare indietro la risata del suo aguzzino. Era un suono secco, feroce. Forse rideva in tedesco.
Quaranta giri del campo di corsa, per punizione, chissà di chi.
Quando Nino rientrò nella baracca, vide subito con sollievo che Jean era ancora lì. Non lo avevano trovato.
Non tremava più.
Nel letto che non smetteva di tremare, Nino pensava al calore del pane. Era certo che se ci avesse pensato abbastanza forte, sarebbe riuscito a sentirlo proprio sui palmi delle mani. Ma era difficile concentrarsi, se i denti battevano in quel modo.
Stringere Jean più di così non poteva: era tanto magro che gli avrebbe di sicuro fratturato qualche osso, e poi anche a lui dolevano le braccia. Gli facevano male sempre, la sera, poi la mattina capitava che si sentisse quasi in forze. Durava poco.
Provò a rimboccare meglio un lembo di coperta sotto al corpo dell’amico e così facendo si scoprì il sedere, immediatamente morso dal gelo. Ora aveva freddo dietro e caldo davanti perché Jean, sebbene tremasse, scottava. Non era il calore buono del pane, quello: era una febbre cattiva, velenosa. Nino sapeva che la febbre passava, l’aveva avuta anche lui, ma quella di Jean non voleva saperne.
“Devo andare in infermeria,” gli aveva fatto capire quel giorno fissandolo con gli occhi cavi, arsi.
“No, non andarci. Vai domani,” aveva insistito Nino. Dall’infermeria non si tornava, lo sapevano tutti.
Forse quella notte la febbre sarebbe calata.
La porta della baracca si spalancò di colpo.
“Strafübung! Raus! Alle raus!”
Il corpo di Nino scattò giù dal letto e fu in piedi prima ancora che la mente lo seguisse. Il corpo ubbidiva automaticamente a quelle voci urlate, agli ordini in tedesco, perché voleva sopravvivere. La mente di Nino, però, si ricordò di ammucchiare la sottile coperta e la sua giacca a coprire Jean, anche la testa. Nel buio e nella confusione, forse non si sarebbero accorti che era qualcosa più di un mucchietto di stracci.
Poi, anche lui corse fuori. Provò a incrociare gli occhi di qualche altro internato ma in quella baracca erano tutti francesi, non sapeva come comunicare. Tanto, si disse, era inutile cercare di capire il motivo di quella “esercitazione di punizione”. Forse qualcuno nel campo aveva fatto qualcosa, più probabilmente nessuno aveva fatto niente. Nel campo la prima a morire era stata la logica, tutti gli altri erano venuti dopo.
“Schnell!”
Il calcio di un fucile in mezzo alla schiena. Un dolore lancinante. Nino accelerò per tenere il passo di corsa. Non bastò.
“Schnell!!”
Altra botta in mezzo alla schiena, Nino perdette l’equilibrio. Un sasso, sotto il ghiaccio sottile e tagliente che copriva la melma del cortile. Quando si rialzò, sentì il sangue sulla faccia. Non si fermò a pulirselo, accelerò il passo per lasciare indietro la risata del suo aguzzino. Era un suono secco, feroce. Forse rideva in tedesco.
Quaranta giri del campo di corsa, per punizione, chissà di chi.
Quando Nino rientrò nella baracca, vide subito con sollievo che Jean era ancora lì. Non lo avevano trovato.
Non tremava più.
Antonio Albanese è attore, comico, cabarettista, regista e scrittore. Da molti anni interpreta, in televisione e a teatro, una galleria di personaggi che sono diventati parte della cultura e del costume italiano. Ha pubblicato numerosi libri, tra cui Patapim e patapam, Diario di un anarchico foggiano, Giù al Nord, Cchiù pilu pe’ tutti, Personaggi e (con Michele Serra) Psicoparty. Per Feltrinelli, Lenticchie alla julienne. Vita, ricette e show cooking dello Chef Alain Tonné, forse il più grande (2017).
Prologo
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