Ellen Hawley
OGNI GIORNO DI UNA VITA
(titolo originale Other People Manage, 2022)
traduzione di Lucrezia Giorgi
8tto Edizioni
aprile 2025
pp. 20, euro 18
ISBN 9788831263566
Nella Minneapolis di fine anni Settanta, Marge e Peg si incontrano nella Women's Coffeehouse, che non è tanto un luogo dove bere un caffè quanto un posto dove due donne possono ballare insieme in tutta sicurezza. Marge è un'autista di autobus e Peg sta studiando per diventare psicoterapeuta. Mentre ballano sentono la forma esatta l'una dell'altra e, nel modo in cui le persone intuiscono prima di sapere, capiscono che sono destinate a una vita insieme. Ma c'è qualcun altro che osserva, qualcuno il cui sguardo plasmerà il loro amore e la sua fissazione per Peg influenzerà il resto delle loro vite. In una relazione lunga vent’anni Marge e Peg affrontano le sfide comuni a ogni coppia e alcune del tutto inaspettate. Poi un giorno le cose cambiano e Marge dovrà fare i conti con il vuoto che la pervade, ma anche con ciò che le rimane e con una famiglia che non sa se può ancora chiamare sua.
Ogni giorno di una vita è un romanzo
sull'amore che si conquista e si preserva ogni singolo giorno. Parla
di famiglia e di perdita, di donne e diritti,
dei dettagli ordinari che elevano il quotidiano a
qualcosa di miracoloso. È come la vita dovrebbe essere: spesso
divertente, a volte commovente, ma soprattutto
straordinariamente saggia.
Un estratto
Ai tempi in cui Peg era ancora viva, in cui entrambe eravamo così giovani da non pensare alla morte, mi parlò dei cinque stadi del dolore. Tutte e due avevamo perso un genitore da piccole – suo padre a quattordici anni; mia madre a dodici – ciò nonostante ne discutevamo come se non avessimo mai conosciuto il dolore in prima persona. Erano gli anni Settanta. I cinque stadi erano eccitanti e innovativi e in quel momento lasciavamo che fossero nient’altro che l’argomento di una delle sue lezioni; qualcosa di cui poter parlare. Ora, quando cerco di ricordarli, mi vengono in mente solo negazione, negoziazione, qualcos’altro, un altro ancora e accettazione. Per quanto spesso io torni indietro a riempire i vuoti, non riesco a dare un nome agli stadi mancanti e mi sembra stranamente giusto. Io in uno di questi stadi vuoti ci vivo. La negazione non ha funzionato, non c’è niente che meriti una negoziazione, e che io sia dannata se cedessi all’accettazione. Se lo facessi, Peg tornerebbe forse indietro a bere con me un’ultima tazza di caffè dopo pranzo? Questo interstizio, questo stadio mancante, mi si addice. Forse è lo stadio del non-mi-importa. A Oklahoma City un palazzo del governo è stato fatto esplodere e dovrebbe importarmi ma non c’è una sola parte di me che lo creda. O.J. Simpson viene processato, ma l’assassinio di sua moglie è nulla in confronto alla morte di Peg. Se metà del Paese stesse annegando in mare, mi importerebbe ma solo se fossi sicura di essere nella metà che affonda. All’improvviso mi alzo dal divano, con l’impressione che la forza di gravità stia lavorando proprio contro di me. Non mi vuole in piedi. Mi vuole sbattuta sulla crosta terrestre, e in realtà non mi sembra un brutto posto dove f inire – naturale, poco inquinato, ecologico. Ma mi sono ripromessa che oggi avrei messo mano ai vestiti di Peg. Ecco cosa fare quando si è schiacciati dalla gravità e dal lutto. Ci si fissano dei compiti. Degli obiettivi. Scendere dal letto. Andare al lavoro. Lavare i piatti. Pulire la macchina. Prendere i vestiti che un tempo appartenevano alla persona che hai amato di più nella tua vita e darli a qualcuno che non sapeva niente di lei e a cui non frega niente che sia morta. Portarti la mano alla gola, strapparti via il cuore e lanciarlo sulla corsia veloce della I-94. I cinque stadi del dolore. Uno, due, cinque. Tempo scaduto. Passare oltre.
Sospiro, rilasciando aria e una piccola porzione di rimorso compresso che alberga dentro di me, e inizio a salire le scale, provando una leggera fitta al ginocchio sinistro ogni volta che mi solleva da un gradino a quello successivo. Sono sempre stata grande – alta, grossa, forte, di stazza maschile – e ho impiegato molto tempo per venire a patti con la mia taglia. Ora che finalmente ci sono riuscita, le mie ginocchia sono di un’altra opinione. I vestiti di Peg sono nella camera degli ospiti, di fronte alla nostra. La casa era stata costruita quando le persone possedevano meno cose, quando un armadio a due ante nella stanza da letto era abbastanza, così Peg aveva appeso i suoi vestiti nella camera degli ospiti, lasciando a me l’armadio più comodo; ci faccio caso solo ora e mi rendo conto che non ho mai pensato di ringraziarla, come se mettere i vestiti lì fosse un mio diritto. Pensavo a me come alla persona che si prendeva cura di lei e non notavo le cose che faceva per me. Ora ho voglia di spostarli tutti, i vestiti di Peg nel mio armadio e i miei nel suo. Allo scopo di bilanciare. O per penitenza. O per migliorare il mio carattere, ora che non c’è più nessuno al mondo per cui valga la pena di farlo. Apro l’armadio e con una mano sull’intelaiatura e l’altra sull’anta non riesco a pensare al passo successivo. Sotto le mie mani c’è il pezzo di legno che abbiamo sverniciato e trattato quando abbiamo comprato la casa, togliendo uno strato di pittura dietro l’altro, lo sverniciatore a consumarci i guanti di gomma finché non li abbiamo tolti, e chi può dire che non sia stata quella decisione, portare allo scoperto il legno originale, che abbia finito per uccidere Peg. Sul pavimento le sue scarpe sono ordinate in fila, con le punte rivolte verso il centro della stanza e, appesi alla sbarra, puliti e pronti per essere indossati, ci sono i vestiti di Peg – neri, verde oliva e vinaccia – che, come amava dire, non mostravano le macchie; in questo modo non doveva ammettere che le donavano e che lo sapeva. Cose che sembrano così importanti se esiste una persona che gironzola con quei vestiti e che, in caso contrario, non valgono nulla. Che strano che Peg possedesse queste cose, che per lei fossero importanti e che morendo mi ci abbia lasciata impantanata. Le grucce di filo metallico spuntano in angoli rigidi nelle spalle delle sue camicie, rendendole troppo sottili e solitarie per essere toccate, ma riesco a togliere una mano dal legno e a poggiarla sulla giacca di Peg che è appesa a un gancio all’interno dell’anta invece di fingere di drappeggiarsi attorno a un corpo. È una di quelle giacche lanuginose, da mezza stagione, spesse al tatto e confortevoli. Me la stringo al volto pensando Questo sì che è un gesto strano, e poi, metà d’accordo e metà in disaccordo, Questo è il lutto. Non piango ma è come se dovessi almeno desiderarlo. Invece ciò che provo è il nulla – assenza, vacuità, vuoto. Da una parte spero che Peg vi abbia lasciato un po’ del suo profumo, tuttavia, da quando aveva smesso di bruciare incenso, non gliene avevo più associato uno in particolare. Ma qui non sento niente di più intimo dell’odore di tessuto e di chiuso. L’odore della sua assenza. Lascio che la giacca torni al suo posto, pesco un fazzoletto usato in una delle tasche e me lo porto agli occhi – uno, poi l’altro – asciugandoli prima che abbiano il tempo di iniziare a sciogliersi. La consistenza del kleenex è legnosa e rigida. Immagino i germi di un raffreddore dimenticato da tempo che escono dal letargo e nuotano attraverso la superficie acquosa dei miei occhi, risalendo attraverso i dotti lacrimali per riprodurre nel dettaglio una serie di sintomi di cui non ricordo Peg abbia sofferto. Se anche il cancro potesse esser preso in questo modo, mi terrei lo stesso il fazzoletto incollato agli occhi e mi offrirei per ospitarlo. Non perché non veda l’ora di morire ma non sono più attaccata alla vita. E non mi sono mai sentita così vicina a Peg da quando lei è morta.
Ellen Hawley ha lavorato come
redattrice e copy editor, conduttrice di talk show, tassista,
cameriera, inserviente, assemblatrice, archivista e, per ben quattro
ore di puro panico, receptionist. Ha anche insegnato scrittura
creativa. È nata e cresciuta a New York, ha vissuto in Minnesota e
ora risiede in Cornovaglia, nel Regno Unito.
Ai tempi in cui Peg era ancora viva, in cui entrambe eravamo così giovani da non pensare alla morte, mi parlò dei cinque stadi del dolore. Tutte e due avevamo perso un genitore da piccole – suo padre a quattordici anni; mia madre a dodici – ciò nonostante ne discutevamo come se non avessimo mai conosciuto il dolore in prima persona. Erano gli anni Settanta. I cinque stadi erano eccitanti e innovativi e in quel momento lasciavamo che fossero nient’altro che l’argomento di una delle sue lezioni; qualcosa di cui poter parlare. Ora, quando cerco di ricordarli, mi vengono in mente solo negazione, negoziazione, qualcos’altro, un altro ancora e accettazione. Per quanto spesso io torni indietro a riempire i vuoti, non riesco a dare un nome agli stadi mancanti e mi sembra stranamente giusto. Io in uno di questi stadi vuoti ci vivo. La negazione non ha funzionato, non c’è niente che meriti una negoziazione, e che io sia dannata se cedessi all’accettazione. Se lo facessi, Peg tornerebbe forse indietro a bere con me un’ultima tazza di caffè dopo pranzo? Questo interstizio, questo stadio mancante, mi si addice. Forse è lo stadio del non-mi-importa. A Oklahoma City un palazzo del governo è stato fatto esplodere e dovrebbe importarmi ma non c’è una sola parte di me che lo creda. O.J. Simpson viene processato, ma l’assassinio di sua moglie è nulla in confronto alla morte di Peg. Se metà del Paese stesse annegando in mare, mi importerebbe ma solo se fossi sicura di essere nella metà che affonda. All’improvviso mi alzo dal divano, con l’impressione che la forza di gravità stia lavorando proprio contro di me. Non mi vuole in piedi. Mi vuole sbattuta sulla crosta terrestre, e in realtà non mi sembra un brutto posto dove f inire – naturale, poco inquinato, ecologico. Ma mi sono ripromessa che oggi avrei messo mano ai vestiti di Peg. Ecco cosa fare quando si è schiacciati dalla gravità e dal lutto. Ci si fissano dei compiti. Degli obiettivi. Scendere dal letto. Andare al lavoro. Lavare i piatti. Pulire la macchina. Prendere i vestiti che un tempo appartenevano alla persona che hai amato di più nella tua vita e darli a qualcuno che non sapeva niente di lei e a cui non frega niente che sia morta. Portarti la mano alla gola, strapparti via il cuore e lanciarlo sulla corsia veloce della I-94. I cinque stadi del dolore. Uno, due, cinque. Tempo scaduto. Passare oltre.
Sospiro, rilasciando aria e una piccola porzione di rimorso compresso che alberga dentro di me, e inizio a salire le scale, provando una leggera fitta al ginocchio sinistro ogni volta che mi solleva da un gradino a quello successivo. Sono sempre stata grande – alta, grossa, forte, di stazza maschile – e ho impiegato molto tempo per venire a patti con la mia taglia. Ora che finalmente ci sono riuscita, le mie ginocchia sono di un’altra opinione. I vestiti di Peg sono nella camera degli ospiti, di fronte alla nostra. La casa era stata costruita quando le persone possedevano meno cose, quando un armadio a due ante nella stanza da letto era abbastanza, così Peg aveva appeso i suoi vestiti nella camera degli ospiti, lasciando a me l’armadio più comodo; ci faccio caso solo ora e mi rendo conto che non ho mai pensato di ringraziarla, come se mettere i vestiti lì fosse un mio diritto. Pensavo a me come alla persona che si prendeva cura di lei e non notavo le cose che faceva per me. Ora ho voglia di spostarli tutti, i vestiti di Peg nel mio armadio e i miei nel suo. Allo scopo di bilanciare. O per penitenza. O per migliorare il mio carattere, ora che non c’è più nessuno al mondo per cui valga la pena di farlo. Apro l’armadio e con una mano sull’intelaiatura e l’altra sull’anta non riesco a pensare al passo successivo. Sotto le mie mani c’è il pezzo di legno che abbiamo sverniciato e trattato quando abbiamo comprato la casa, togliendo uno strato di pittura dietro l’altro, lo sverniciatore a consumarci i guanti di gomma finché non li abbiamo tolti, e chi può dire che non sia stata quella decisione, portare allo scoperto il legno originale, che abbia finito per uccidere Peg. Sul pavimento le sue scarpe sono ordinate in fila, con le punte rivolte verso il centro della stanza e, appesi alla sbarra, puliti e pronti per essere indossati, ci sono i vestiti di Peg – neri, verde oliva e vinaccia – che, come amava dire, non mostravano le macchie; in questo modo non doveva ammettere che le donavano e che lo sapeva. Cose che sembrano così importanti se esiste una persona che gironzola con quei vestiti e che, in caso contrario, non valgono nulla. Che strano che Peg possedesse queste cose, che per lei fossero importanti e che morendo mi ci abbia lasciata impantanata. Le grucce di filo metallico spuntano in angoli rigidi nelle spalle delle sue camicie, rendendole troppo sottili e solitarie per essere toccate, ma riesco a togliere una mano dal legno e a poggiarla sulla giacca di Peg che è appesa a un gancio all’interno dell’anta invece di fingere di drappeggiarsi attorno a un corpo. È una di quelle giacche lanuginose, da mezza stagione, spesse al tatto e confortevoli. Me la stringo al volto pensando Questo sì che è un gesto strano, e poi, metà d’accordo e metà in disaccordo, Questo è il lutto. Non piango ma è come se dovessi almeno desiderarlo. Invece ciò che provo è il nulla – assenza, vacuità, vuoto. Da una parte spero che Peg vi abbia lasciato un po’ del suo profumo, tuttavia, da quando aveva smesso di bruciare incenso, non gliene avevo più associato uno in particolare. Ma qui non sento niente di più intimo dell’odore di tessuto e di chiuso. L’odore della sua assenza. Lascio che la giacca torni al suo posto, pesco un fazzoletto usato in una delle tasche e me lo porto agli occhi – uno, poi l’altro – asciugandoli prima che abbiano il tempo di iniziare a sciogliersi. La consistenza del kleenex è legnosa e rigida. Immagino i germi di un raffreddore dimenticato da tempo che escono dal letargo e nuotano attraverso la superficie acquosa dei miei occhi, risalendo attraverso i dotti lacrimali per riprodurre nel dettaglio una serie di sintomi di cui non ricordo Peg abbia sofferto. Se anche il cancro potesse esser preso in questo modo, mi terrei lo stesso il fazzoletto incollato agli occhi e mi offrirei per ospitarlo. Non perché non veda l’ora di morire ma non sono più attaccata alla vita. E non mi sono mai sentita così vicina a Peg da quando lei è morta.
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