giovedì 3 aprile 2025

Genevieve Plunkett - NELLA LOBBY DELL'HOTEL DEI SOGNI - minimumfax

Genevieve Plunkett
NELLA LOBBY DELL'HOTEL DEI SOGNI
(titolo originale In the Lobby of the Dream Hotel, Catapult 2023)
traduzione di Francesca Montuschi
minimumfax
aprile 2025
pp. 340, euro 19
ISBN 9788833896021

 
Nell’hotel dei sogni Portia è libera: il suo talento le permette di comporre melodie sublimi e Alby Porter, il suo musicista preferito, comunica con lei dall’aldilà attraverso note di canzoni e stralci di lettere. Le basta chiudere gli occhi per ritrovarsi racchiusa in un enorme cuore umano e percorrerne gli atrii e le arterie, al riparo da qualunque imprevisto o spiacevolezza. Suona in una band, i Poor Alice, che ha un discreto seguito e il cui batterista la adora. I due amanti si danno appuntamento in collina ad aspettare albe e tramonti che non finiscono mai.
Appena fuori dalla lobby, però, Portia è un’ex paziente psichiatrica con due degenze alle spalle e una sindrome bipolare cronica da tenere sotto controllo. Suo marito, un procuratore, ne indaga i comportamenti come dovesse giustificare un capo d’accusa: sospetta che Portia abbia smesso di prendere gli psicofarmaci che ne troncavano la creatività artistica ma le consentivano di rimanere nella realtà; una realtà magari per lei deludente, ma in cui gli amici, il marito, il figlioletto Julian, le vogliono bene e hanno bisogno di lei.
Tra rimandi al passato e bagliori onirici prende forma un romanzo ricco di nicchie oscure, in cui una donna e il suo desiderio di libertà si scontrano con le responsabilità familiari e con la preoccupazione di un padre per un bambino che vede negletto e ignorato, se non addirittura in pericolo, per via dei comportamenti della madre smarrita in un coloratissimo sogno il cui contrappasso potrebbe essere crudele.

Un estratto
Il bambino voleva sapere del segno sul collo di Portia. In quattro giorni, era passato da un colore rossastro a qualcosa di più definito e violaceo e, alla fine, si era trasformato in una macchia bluastra più delicata, sebbene non meno preoccupante. Sembrava non riuscisse più a sopportare il grottesco mistero che celava. «Cosa è successo al tuo collo, mammina?», chiese, passandoci sopra il pollice. Stavano seduti sul futon, insieme, tanto per stare seduti. Il bambino, Julian, aveva sette anni ed era ancora molto affettuoso. Gli piaceva far scorrere la mano sulla schiena della camicia di Portia, e strofinare delicatamente il punto tra le sue scapole. Qualche volta canticchiava da solo o recitava a bassissima voce i momenti più belli del suo mondo intimo e fantastico, come se stesse trasmettendo il punteggio di una partita immaginaria. Questa abitudine era un’evoluzione delle vecchie inclinazioni, la prima delle quali risaliva a quando aveva quasi due anni, a quando giaceva con Portia nel suo letto, strizzandole il petto, qualche volta tirandole il capezzolo con le dita. La sensazione che provocava, un disgustoso, implacabile senso di frustrazione, veniva tollerata solo perché era il modo più veloce per farlo addormentare. Alla fine, con pazienza, Portia riuscì a persuaderlo a spostare la mano dal petto al suo stomaco, dove avrebbe pestato la carne della pancia, con indulgenza, come un gatto che impasta un cuscino. Non era molto meglio, ma le sembrava un progresso. Con gli anni, la mano del bambino si era spostata sul suo fianco, poi sulla sua schiena, dove tornava più volte durante il giorno, reclamando questo piccolo bisogno. La maternità era risultata più strana e intimamente compromettente di quanto Portia avesse immaginato. Le sue più grandi difficoltà non erano quelle pratiche – i capricci nel negozio di alimentari, la mancanza di sonno, le numerose ingiustizie domestiche durante la giornata. Sembravano invece emergere dalle viscere, come fermentazioni – pressioni silenziose, dolori imprevisti, e tutto quello che le procurava preoccupazione. Si preoccupava, soprattutto, dell’improbabile, i rami pesanti degli alberi che sarebbero potuti cadere sul bambino, le malattie che avrebbe potuto prendere nel recinto di sabbia. Subito dopo la nascita del bambino, Portia aveva maturato la convinzione, laconica ma terribile, che sarebbe impazzita e avrebbe gettato il bambino nell’acquario. Aveva accatastato una pila di libri sul coperchio, per scoraggiare la sua presunta follia. Le ci sarebbe voluto molto tempo, aveva ragionato, prima che quell’impulso svanisse, che il bambino fosse risparmiato. Avrebbe ripreso i sensi, come una sonnambula. C’erano così tanti accordi morbosi e immaginari come questo, da siglare, ora che suo figlio era al mondo e al mondo lei non poteva impedire di prenderlo, se avesse voluto.
La mattina dopo la nascita di Julian, il dottore che l’aveva aiutata a darlo alla luce si avvicinò al letto di Portia. Era un uomo con la barba grigia e curata e mani molto pelose. Come avevano potuto quelle mani afferrare un neonato?, pensò Portia. O infilarsi nella cavità morbida di un taglio cesareo? Alla fine, suo figlio era nato con parto cesareo e Portia fu costretta a letto, con la pancia malconcia e gonfia pinzata insieme, la sacca del catetere appesa sul lato del letto d’ospedale, a riempirsi lentamente di urina. Il dottore rivolse lo sguardo alla sacca. «Le donne hanno difficoltà». Portia pensò che si stesse riferendo al modo in cui aveva pianto prima dell’intervento, quando iniziava a non sentire più le gambe, come se la stessero facendo fuori a partire dal basso. Avrebbe trasalito per anni ogni volta che qualcuno le sfiorava il punto della schiena in cui l’ago freddo dell’epidurale le aveva toccato la spina dorsale. «Fin da bambine, le donne vengono educate a trattenere la vescica. A scuola, durante i lunghi viaggi in macchina... hanno troppa paura di chiedere di fermarsi, e osservano i cartelli di uscita scorrere velocemente fino a quando qualcuno non fa sentire la propria voce». Portia fissò gli occhi marroni, ravvicinati dell’uomo, cercando di capire cosa intendesse. I suoi occhi erano umidi per la compassione, una compassione calda e paterna, come quella di un predicatore, commosso dalle sue stesse parole. Attese che arrivasse al punto, ma l’uomo si limitò a posare i suoi occhi profondi su di lei fino a quando non sembrò che avessero raggiunto il loro intimo e reciproco appagamento. «Abbia cura di sé», disse, e toccò la guancia del neonato che stava dormendo sul petto di lei.

Genevieve Plunkett ha pubblicato racconti su New England Review, Southern Review, Literary Hub e altre riviste. Le sue storie le sono valse un O. Henry Award e un Andrew Lytle Prize. Oltre a Nella lobby dell’hotel dei sogni, suo primo romanzo, ha scritto la raccolta Prepare Her, ancora inedita in Italia. Vive in Vermont coi suoi due figli, e suona la chitarra elettrica in una band.

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